L’8 e il 9 giugno, quindi proprio in questio giorni, si vota per cinque referendum: quattro hanno per argomento le tematiche relative al lavoro, uno la riduzione dei termini per poter richiedere la cittadinanza italiana da parte di residenti stranieri. Spoiler alert: tutti e cinque i quesiti affrontano la questione della precarietà.
Prendiamo il caso del referendum che riguarda i licenziamenti illegittimi. Ripetete con me: “illegittimi”. Si, perché in Italia è perfettamente possibile licenziare un lavoratore per alcune cause stabilite dalla legge. Non vieni prolungatamente al lavoro senza motivo? È legittimo licenziarti. Ti prendi 100 euro dalla cassa per farti la serata? È legittimo licenziarti. Eserciti violenza o profferisci minacce sul posto di lavoro? È legittimo licenziarti.
E lo è anche se tu violi delle non meglio precisate “norme aziendali”, se produci uno “scarso rendimento prolungato”, se usi in modo improprio gli strumenti aziendali, in presenza di una crisi aziendale o di un calo del fatturato (anche se dipende da scelte sbagliate della direzione) e così via. Tutto questo è causa legittima di licenziamento.

Il referendum non incide su queste materie. Il contratto di lavoro è, per l’appunto, un contratto. Esso impegna il lavoratore, ed anche chi lo impiega. Con la norma che si vuole abrogare, viene consentito ad una parte (chi impiega) di recedere dal contratto senza nessun motivo, pagando una penale che spesso è ridicola, e che non ripaga assolutamente il lavoratore (che, lui, ha rispettato le norme del contratto) del danno che subisce. In altre parole, il contratto non tutela entrambe le parti, come dovrebbe essere, ma solo la parte forte. Il lavoratore si arrangi, e speri che il nuovo signore feudale gli conceda le sue grazie.
Contrastare il licenziamento illegittimo vuol dire questo: obbligare entrambe le parti a rispettare un contratto che, per legge, si suppone liberamente consentito. Ripristinare un equilibrio di libertà effettiva (“positiva”, per gli amanti della letteratura in materia) tra le parti, elemento fondamentale della validità dei contratti nel nostro ordinamento giuridico. Altri diranno riequilibrare la relazione di potere, altrimenti detto il rapporto di forza. Non condivido appieno, ma ci sta.

Prendiamo ora l’obbligo di motivazione dei contratti a termine, abolito dal Jobs Act e che il referendum vorrebbe ripristinare. Prima dell’introduzione del Jobs Act nel 2015, i contratti a tempo determinato in Italia dovevano essere giustificati da una causale, ovvero una motivazione specifica che ne legittimasse l’uso. Le principali ragioni accettate erano: esigenze tecniche (quando il lavoro richiedeva competenze specialistiche per un periodo limitato); motivi organizzativi (gestire picchi di produzione o riorganizzazioni aziendali temporanee, come nel caso del lavoro stagionale); ragioni produttive (necessità di aumentare la forza lavoro per un progetto specifico, come nel caso di una commessa anomalmente importante ma limitata nel tempo); la sostituzione di personale, essenzialmente per coprire assenze di lavoratori in maternità, malattia o aspettativa.
Il referendum non vuole impedire i contratti a tempo determinato ma ripristinare l’obbligo di motivazione. Oggi non c’è bisogno: ti assumo per due giorni, semplicemente perché mi va. E ti tengo sotto controllo, sotto scacco, perché tu di quel lavoro (e del suo continuo rinnovo) hai bisogno. Ti rendo, di nuovo, dipendente dal mio buonumore del giorno. Ti rendo schiavo della mia promessa di rinnovarti il contratto. Schiavo. Perché mi gira, e perché lo posso fare. Capite che questo ha un costo immenso per il lavoratore. Talmente alto che si è creata una definizione per questo: l’economia della promessa. Ci torneremo.

Infine due parole sul referendum sulla cittadinanza. Questo referendum chiede che siano ridotti i termini da 10 a 5 anni per potere presentare domanda di cittadinanza, a condizione che il cittadino o la cittadina straniera abbia i requisiti per farlo. Il referendum non tocca in alcun modo i requisiti, quindi non “regala” affatto la cittadinanza come una certa propaganda afferma. Semplicemente, riduce i termini. Tuttavia, non si può capire la portata di questa misura senza entrare nel dettaglio dei requisiti. E quali sono? Oltre alla conoscenza della lingua italiana e l’assenza di precedenti penali, due criteri riguardano il mondo del lavoro.
Uno lo riguarda direttamente: occorre provare di avere un reddito dimostrabile, nonché avere assolto agli obblighi fiscali. Wait a minute. Quindi mi servono dei contratti di lavoro ed una serie di dichiarazioni dei redditi. Tenetelo a mente. Un altro criterio ha una relazione indiretta con il mondo del lavoro: avere una residenza “legale e continuativa” nel periodo richiesto (10 anni ora, 5 col referendum). Cosa serve per avere una residenza legale e continuativa? un permesso di soggiorno, per studio o per lavoro. E visto che su dieci anni è raro che si studi e basta, servono contratti di lavoro. Quindi è sufficiente che mi obblighino a lavorare “a nero” o mi facciano saltare il contratto “perché gli gira”, ed io sono fregato.

