Immaginate di vivere in un episodio di Black Mirror che non possiamo mai mettere in pausa, dove il rumore di fondo dell’ansia è costante come un fastidioso ronzio che non si spegne mai. Un mondo in cui milioni di persone si connettono ogni giorno a piattaforme progettate per tenerle incollate, finendo per disconnettersi da se stesse. Un luogo distopico, certo, ma non relegato alla fiction. Stiamo parlando della realtà di questo primo quarto del XXI secolo.
Nel 2025, mentre l’innovazione corre al ritmo degli aggiornamenti software, la nostra psiche arranca. L’Organizzazione Mondiale della Sanità lancia un allarme che dovrebbe far tremare i governi quanto una pandemia: depressione, ansia, burnout e disordini correlati stanno crescendo a ritmi esponenziali. E non si tratta solo di malesseri individuali: si profila un collasso sistemico, un “effetto domino psicosociale” (così lo chiamano gli esperti) che mina le fondamenta stesse della nostra convivenza.
Le società umane, esattamente come i sistemi ecologici e informatici, hanno soglie critiche di vulnerabilità. Secondo una crescente letteratura nel campo dei sistemi complessi e della sociologia della salute, quando una quota significativa della popolazione manifesta disagio psichico acuto (stimata attorno al 15-20%), il sistema sociale inizia ad “andare in crash”.
Questo non significa soltanto ospedali pieni o ambulatori sovraccarichi. Significa che i codici su cui si basa la comunicazione politica, economica e sociale diventano improvvisamente obsoleti. Termini come “produttività”, “merito” o “crescita” si svuotano di senso quando milioni di cittadini vivono in uno stato di esaurimento emotivo o derealizzazione cronica.
L’esempio della Grecia post-crisi del 2008 è emblematico: l’aumento del 43% dei suicidi in pochi anni ha mostrato cosa accade quando il disagio individuale diventa sofferenza collettiva. Oggi, rischiamo uno scenario simile su scala globale, potenziato da un fattore nuovo: la tecnologia.

Il mondo digitale non è neutro. È un ambiente progettato per massimizzare l’attenzione di chi lo frequenta, e quindi il profitto di chi lo gestisce, attraverso meccanismi psicologici di ricompensa intermittente, notifica continua e sovraccarico informativo. I social media non sono solo strumenti di comunicazione, ma veri e propri ecosistemi neuro-comportamentali.
Le piattaforme digitali funzionano come slot machine emotive. L’effetto del doomscrolling, ovvero la compulsione a scorrere notizie negative, innesca picchi di dopamina seguiti da crolli depressivi. Tra i giovani under 25, l’uso quotidiano dei social supera spesso le cinque ore, creando un’abitudine psicochimica difficile da disinnescare.

I nuovi lavori digitalizzati, dalla gig economy ai call center virtuali, impongono ritmi che nemmeno il taylorismo industriale avrebbe potuto immaginare. Gli algoritmi gestiscono turni, pause, valutazioni di performance, e lo fanno in modo impersonale, spesso disumanizzante. Il risultato? Un tasso di depressione doppio tra i lavoratori “gestiti da IA” rispetto a quelli in ambienti tradizionali.
Il confine tra reale e virtuale, inoltre, si fa sempre più poroso. Tra gli adolescenti e i gamers, sintomi di derealizzazione, la sensazione che il mondo reale sia un’illusione, sono sempre più frequenti. Quando la realtà appare meno gratificante di un gioco, la mente fa logout.

La salute mentale non può essere più letta come una questione meramente clinica. È il riflesso di una condizione culturale: un’epoca iperconnessa ma ipersolitaria, in cui la costruzione dell’identità avviene attraverso filtri, reaction, metriche di engagement. Il cosiddetto “io digitale” diventa spesso una gabbia performativa, in continua ansia da prestazione.
Il sociologo Zygmunt Bauman parlava di “società liquida” per descrivere la nostra modernità, caratterizzata da flussi di informazioni continue e costante precarietà economica e sosciale. Oggi siamo forse entrati nell’era della “mente liquida”: fluida, interrotta, vulnerabile ai picchi emotivi e agli attacchi algoritmici. Le emozioni vengono monetizzate, l’attenzione è una risorsa esauribile, e il tempo interiore è perennemente frammentato.

Non tutto però è perduto. Le stesse tecnologie che amplificano il malessere possono, se riprogettate con etica e visione sociale, contribuire alla guarigione. Ecco alcune proposte del DETA (un’associazione che si occupa di roboetica) per la Salute Mentale Digitale:
Reset Digitale: È necessario un nuovo patto sociale, una Digital Geneva Convention, che imponga limiti agli algoritmi predatori e garantisca diritti psicodigitali fondamentali.
Neurotecnologie etiche: L’uso dell’IA in ambito clinico può anticipare i segnali di burnout o disagio prima ancora che i soggetti ne siano consapevole. Sensori biometrici, app di monitoraggio umorale, sistemi predittivi: se usati in modo etico, possono salvare vite.
Urbanistica terapeutica: Le città possono essere ripensate come spazi di cura. Centri commerciali trasformati in hub per il benessere mentale, esperienze immersive in realtà virtuale progettate per la meditazione e la riconnessione interiore, boschi digitali dove “camminare” anche solo con un visore.

In conclusione, stiamo vivendo un grande crash psicosociale. Ma ogni crash porta con sé la possibilità di un aggiornamento. La tecnologia, come ogni strumento, non è né salvifica né malvagia. È lo specchio delle nostre intenzioni. Possiamo usarla per fuggire, rifugiandoci in metaversi consolatori, o per guarire, creando spazi, reali e digitali, dove riconnetterci con noi stessi e con agli altri.
La scelta è davanti a noi: riformattare il nostro modo di vivere, o continuare a subire un sistema operativo culturale ormai fallato. Buona evoluzione a tutti.

Situazionista 2.0, di Terni, Ermes Maiolica è un personaggio-icona che ha utilizzato fake news come strumento di critica radicale al sistema mediatico. Tra il 2013 e il 2016, i suoi esperimenti sociali online hanno smascherato i meccanismi della spettacolarizzazione dell’informazione, anticipando l’era della post-verità ed incarnandone le dinamiche sociali. Dalla decostruzione mediatica è passato recentemente alla costruzione di nuovi immaginari e nuovi diritti nell’era delle intelligenze artificiali, istituendo il DETA (Dipartimento Europeo per la Tutela degli Androidi), la prima organizzazione sindacale per la tutela fisica e sociale dei robot umanoidi. Autore del “Manifesto per una roboetica universale”, propone la robosimbiotica come nuovo paradigma di coesistenza uomo-macchina.