Che il sistema universitario italiano è in crisi perenne lo sappiamo ormai da tempo. Ci sarà anche un motivo se la maggior parte di quelli che, come me, insegnano lingua e cultura italiana in America tendono a non essere americani, ma bensì italiani. E ci mancherebbe pure.
I cervelloni italiani vedono i lavori precari, gli stipendi da fame e le feroci condizioni di baronato che vengono loro offerte dall’accademia nostrana e quindi scappano per i verdi campus del mio paese. Campus attrezzati non solo di giardini curatissimi e di biblioteche e laboratori invidiabili, ma anche di palestre di lusso con pareti da scalata, stadi più grandi di quello di San Siro, teatri degni di Broadway, strutture ricreative che a volte sono costate anche cento milioni di dollari ognuna (o più). Chi spende così tanto denaro per una piscina avrà sicuramente anche qualche soldo da spendere per i suoi ricercatori e insegnanti, no?
Magari. Invece i professori universitari statunitensi si trovano ad affrontare condizioni di precariato che peggiorano di anno in anno. A partire almeno dagli anni ’90, il numero dei cosiddetti professori tenured (docenti ordinari con contratti a tempo indeterminato e stipendio pieno) o tenure-track (docenti ordinari in prova, che otterranno un contratto a tempo indeterminato dopo qualche anno di lavoro previa valutazione da parte dei loro dipartimenti universitari di riferimento) è in costante calo, ed è invece in forte aumento il numero di corsi insegnati dai cosiddetti adjuncts, ovvero professori part-time con contratti a tempo determinato o “a progetto” (a volte addirittura legato all’insegnamento di un singolo corso) e stipendio ridotto.
E le condizioni di vita degli adjunct non sono per niente invidiabili. Di solito chi insegna con questo tipo di contratto deve farlo simultaneamente in due o tre università diverse per poter sbarcare il lunario ed arrivare alla fine mese. Insomma, gli adjuncts (ovvero la maggior parte di chi insegna in una università americana) lavora molto di più rispetto ad un professore ordinario e lo fa per una frazione del suo stipendio. E non dimentichiamoci che negli Stati Uniti sono i datori di lavoro a fornire l’assicurazione medica alla gente in mancanza di un sistema sanitario pubblico vero e proprio, e che queste assicurazioni mediche sono di solito incluse solo nei contratti di chi lavora a tempo pieno.
E poi, a metà strada fra gli ordinari e gli adjunct, ci sono vari altri livelli di semi-precariato universitario. Ce ne sono di davvero creativi. Si va dai “Visiting Faculty” ed i “Contract Faculty”, i quali godono di contratti a tempo pieno simili a quello dei professori ordinari (anche se, di solito, richiedono una mole di lavoro aggiuntiva) ma che durano un solo anno e non sono rinnovabili, ai “Teaching Professors” (fra cui la sottoscritta), i quali hanno pure contratti di breve durata ma rinnovabili. La ragione dell’esistenza di questi ulteriori contratti bislacchi è che le università americane non intendono far insegnare tutti i loro corsi a dei professori part-time per non sminuire il proprio prestigio, ma al contempo non intendono investire risorse nell’assunzione di un nuovo docente ordinario.
In base a questo tipo di compromessi fra prestigio e convenienza, le condizioni di lavoro che vengono offerte oggi dalle università americane tendono a variare in modo notevole. Non dimentichiamoci, infatti, che in questo paese non esistono contratti di lavoro nazionali e che quindi il valore di uno stipendio (anche fuori dai contesti universitari) cambia notevolmente in base al prestigio goduto dal datore di lavoro e dalla competizione di mercato. Di conseguenza, spesso in base al prestigio dell’ateneo che lo offre, un posto da “Teaching Professor” può essere a volte ben pagato ed abbastanza stabile ed altre volte sottopagato, soggetto a rinnovi ricattatori e caratterizzato da carichi di lavoro insostenibili.
C’è inoltre da aggiungere che per chi cerca lavoro in una università americana è di solito quasi impossibile scegliere la zona geografica nella quale andrà a lavorare di volta in volta. Il che è vero a maggior ragione per chi vede scadere il proprio contratto da adjunct o visiting professor e viene quindi costretto a cercare lavoro altrove. Chi cerca lavoro universitario deve quindi essere sempre pronto a spostare baracca e burattini da una parte all’altra del continente ad ogni nuovo contratto.
Considerate le oggettive distanze geografiche che esistono fra le principali città americane, ciò vuol dire lasciare concretamente da parte ogni possibile velleità a costruirsi una famiglia, accedere a un mutuo o, più semplicemente, mettere radici da qualche parte. Anche per questo sono sempre di più quelli che, dopo sette anni di dottorato e chissà quanti alla ricerca di un lavoro stabile in ambito universitario, piantano tutto. E siccome in America ogni cosa può divenire un mercato, esistono anche servizi di consulenza a pagamento creati specificamente per chi vuole lasciare la carriera accademica e cercare lavoro altrove.