E torniamo al punto di partenza. Sono dipendente dal buonvolere del buonsignore. Come economista, ed in particolare come economista divergente, la domanda che nasce spontanea è: ma tutto questo, contribuisce a creare benessere per la collettività, oppure costituisce un costo di cui non abbiamo piena consapevolezza? Ci sono (almeno) due modi di approcciare il problema. Il modo standard, del “centro”, e quello della periferia.
Vediamo il primo. Il principale argomento a favore delle norme introdotte dal Jobs Act, è che questo sembra avere indotto, almeno da un punto di vista statistico, un aumento dei contratti a tempo indeterminato. Tuttavia, anche con gli strumenti standard, è abbastanza evidente che questo non ha comportato un miglioramento collettivo delle condizioni di vita. L’Italia è l’unico paese OCSE (l’insieme dei paesi considerati economicamente più sviluppati) ad avere visto un impoverimento effettivo dei lavoratori, accentuando una tendenza latente da tempo.

Le ore lavorate crescono poco, e la crescita economica resta tra le più asfittiche tra le economie sviluppate. Puntando tutto su una mal compresa flessibilità del mondo del lavoro, che nasconde semplici dinamiche di costo per le imprese, il tasso di investimenti è crollato, riducendo progressivamente la competitività della nostra economia. Inoltre, l’aumento dei contratti ha privilegiato gli “insiders” (uomini, over 50, situati al nord) mentre ha penalizzato la periferia degli “out-siders” (donne, giovani, sud). Quindi, già da una logica standard, ci sarebbe da discutere.
Se usciamo dalla logica standard, tutto appare ancora più evidente. In un suo celeberrimo (quantomeno nel microcosmo degli economisti) libro, il premio Nobel per l’economia Amartya Sen dimostrò che utilizzare il metro monetario come griglia per stimare il benessere fosse fuorviante. In alcune realtà essere poveri non è un problema, perché la rete sociale è tale da permettere alle persone di vivere una vita “che considerano degna di essere vissuta”, mentre in altre realtà redditi più importanti non permettono di accedere a tale libertà.
Partendo dai lavori di Sen, ho sviluppato una griglia di lettura più dettagliata che si concentra sul valutare “quanta” libertà esista all’interno di una società, concludendo che se vogliamo perseguire lo sviluppo, pienamente inteso, occorre migliorare la situazione di quelli, di solito tanti, che di libertà effettiva ne hanno poca.

Da questo punto di vista, il Jobs Act ha tolto libertà a chi già non ne aveva, e questo costituisce un costo incommensurabile per la società nel suo complesso. Quanti di noi “non hanno scelta”? Quando sei precario, non puoi costruire nessun progetto di vita. Non puoi investire sul futuro, perché non hai nessun punto di partenza stabile. Nessun luogo, innanzitutto. Che tu sia migrante nazionale, o migrante straniero. Nessuna possibilità di relazionalità stabile, con tutti gli impatti sulla salute mentale, vera epidemia della contemporaneità. Nessuna progettualità, nessuna vita. Nessun diritto ad essere sé stessi (e questo è peraltro il mese del Pride), ma l’obbligo perenne di chinare il capo e rinunciare alla natura stessa della vita.
Rassegnarsi, come dicevano i Pink Floyd, ad essere solo un mattone nel muro. Un ingranaggio nella grande Metropolis che, come Cronos, uccide i suoi figli. Il più grande (a mio avviso) problema del mondo contemporaneo è la mancanza di senso, la mancanza di profondità. Ma come può “trovare un senso a questa vita, anche se questa vita un senso non ce l’ha”, per citare Vasco, qualcuno che vive sospeso ed appeso all’arbitrario incontrollabile di un insider? Questo è il costo della precarietà, essere condannati alla non vita, ad una mera esistenza meccanica, indegna di un mondo civile. Sempre che questa esistenza esista, se mi permettete il gioco di parole.
Per tanti anni mi sono occupato di sicurezza sul lavoro. Oggi, non solo ci viene collettivamente chiesto di vivere per lavorare, negandoci la libertà di lavorare per vivere. Ci viene spesso chiesto di morire, fisicamente, letteralmente, per lavorare. I morti sul lavoro sono talmente tanti, che non ci facciamo più caso. Minorenni. Pensionati. Immigrati. Lavoratori tutti. Ed uno dei referendum, è proprio su questo, sul fatto di ripristinare la responsabilità delle imprese appaltatrici della sicurezza dei lavoratori che sono assunti (o no) dagli appaltanti nei progetti che creeranno profitto agli appaltatori.
Questi referendum sono solo un piccolo passo, sicuramente non risolutivo. Ma sono un passo necessario. Io vado a votare, e voto cinque volte si. Perché sono un economista. Perché sono una persona. Perché sono un lavoratore. E perché una persona morta, non ha più nessuna libertà. Tutto il resto, come diceva già La Boétie nel 1576, è servitù volontaria. Sono passati quattro secoli e mezzo, e siamo ancora lì. Forse (scusate il sarcasmo) è ora di riprendere il cammino dello sviluppo e del progresso. Pensateci.

Granello di sabbia alla periferia della galassia, sono tante cose e nessuna allo stesso tempo. Sono un soggetto neurodivergente, ho una doppia formazione in materie aziendali e in materie più specificatamente economiche, e sono un soggetto maschio, bianco, di mezza età. Lo so, un sacco di difetti. Lavoro in università, ma non mi considero un accademico. Sono membro del Mensa Italia, e vi posso garantire che le persone intelligenti possono essere brutte persone (vi amo tutti). Il mio campo di predilezione è lo sviluppo, il benessere, la libertà, la bellezza e le persone. Non è uno? Ne siete sicuri?