Economia di guerra: l’impatto dei conflitti sulle economie nazionali

Nel momento in cui scrivo questo pezzo, Israele e l’Iran si bombardano allegramente. A Gaza si continua a morire. Il conflitto in Ucraina, ed ormai anche in parte in territorio russo, continua a chiedere il suo tributo di vite umane. La Cina mostra i muscoli con il suo dispiegamento di forze navali sempre più lontano dalle proprie coste. Gli Stati Uniti, la Germania, e persino l’Italia, tra gli altri, tentano di sfruttare il momento per fare affari.

Lucrosi affari. Non lo sapevate? Beh, il rapporto dello Stockholm International Peace Research Institute (Sipri), diffuso a marzo 2025, ci informa che l’Italia ha raggiunto il sesto posto nella classifica mondiale degli esportatori di armi pesanti. Davanti alla Cina, giusto per dare un’idea. Le vendite sono più che raddoppiate nel periodo 2020-2024 rispetto al quinquennio precedente. Ormai, ogni 20$ di commercio internazionale di armi, 1$ viene in Italia. Ovviamente, questo senza tener conto degli 800miliardi di euro previsti dal programma ReArm Europe, di cui 20 dovrebbero alimentare la spesa militare italiana.

L’andamento dell’export di armamenti italiano dal 1991 al 2024. Photo credit: Rete Italiana Pace e Disarmo

Lucrosi guadagni, dicevamo. Ma, come sempre, il problema è più complesso. La parola chiave è “dual-use”, la caratteristica di molti investimenti effettuati nel e per il settore militare di potere essere convertiti anche nel e per il settore civile. Per esempio, se state leggendo questo articolo è grazie a degli investimenti fatti nel settore militare. Anche se ormai l’uso della “rete” digitale è talmente diffuso che ci sembra un qualcosa di assolutamente evidente, ci dimentichiamo spesso che la trasmissione, la ricezione e la ricostruzione delle informazioni non può fare a meno di opportuni protocolli.

I meno giovani si ricorderanno di questa sigla: TCP/IP. Transmission Control Protocol/Internet Protocol. In sintesi, l’IP stabilisce dove devono andare i dati (come un indirizzo su di una busta), mentre il TCP si assicura che i dati arrivino correttamente e nell’ordine giusto, anche se vengono suddivisi in piccoli pacchetti lungo il percorso. Ed il TCP/IP è stato ideato negli anni ’60 in ambito militare per creare un sistema di comunicazione resiliente e decentralizzato, capace di funzionare anche in caso di attacco nucleare o interruzioni gravi, in un contesto di Guerra Fredda. Si sarebbe potuto inventare in ambito civile? Ovviamente si, ma così non è stato. Tra l’altro, quando il dual-use va dal civile al militare, questo viene guardato con grandissimo sospetto.

L’andamento dell’export di armamenti da parte dei principali produttori di armi a livello globale dal 2020 al 2024. Photo credit: Sipri.

Il caso di cronaca è il nucleare iraniano. Tecnologia per produrre energia elettrica riducendo la dipendenza dell’economia iraniana dalle estrazioni di petrolio, o tentativo di aggirare il trattato di non proliferazione delle armi nucleari al quale l’Iran aveva aderito a suo tempo? Oltretutto, sviluppare una tecnologia dual-use in ambito militare ha un enorme vantaggio: la segretezza. E questo permette di investire in innovazione, tipicamente tecnologica, senza essere costretti a sottoporsi a periodiche ispezioni per la verifica dell’uso esclusivamente civile di tale innovazione. E questo ha un enorme valore economico per gli attori coinvolti.

Del resto, non è un caso che soggetti autorevoli, citiamo la Fondazione Einaudi, di orientamento dichiaratamente liberale, commentino il ReArm Europe con uno studio intitolato “Difesa, l’industria necessaria”. In effetti, assicurare la superiorità militare nel contesto del nostro presente richiede lo sviluppo di cosiddette “tecnologie abilitanti”. Queste sono invenzioni o innovazioni che hanno il potenziale di innescare un cambiamento radicale nelle capacità di un utente, di un’azienda o di un’intera cultura. Non sono semplicemente miglioramenti incrementali, ma veri e propri motori di trasformazione economica e sociale. Visto il loro portato innovativo, esse richiedono un’intensa attività di ricerca e sviluppo, posizionata tipicamente alla frontiera della conoscenza delle singole discipline.

Di conseguenza, esse richiedono ingenti spese per essere consolidate e messe in opera ma, d’altro canto, hanno effetti benefici su tutto il sistema che le genera. Questi effetti vanno dalla creazione di posti di lavoro qualificati, alla possibilità di applicazioni derivate (di nuovo il nostro “dual-use”), con conseguente impatto in termini di efficienza e produttività dei processi produttivi. Alcuni esempi concreti legati al contesto attuale sono: lo sviluppo dei computer quantistici e dei sistemi di intelligenza artificiale, le nuove tecnologie energetiche, nuove tecniche dei materiali, le tecnologie spaziali e tutto il mondo “cyber”.