Non è sempre stato così. In realtà, i posti da professore in tenure-track (ovvero la Terra Promessa di qualunque adjunct che lavori in America) una volta non erano così rari. Prendiamo per esempio le Facoltà di Storia. L’American Historical Association raccoglie i dati sia sul numero totale di dottorati in storia rilasciati ogni anno negli USA che sul numero di posti da professore in tenure-track banditi dalle università americane nell’ambito delle scienze storiche. Da questi dati, possiamo vedere che negli ultimi anni i posti di lavoro stabili offerti sono stati circa 500, mentre i dottorati rilasciati circa 1000. Quindi se tu hai difeso con successo una tesi di dottorato in storia nel 2021, hai dovuto non solo competere con 1000 potenziali altri candidati per 500 posti di lavoro, ma anche con tutti quelli che non hanno ottenuto un lavoro stabile l’anno prima, e l’anno prima ancora, e così via. Praticamente una roulette russa.
Se diamo però un’occhiata ai dati del 1990, notiamo che in quell’anno sono stati banditi circa 800 posti di lavoro in tenure tenure-track per meno di 500 nuovi dottorati. Ne consegue che chi ha ricevuto il proprio dottorato in quell’anno non solo aveva un posto di lavoro garantito, ma anche l’imbarazzo della scelta su dove svolgerlo.
Quanto è caduto in basso lo zio Sam, nevvero? Ma ciò non dovrebbe sorprenderci. L’America non è forse l’epicentro di tutto il capitalismo mondiale? Questi grafici in fondo non sono molto diversi da quelli che riguardano qualunque altro ambito di lavoro nel mio paese, i quali mostrano tutti una spiccata tendenza per la precarietà di massa. In America, infatti, una percentuale sempre più grande della prosperità è nelle mani di pochissimi. E quindi non mi devo sorprendere se nel mio stesso campo professionale cresce la discrepanza fra i posti di lavoro che tutti cercano e quelli a cui la maggior parte della gente può concretamente accedere. E, visto come funziona il mercato del lavoro anche nel Bel Paese, non credo che neppure i miei lettori Italiani si stupiranno di ciò.
Le università americane (quelle pubbliche come quelle private, visto che quelle pubbliche diventano sempre meno pubbliche nel senso che sempre meno i loro fondi provengono da risorse pubbliche) sono soggette alla logica spietata del mercato. E la logica del mercato capitalista non considera tanto la ragione d’essere delle università (ovvero l’istruzione e la ricerca) quanto la riga finale dei bilanci quadrimestrali. Bisogna attrarre gli studenti (che pagano fino ai $60 mila di retta all’anno per studiare negli atenei USA) e le donazioni da parte dei filantropi e delle fondazioni private.
A quanto pare, le università hanno deciso che per questi fini importi di più coltivare la forma (strutture nuove e di lusso, squadre sportive fighe i cui allenatori guadagnano milioni) che il contenuto della propria offerta didattica ed il benessere del proprio personale accademico.
Che poi io non do la colpa di tutto ciò solo al capitalismo che regola l’economia politica del mio paese, ma anche a quello che vive nel cuore di ogni professore americano. Nelle università americane di oggi vige una totale carenza di solidarietà, specie da parte di chi il posto ce l’ha già garantito. Negli ultimi anni, gli adjuncts ed i precari hanno realizzato qualche progresso grazie alla formazione di nuovi sindacati che ne rappresentano i diritti nei confronti delle amministrazioni dei loro campus. Ma i professori ordinari americani (per capirci, quelli con la tenure) rimangono in buona parte alcune delle persone più compiaciute ed autoreferenziali che abbiano mai camminato su questo pianeta.
Forse è normale che chi, un po’ per persistenza e un po’ per puro culo, sia già riuscito ad entrare nella Terra Promessa, passi la maggior parte del suo tempo a darsi le arie e ricordare a tutti gli altri di essersi fatto da sè. Che questi adjuncts si facciano venire voglia di lavorare invece di blaterare di diritti, che tanto una volta qui era tutta campagna signora mia. Però rimane il fatto questo sistema del cazzo semplicemente non funziona. E nuocerà a tutti, prima o poi. Possiamo quindi scegliere la solidarietà e la sopravvivenza della professione, oppure possiamo scegliere di isolarci nelle nostre Torri d’Avorio. Non possiamo permetterci entrambe le cose.
Prego quindi i professori americani all’ascolto di scegliere la solidarietà e combattere al fianco dei loro colleghi meno “boomer” per i diritti di tutti. Ai miei colleghi ed aspiranti cervelli in fuga in Italia invece dico di…beh…direi di non romanticizzare il sogno accademico americano. Tanto, per la stragrande maggioranza di noi, questo maledetto sogno non è mai esistito.
Nata in Ohio e vissuta in passato a Bologna e a Genova, Mary Migliozzi attualmente vive vicino a Philadelphia, dove lavora nell’ambito dei programmi internazionali universitari. Per oltre 15 anni ha insegnato e ha fatto ricerca accademica in Italian Studies, concentrandosi sulla letteratura dialettale italiana e sulla musica pop e cantautoriale del Bel Paese. È un’appassionata di romanzi gialli inglesi, romanzi russi troppo lunghi per essere letti tutti d’un fiato, e del Festival di Sanremo.