Avendo deciso di scrivere una serie di articoli sulle comunità Italo-Americane, credo sia importante partire da alcune domande fondamentali. Che cos’è la cultura Italo-Americana? Di cosa si tratta? Esiste davvero? Ricordo che una volta da ragazzina, quando ancora andavo scuola in una città Midwest Americano, mi hanno chiesto di scrivere una tesina sulle mie origini italo-americane: credo fosse per un compito in classe, una borsa di studio, o qualche altra amenità del genere. Scrissi che la mia famiglia era molto unita, che mangiavamo un sacco di pasta, e che la mia bisnonna era emigrata negli Stati Uniti a soli 14 anni (cosa che, ricordo, rendeva fierissima mia madre). Ci tenevo molto a questa mia identità Italo-Americana. Ma cosa ne sapevo veramente?
Di italiano avevo ben poco. Quando arrivava il Giorno del Ringraziamento, mangiavo i ravioli assieme al tacchino. Avevo anche un cognome che la maggior parte della gente che mi circondava proprio non riusciva a pronunciare (ancora oggi tutti i miei parenti pronunciano il loro stesso cognome Migh-liozzi, con la g dura e vi chiedo di non scandalizzarvi troppo per questo, cari lettori e care lettrici). La lingua italiana non l’ho imparata in famiglia. I miei genitori non l’hanno mai parlata. Mia nonna aveva imparato da giovane il dialetto ciociaro della sua famiglia, ma lo parlava poco e malamente. “Hillbilly Italian language” (cioè, “Italiano tamarro”) lo chiamava, e se ne vergognava, nonostante la mia attrazione accademica per i dialetti. L’Italiano standard l’ho quindi imparato da adulta, con tanto di Dante e congiuntivi.
Nella cultura pop statunitense non mancano punti di riferimento per costruire un’immagine di identità italo-americana: dai Sopranos al Jersey Shore spesso vediamo la figura mitologica del “Guido” e della “Guidette” (termini dispregiativi e un po’ classisti, che definiscono lo stereotipo del ragazzo o della ragazza Italo-Americani poveri, provinciali, mezzi mafiosi, e sostanzialmente cafoni). L’idea di “Guido” mi ha sempre fatto un po’ ridere, visto che non aveva davvero niente a che fare con la mia esperienza personale di Italo-Americana. Non ho mai conosciuto nel Midwest un vero esemplare di questa tipologia antropologica: l’uomo mammone con il gel nei capelli e la camicia aperta per far vedere il crocefisso sul petto, oppure la donna coi capelli cotonati vestita da Snooki. Neanche mi offendeva lo stereotipo. Semplicemente lo consideravo un’invenzione buffa.

Poi mi sono trasferita a Philadelphia: la città di Rocky Balboa, del South Philadelphia Italian Market, dei ristoranti con nomi tipo “Alessandro’s” e “Gino’s” (anche se scritto “Geno’s”) che ti servono il panino con la cheese-steak con la stessa sacralità con la quale a Roma ti descrivono la carbonara con il guanciale. Basta attraversare il fiume e poi sei nel New Jersey, mitica patria dei Guidos di tutto il mondo. E lì di Italo-Americani da antologia ne ho conosciuti molti.
Basta descrivervi il mio amico Dino, il cui vero nome non è Dino. Dino si fa chiamare così per rispetto nei confronti di Dean Martin: mai un capello fuori posto, un paio di baffi che neanche Super Mario, crocefisso d’oro sulla collana, poetico ogni volta che si parla di salsa di pomodoro (che nel dialetto di Philadelphia si chiama gravy, che in inglese vuol dire “intingolo”, per motivi che francamente non ho mai capito). Che posso dirvi? Evidentemente la cultura italo-americana esiste, e forse esistono anche i Guidos e le Guidettes. Non lo sapevo fino a cinque anni fa, ma pare che sia così.
Ho imparato molte altre cose sulla “comunità” italo-americana in questi anni. Per esempio, si dice che noi Italo-Americani siamo di destra e votiamo per il Partito Repubblicano (il che spesso è vero, anche se quasi tutti i politici italo-americani di caratura nazionale, come Nancy Pelosi, Andrew Cuomo, Joe Manchin, e Bill de Blasio, militano nel Partito Democratico…e qualcuno dovrà pur averli votati!). Dicono anche che ci mettiamo sulla difensiva quando si discute di Columbus Day. Purtroppo, esistono ancora Italo-Americani che si inorgogliscono al pensiero che il primo colonizzatore delle Americhe sia stato un italiano. Però difficilmente riesco a pensare a gente così fra gli Italo-Americani che conosco, la maggiore parte dei quali non saprebbero neppure trovare il Columbus Day sul calendario.

E quindi…Boh? I’m honestly confused! Secondo i dati ufficiali dell’US Census Bureau (cioè l’istituto pubblico che si occupa dei censimenti in America), noi Italo-Americani siamo più di 17 milioni. Eppure non credo che abbia senso parlare di una “comunità” culturalmente omogenea composta da 17 milioni di persone, soprattutto quando all’interno di essa vi sono grandi differenze di ceto sociale, di educazione scolastica, di distanza geografica, ecc.
Ho scritto tutto ciò allo scopo di annunciarvi una notizia: la cultura Italo-Americana non esiste. O quantomeno non ne esiste una sola. Quando, da adolescente, scrivevo la mia tesina scolastica, forse la pensavo diversamente. E certamente c’è ancora chi crede che esista un qualcosa che leghi tutti gli italo-americani sul piano socio-culturale (sarà forse la gravy?). Come indicato in questi link che allego al mio articolo, basta dare un’occhiata in rete: non è difficile trovare articoli che vogliono spiegare il voto italoamericano, in particolare nell’età Trumpiana e post-Trumpiana, quasi come se si potessero analizzare le idee politiche della gente solo su base etnica. Ma veramente non ha senso parlare né di un voto italo-americano né di una cultura italo-americana, almeno non al singolare.
Certamente ogni tipo di identità culturale porta con sè molteplici significati sia per gli individui che se ne sentono portatori che per le comunità locali, le quali devono sempre in qualche modo fare i conti con la propria storia. Ma che cosa ho io in comune, mi chiedo, con una tizia come Nancy Pelosi, a parte la “i” finale del cognome ed una viscerale antipatia per Donald Trump? L’unica cosa veramente caratteristica che quasi tutti gli Italo-americani hanno in comune rimane forse la loro cucina. Ma del Chicken Parmesan e degli Spaghetti Meatballs forse scriverò un altro giorno.
Mary Josephine Migliozzi

Nata in Ohio e vissuta in passato a Bologna e a Genova, Mary Migliozzi attualmente vive vicino a Philadelphia, dove lavora nell’ambito dei programmi internazionali universitari. Per oltre 15 anni ha insegnato e ha fatto ricerca accademica in Italian Studies, concentrandosi sulla letteratura dialettale italiana e sulla musica pop e cantautoriale del Bel Paese. È un’appassionata di romanzi gialli inglesi, romanzi russi troppo lunghi per essere letti tutti d’un fiato, e del Festival di Sanremo.