Da un punto di vista più a breve termine, le statistiche storiche sulla crescita economica mostrano come il periodo di maggiore sviluppo negli Stati Uniti si sia verificato sotto la presidenza Roosvelt, durante la Seconda Guerra Mondiale, con tassi di crescita superiori al 10%, in particolare grazie agli investimenti pubblici in funzione bellica. Peraltro, dopo la guerra, gli Stati Uniti hanno potuto sfruttare l’esistenza di una capacità industriale intatta, essendo stati poco coinvolti territorialmente nel conflitto, e una forte domanda interna ed estera in seguito alle distruzioni subite, al contrario, dal settore industriale europeo e asiatico era in rovina.

La crescita esponenziale dell’economia americana nell’immediato dopoguerra. Photo credit: Historical Stats US

Questo ha portato a un periodo di crescita robusta e diffusa, con un’espansione notevole del PIL e un aumento significativo del tenore di vita. Ad esempio, il periodo tra ottobre 1949 e luglio 1953 ha visto una crescita annua del PIL di poco inferiore al 7%. Infine, se allarghiamo il ragionamento alla lotta per il dominio delle risorse naturali, al tempo stesso sempre più scarse e sempre più vitali per un sistema economico basato sulla tecnologia, allora si comprende come le prospettive belliche possano essere allettanti, in particolare dal punto di vista dei Paesi maggiormente ricchi ed industrializzati.

In fondo, in questo si nota il reflusso civile della nostra società, la quale va a riprendere codici e convinzioni che sembravano superate con la fine del “mercantilismo”. Questa corrente di pensiero proto-economico, egemone tra il 1500 e la metà del 1700, sviluppava l’idea centrale che il benessere di uno Stato dipendesse dalla quantità di metalli preziosi posseduti. Le ricette per la ricchezza erano dunque il protezionismo, la ricerca di un surplus commerciale nel commercio internazionale e, ovviamente, le guerre di conquista coloniale. Si era pensato che a partire dei lavori di Adam Smith, il quale mette l’accento sul benessere diffuso della popolazione e l’importanza di migliorare le condizioni di vita dei cittadini meno abbienti, questa parentesi triste fosse stata superata. Apparentemente, il tarlo è ancora vivo, e tristemente vegeto.

Siamo regrediti di sei secoli: il solo pensiero è vertiginoso. Siamo tornati vittime del cosiddetto “paradosso della finestra rotta”, peraltro identificato e spiegato da un economista liberale nel 1850: Frédéric Bastiat. Nel suo celebre “Ciò che si vede e ciò che non si vede“, Bastiat descrive la storia di un commerciante a cui un ragazzino rompe una finestra.

Dapprima, i passanti simpatizzano con il commerciante, ma presto cominciano a suggerire che la rottura della finestra crei lavoro per il vetraio, che potrà comprare del pane, creando lavoro per il panettiere, che potrà comprare scarpe, creando lavoro per il calzolaio, ecc. Infine, i passanti convengono sul fatto che il ragazzino non è affatto colpevole di vandalismo. Lo ritengono invece un benefattore pubblico, avendo la sua azione generato benefici economici per tutti in città.

In sintesi, Bastiat ci ricorda che si sempre vede “il PIL”, cioè il flusso di ricchezza generato, mentre è davvero difficile accorgersi del capitale distrutto e del mancato guadagno per la società derivato dal potenziale migliore uso delle risorse. Ed in effetti, lo abbiamo visto, più finestre si rompono, più crescita economica apparente viene generata.

L’economista francese Claude-Frédéric Bastiat (1801-1850). Photo credit: Wikipedia.

Dal punto di vista di scrive, questa è soltanto una cinica illusione. E, per fortuna, non è un punto di vista del tutto isolato se, come è vero, numerosi economisti applicati italiani si sono riuniti recentemente a Lecce per riflettere su come “disarmare” l’economia.

In effetti, la guerra, e prima ancora di essa l’economia di guerra, distrugge molto più di quello che crea. Distrugge tutti gli usi alternativi a cui si sarebbero potute dedicare le risorse distorte verso l’industria bellica. Distrugge prospettive, ed in questo modo distrugge la libertà delle persone, cosa che il premio Nobel per l’economia Amartya Sen ha dimostrato essere antinomico allo sviluppo. E, quando diventa guerra guerreggiata, distrugge vite, infrastrutture, ed ovviamente le stesse armi che servono per combattere e che devono essere costantemente riprodotte.

Photo credit: CiMET.

Tanti soldi. Tantissimi soldi. E sotto il peso del fascino che l’accumulo di ricchezze esercita su alcuni, si realizza la profezia/costatazione di Galbraith, il quale nel 2004 scriveva (traduzione a cura di chi scrive): “Le imprese hanno ridefinito l’interesse pubblico adattandolo ai loro bisogni. Decidono che il progresso sociale consisterà in più automobili, televisori, apparecchi di ogni tipo, un aumento di tutti i beni di consumo. E soprattutto, sempre più armi letali. Questo è il criterio del fiorire umano. Gli effetti sociali negativi come l’inquinamento, la distruzione dei paesaggi, il sacrificio della salute dei cittadini, le minacce di interventi armati e le morti non contano.”

ReArm Europe? DisArm the World.

,

Lascia un commento