Facciamo un esempio. Immaginate di essere una qualsiasi merce prodotta a Palermo. Supponiamo che una persona che abita a Milano voglia comprarvi. Andate all’aeroporto, fate un biglietto (buona fortuna), viaggiate e, una volta atterrati, prendete un taxi e raggiungete il vostro acquirente. Contemporaneamente, una persona di Palermo acquista una merce vostra sorella, perfettamente identica a voi, direttamente in città. Intuitivamente, all’azienda produttrice è costato di più il prodotto venduto a Milano che non il prodotto venduto a Palermo, a causa dei costi di trasporto o, come si usa dire in termini più accurati, dei costi di logistica esterna.
Supponiamo ora che a Milano esista una azienda che produce un prodotto molto simile a voi. Quale prodotto verrebbe acquistato? La teoria economica ci dice che, se i prodotti sono talmente simili da non permettere al consumatore di capire quale sia migliore o peggiore, allora verrà acquistato il meno caro. Un po’ come quando dovete fare il pieno alla macchina e il distributore che fa l’extra-sconto di un centesimo ha la coda, mentre il distributore di fronte, che non lo fa, è totalmente vuoto.
Che poi, a un centesimo/litro di differenza ci voglia un pieno di 100 litri per risparmiare un singolo euro, rende l’idea quanto gli attori economici possano essere perfettamente razionali, ma non del tutto ragionevoli…ma questa sarebbe un’altra storia. Tornando ai nostri prodotti, è evidente che il prodotto palermitano sarà venduto a Milano (in questo mondo schematizzato) solo e soltanto se il suo costo di produzione è talmente più basso di quello del prodotto milanese da rimanere meno caro anche dopo l’aggiunta della logistica (distribuzione, advertising, etc).
Ovviamente questo differenziale di costo è tanto meno vincolante quanto più i due prodotti sono diversi fra loro, e quanto è più elevato il valore che il consumatore dà a questa differenza. Di conseguenza, i territori si scambiano prodotti quanto più: 1) la qualità percepita del prodotto importato è superiore a quella del prodotto locale; 2) il costo di produzione del prodotto importato è inferiore a quello del prodotto locale; e 3) i costi di logistica (ripartiti sulle unità di prodotto) sono bassi.
Il ragionamento non cambia se al posto di due città italiane ci posizioniamo su due località situate in due stati diversi, per esempio all’interno dell’Unione Europea: eccoci nel contesto del commercio internazionale. I numeri ci dicono che il commercio internazionale è un fenomeno estremamente rilevante e con un forte andamento crescente negli ultimi 25 anni. E questo malgrado qualche brusca frenata a seguito delle ripetute “crisi” dei sistemi economici attuali, quale la crisi dei “subprime” (dato 2009), quella del debito sovrano (dato 2016) ed ovviamente la crisi derivata dalla pandemia di Covid-19 (dato 2020).
Secondo gli ultimi dati a disposizione, il commercio internazionale ha mosso circa ventritremilasettecentomiliardi di dollari (per capirci, 23.700.000.000.000 US$) nel solo 2022, e potrebbe raggiungere in trentremilamiliardi (33 T$, nella notazione sintetica) alla fine del 2024, secondo proiezioni delle Nazioni Unite. Il che, peraltro, sarà un record. Congratulazioni.
Visto che tutto va così bene, cosa ci vengono a fare in questo discorso i dazi doganali e tutta la retorica “protezionistica” e “nazionalistica”, così diffusa nel discorso pubblico contemporaneo? Torniamo un attimo al nostro prodotto che viaggia da Palermo a Milano. Il nostro acquirente milanese ha un amico nella bella cittadina lacustre di Lugano, Svizzera, a meno di due ore salvo traffico dal capoluogo lombardo. Un piccolo supplemento di logistica e la consegna è fatta. Ora, supponiamo che i produttori svizzeri (ovviamente è un esempio) si sentano ingiustamente aggrediti da una produzione che, ai loro occhi, si basa sullo sfruttamento del lavoro (in fondo, secondo i dati della Banca Mondiale, il reddito mediano in Svizzera espresso a parità di potere d’acquisto, e quindi tenuto conto del diverso costo della vita, è di circa il 40% più elevato che in Italia).
