Nel panorama del dibattito pubblico italiano ed internazionale stiamo assistendo a un fenomeno che va ben oltre la semplice brutalità verbale, configurandosi come una vera e propria mutazione genetica del linguaggio. Parole che un tempo delineavano confini ideologici, appartenenze storiche o categorie sociologiche hanno smesso di descrivere la realtà per trasformarsi in pure armi contundenti.
Termini come “comunista” o “radical chic” non operano più nel campo della semantica, ma in quello della balistica, poiché non servono a spiegare il mondo, bensì ad abbatterlo. Questa non è una semplice involuzione stilistica, ma una strategia di silenziamento preventivo in un’epoca di complessità crescente. Qui l’etichetta diventa scorciatoia cognitiva per eccellenza: un dispositivo che chiude il discorso prima ancora che esso possa aprirsi.
Il caso del termine “comunista” (parola che, fra l’altro, abbiamo dovuto storpiare di proposito nel titolo di questo articolo per evitare che Meta ne limiti la diffusione sui social) è l’esempio più lampante di quello che il teorico politico Ernesto Laclau definirebbe un significante vuoto. La parola è stata chirurgicamente svuotata del suo contenuto storico, filosofico ed economico, non rimandando più a Marx, a Gramsci, né tantomeno alle tragedie dell’Unione Sovietica stalinista o alle aspirazioni del movimento operaio. Oggi, l’accusa di essere comunista è diventata un passe-partout trasversale per indicare una colpa morale: quella della dissonanza. Comunista è chiunque interrompa la narrazione dominante, chi pone un ostacolo dialettico, chi non si allinea all’entusiasmo collettivo richiesto dai gangli del potere.
Nel contesto italiano, le radici profonde di questo processo non sono poi così antiche. Fu il berlusconismo a inaugurare questa operazione culturale, evocando lo spettro del comunismo come nemico, necessario proprio nel momento in cui esso cessava di esistere come minaccia sistemica. Il comunismo in Italia non è quindi stato tanto sconfitto dalla storia dopo i fatti del 1989, ma dalla retorica, che lo ha ridotto a macchietta agitata ogni qualvolta sia necessario delegittimare un avversario senza voler entrare in alcun modo nel merito delle sue argomentazioni.
Ancora più insidiosa è la parabola del termine “radical chic”. Coniato nel 1970 dallo scrittore Tom Wolfe per descrivere una specifica ipocrisia dell’alta società newyorkese, il termine ha subito una torsione semantica totale. Se in origine indicava una posa estetica slegata dall’impegno reale, oggi in Italia viene utilizzato per colpire la competenza stessa. L’accusa non colpisce più il lusso ostentato, ma la complessità del pensiero.
Siamo di fronte alla piena realizzazione di quella caratteristica che Umberto Eco, nel suo saggio sull’Ur-Fascismo, individuava come il rifiuto della modernità e dello spirito critico. In questa ottica, il disaccordo è tradimento e l’intellettuale è intrinsecamente sospetto perché la cultura è vista come un segno di depravazione snobistica. L’etichetta radical chic serve dunque a isolare chiunque provi a problematizzare perché, in un mondo che esige risposte binarie e immediate, la sfumatura diventa un vizio aristocratico da estirpare.
In questo scenario linguistico devastato si inserisce perfettamente la narrazione del cosiddetto “underdog”. L’autodefinizione della Presidente del Consiglio come svantaggiata che ce l’ha fatta contro tutto e tutti non è solo una tecnica narrativa, ma un capolavoro di ingegneria politica. Rappresentarsi come underdog mentre si detiene la massima carica dello Stato (dopo anni di presenza parlamentare, fra l’altro) permette un rovesciamento dei ruoli in cui il potere si veste dei panni della vittima e del popolo, mentre la critica viene vestita dei panni dell’élite e del privilegio.
È qui che il cortocircuito diventa totale e le categorie classiche saltano completamente. La borghesia non è più definita dal possesso dei mezzi di produzione o dal capitale economico, ma da un atteggiamento morale. Così, un imprenditore milionario può sentirsi popolo perché condivide un linguaggio aggressivo, mentre un ricercatore precario viene etichettato come élite solo perché utilizza un lessico corretto. La condizione materiale scompare, sostituita interamente dalla percezione identitaria.
Questo fenomeno di inversione segnala una regressione tribale nella sfera pubblica: le parole non servono più a mappare il territorio della realtà sociale, ma a marcare il territorio dell’appartenenza emotiva. La loro funzione non è più quella di spiegare, ma di schierare. Il danno, tuttavia, appare incalcolabile, specialmente se guardiamo alla tenuta del sistema. Una società che trasforma il pensiero critico in insulto sta rinunciando al proprio sistema immunitario, ovvero alla capacità di distinguere i fatti dalle opinioni.
Richiamando le analisi di Hannah Arendt sulle origini del totalitarismo, il suddito ideale di un regime autoritario non è il militante convinto, bensì l’individuo isolato per il quale la distinzione tra realtà e finzione, tra vero e falso, non esiste più. Quando il linguaggio perde aderenza con la realtà fattuale, l’aggressività verbale diventa l’unico surrogato del controllo, un urlo necessario per coprire l’incapacità di comprendere un mondo sempre più complesso.
In conclusione, difendere il significato delle parole oggi cessa di essere un vezzo accademico per diventare un atto politico urgente. Rifiutare l’etichetta, smontare la semplificazione e pretendere che le parole tornino ad avere un peso specifico significa difendere lo spazio stesso della democrazia.
Una comunità politica che ha bisogno di deridere l’intelligenza per sentirsi forte sta confessando la propria fragilità, poiché un potere che ha paura delle parole complesse è un potere che teme di essere smascherato. La complessità, per quanto faticosa, rimane l’unico antidoto possibile al veleno della propaganda.
Situazionista 2.0, di Terni, Ermes Maiolica è un personaggio-icona che ha utilizzato fake news come strumento di critica radicale al sistema mediatico. Tra il 2013 e il 2016, i suoi esperimenti sociali online hanno smascherato i meccanismi della spettacolarizzazione dell’informazione, anticipando l’era della post-verità ed incarnandone le dinamiche sociali. Dalla decostruzione mediatica è passato recentemente alla costruzione di nuovi immaginari e nuovi diritti nell’era delle intelligenze artificiali, istituendo il DETA (Dipartimento Europeo per la Tutela degli Androidi), la prima organizzazione sindacale per la tutela fisica e sociale dei robot umanoidi. Autore del “Manifesto per una roboetica universale”, propone la robosimbiotica come nuovo paradigma di coesistenza uomo-macchina.