Poiché il costo del lavoro incide sui costi di produzione, favorendo in moto eticamente intollerabile (lo sfruttamento è una brutta cosa) la produzione italiana, la Confederazione Elvetica potrebbe decidere di mettere un bel casello all’altezza della frontiera, e di fare pagare un robusto pedaggio ad ogni unità di prodotto che vuole transitare dall’Italia verso la Svizzera. Questo pedaggio, rappresenta il “dazio”, che poi è lo stesso dell’espressione “pagare dazio”. Vuoi esportare i tuoi prodotti? Allora paga.
Dazi si, o dazi no?
Esattamente come abbiamo visto per i costi di logistica, il costo fiscale (il dazio è una misura fiscale a vantaggio dello Stato che lo impone) incide sulle scelte dei consumatori, nella misura in cui esso contribuisce a rendere le merci straniere meno convenienti delle merci nazionali. Di conseguenza, la presenza di dazi su di una specifica produzione tende a proteggere i produttori nazionali, sollevandoli in parte dal peso della concorrenza estera e quindi facilitando nell’immediato l’occupazione nei settori protetti.
Perché allora, a partire dall’esperienza del GATT (Accordo Generale sul Commercio e le Tariffe, 1948-1994) e successivamente nel quadro della WTO (Organizzazione Mondiale del Commercio, dal 1995 ad oggi), si è sempre cercato di ridurre considerevolmente le barriere fiscali da parte degli Stati al commercio internazionale? E perché la “libera circolazione delle merci” viene ritenuta un pilastro fondante della stessa Unione Europea?
La risposta è che, dati alla mano, la riduzione dei dazi è stata favorevole a tutti gli Stati coinvolti, almeno nei suoi effetti aggregati. Questo si spiega facilmente passando da una ottica statica ad una dinamica. Per esempio, proteggere un settore può condurre ad un peggioramento della produttività e della qualità dei prodotti, nonchè alla riduzione del tasso di innovazione dei settori produttivi, mantenendo elevati i prezzi dei prodotti e quindi danneggiando i consumatori (cioè tutti).
D’altra parte, in un sistema produttivo mondiale dove nessun paese controlla totalmente la filiera produttiva (dalle materie prime al prodotto finale) di prodotti diventati sempre più complessi, azioni aggressive sui dazi possono scatenare ritorsioni da parte dei paesi che li subiscono, con l’effetto di rendere più cari per i consumatori una vasta gamma di beni e servizi. L’aumento dei prezzi a causa della guerrilla fiscale contribuisce a impoverire i consumatori e in definitiva danneggia tutte le economie coinvolte, ivi compreso dal punto di vista occupazionale.
Concretamente, i dati pubblicati dal WTO (World Trade Report 2024) mostrano come, da un lato, i maggiori beneficiari della riduzione delle barriere al commercio internazionale siano stati i Paesi maggiormente sviluppati, dall’altro come l’inclusione degli altri Paesi nel contesto degli scambi abbia permesso di ridurre in modo molto significativo la povertà in tali Paesi, anche escludendo il caso particolare dell’economia cinese. Questo ha contribuito a riavviare un percorso di convergenza dei sistemi economici verso l’alto, nonché a ridurre, sia pure in modo ancora insufficiente, il livello di disuguaglianza intra-paese (in media).
Tuttavia gli stessi dati mostrano anche che esistono Paesi (sia ricchi che poveri) che non riescono a beneficiare pienamente del commercio internazionale, a causa di ragioni strutturali legate alla loro situazione di partenza. Anche se può sembrare controintuitivo, produrre beni complessi è molto più costoso nei Paesi poveri. Territori isolati, come le cosiddette “piccole isole” possono avere costi di logistica eccessivamente elevati. Una concentrazione eccessiva dei profitti della globalizzazione in poche mani, cosa che non accade in tutti i Paesi in modo uniforme, si rivela anch’essa dannosa. Inoltre, il modello di sviluppo basato sul commercio si rivela carente dal punto di vista ambientale, con conseguenze drammatiche sulle comunità periferiche e maggiormente vulnerabili.
Infatti, oltre a una produzione sempre crescente, con sempre maggiore pressione sulle risorse naturali di base, la logistica introdotta quasi scherzando all’inizio di questo testo ha un impatto ambientale considerevole, in particolare sull’ambiente marino, sia direttamente tramite le emissioni in atmosfera, gli sversamenti in mare o la diffusione involontaria di rifiuti plastici, sia indirettamente attraverso il canale degli approvvigionamenti energetici e dell’immensa industria logistica a terra necessaria allo smistamento. Il trasporto terrestre, spesso su gomma, contribuisce alla diffusione di microplastiche , nonché di polveri sottili. Ed infine, la logistica virtualizzata, ovvero via le reti di comunicazione digitale, non è affatto neutra né in termini di pressione sulle risorse minerarie scarse, necessarie per le infrastrutture, né in termini di costi energetici e sfruttamento delle risorse idriche. Ma stiamo divagando, torniamo ai nostri “semplici” dazi e ad uno dei personaggi del momento.
Il caso Trump
Con la vittoria nelle elezioni presidenziali americane del 2024, Donald Trump è tornato al comando con una promessa chiara: proteggere l’economia americana e riportare i posti di lavoro a casa. Un pilastro centrale della sua campagna è l’imposizione di dazi sulle merci straniere, una proposta che mira a riprendersi l’economia nazionale, proteggere le industrie statunitensi e “Rendere l’America di Nuovo Grande”.
Come appare intuitivo alla luce di quanto detto prima, questo allarma moltissimi economisti i quali temono che, per l’appunto, ciò possa scatenare una guerra internazionale dei dazi che potrebbe avere costi economici molto elevato e, tenuto conto delle interconnessioni del sistema produttivo mondiale, conseguenze negative anche sui Paesi che non intendono partecipare direttamente alla bagarre.
Tuttavia, osservando l’immagine qui sopra (UNCTAD – Global Trade Update December 2024) possiamo notare come svariati paesi nel mondo usino le barriere tariffarie contro gli Stati Uniti, ottenendone un vantaggio economico significativo (i paesi in rosso acceso). Tra questi troviamo i più grandi partner (e concorrenti) degli USA sul mercato globale (l’Unione Europea e la Cina), potenze industriali emergenti (l’India) ed antagonisti geopolitici (la Russia, nonché la stessa Cina).
Questo ci segnala come, in un contesto di tensioni crescenti, l’analisi delle politiche commerciali dei diversi Stati non possa essere letto unicamente sotto il prisma del contributo alla crescita economica. Del resto, il mondo (globalmente ed in media per persona) non è mai stato così “ricco” come lo è oggi. Il problema si trova piuttosto nella distribuzione di tale ricchezza globale. Al contrario, i dazi appaiono come una delle tante leve all’interno della redistribuzione del potere a livello internazionale e del processi di ridefinizione delle sfere di influenza.
Del resto, anche in questo la storia andrebbe ricordata: la prima “Comunità Europea”, fu quella del carbone e dell’acciaio. La messa in comune di queste due risorse ha sicuramente contribuito allo sviluppo industriale europeo nel dopoguerra.
Uno degli scopi non (troppo) detti di tale accordo fu però anche quello di rendere interdipendenti le industrie belliche francesi e tedesche, evitando che tali due potenze potessero continuare a farsi facilmente guerra l’una all’altra, rompendo una lunga litania di conflitti armati sul nostro continente che per tanti anni era stato il quotidiano dell’Europa.
Granello di sabbia alla periferia della galassia, sono tante cose e nessuna allo stesso tempo. Sono un soggetto neurodivergente, ho una doppia formazione in materie aziendali e in materie più specificatamente economiche, e sono un soggetto maschio, bianco, di mezza età. Lo so, un sacco di difetti. Lavoro in università, ma non mi considero un accademico. Sono membro del Mensa Italia, e vi posso garantire che le persone intelligenti possono essere brutte persone (vi amo tutti). Il mio campo di predilezione è lo sviluppo, il benessere, la libertà, la bellezza e le persone. Non è uno? Ne siete sicuri?