Il fronte pacifista americano: intervista alla giornalista e attivista Mindy Isser

Nonostante l’enorme sostegno sia economico che ideologico che l’amministrazione Biden ha fornito e continua a fornire ai massacri perpetrati da Israele a Gaza (ed anzi, forse proprio per via di questo sostegno), qui negli Stati Uniti, dove vivo, si sta iniziando a percepire un cambio di atteggiamento nei confronti di questo alleato storico.

Alle sempre più pressanti richieste di porre un freno al sostegno militare a stelle e strisce nei confronti di Israele ha certamente contribuito anche l’astensione del governo USA dal voto in sede ONU in favore di un cessate il fuoco. In questo contesto reso ancor più confuso dall’avvicinarsi delle elezioni presidenziali, ho pensato di fare quattro chiacchiere con una donna americana che, da tempo sensibile alla causa palestinese, conosce molto bene il clima e le polemiche intorno ad Israele nell’America di oggi.

Mindy Isser è una giornalista, sindacalista e attivista politica di discendenza e religione ebraica che vive e lavora a Philadelphia, dove è nata e cresciuta. Ha scritto per In These Times, Jacobin, Current Affairs e molti altri periodici. Non si è mai tirata indietro davanti a una polemica, avendo parlato e scritto, spesso in tono personale, dei problemi legati al sionismo e all’anti-abortismo, per citare alcuni dei suoi lavori più recenti.

Un primo piano di Mindy Isser, giornalista, sindacalista, ed attivista filo-palestinese americana di origine ebraica. Photo credit: Mindy Isser.

Ciao Mindy, come sei diventata un’attivista per i diritti dei palestinesi?

Sono ebrea. Quindi sentivo molte cose riguardo ad Israele in casa fin da piccola. Frequentavo e frequento ancora una sinagoga. A 19 anni, vinsi insieme a mio fratello a un viaggio offerto dalla Birthright Israel, un’organizzazione statunitense che sponsorizza viaggi gratis in Israele per giovani americani di origine ebraica. All’epoca mi consideravo già di sinistra, ma non ero molto politicizzata e non avevo ancora un’idea specifica delle questioni medio-orientali. E poi era un viaggio gratis dall’altra parte del mondo…come dire di no? Fu un’esperienza molto intensa. Ci portarono a vedere un sacco di cose molto importanti da un punto di vista religioso e culturale, ma non si parlò mai di Palestina. Tutte le persone che ci facevano incontrare praticamente facevano finta che i palestinesi non esistessero. Sapevo che non era così, e la cosa mi confuse. Anche perché, quando non ti fanno vedere una cosa, di solito c’è un motivo. Decisi così di prolungare il mio soggiorno rimanendo per un po’ con alcuni miei amici che già studiavano in Israele. Questi amici mi aiutarono a capire meglio il sistema di apartheid che tanti altri cercavano di non farmi vedere.

Uno scorcio della striscia di Gaza prima e dopo i bombardamenti Israeliani. Photo Credit: AOAV.

E quindi fu quello il momento in cui iniziasti a manifestare per la Palestina?

Non subito, ma iniziai a seguire Jewish Voice for Peace, l’organizzazione ebraica pro-Palestina più importante e attiva negli Stati Uniti, di cui ora sono tesserata. Durante il conflitto del 2014, poi, mi vergognai profondamente di ciò che Israele stava facendo. Un’amica mi disse: “andiamo a occupare il palazzo della Jewish Federation (n.d.r.: un’associazione americana di ispirazione sionista) qui a Philadelphia, vuoi venire?” Dissi di sì. Abbiamo fatto un sit-in nel palazzo e ci siamo messi a cantare cori e preghiere ebraiche contrarie al conflitto. Alla fine, arrivò la polizia che ci mise in manette e ci diede una multa. Niente di che, ma per me fu un’esperienza molto potente, mi fece sentire meno sola. Essendo ebrea, gran parte della tua vita ha a che vedere con il concetto di Israele e, quindi, opporsi alle azioni dello stato di Israele può sembrare a molti anche un rifiuto della propria famiglia, della propria comunità, e di molti amici. Anche per questo per me è un sollievo partecipare ad azioni antisioniste insieme ad altri ebrei.

Rabbini americani manifestano contro l’occupazione della Palestina durante un sit-in a Capitol Hill, Washington D.C., nell’ottobre 2023. Photo credit: 972 Magazine.

A quali forme di attivismo in favore della Palestina stai partecipando da ottobre?

Vado alle manifestazioni quando posso. Telefono all’ufficio dei miei deputati tutti i giorni (n.d.r.: negli Stati Uniti, i deputati eletti mettono solitamente a disposizione un ufficio che gestisce le relazioni con gli elettori), anche se può sembrare inutile. Ho partecipato ad una grande sit-in a Washington, dove siamo anche stati arrestati. Abbiamo poi fatto un’azione molto simile davanti all’ufficio del Senatore Fetterman, un fervente sostenitore delle guerre di Israele.  Abbiamo manifestato alla 30th Street Station, la Stazione ferroviaria principale di Philadelphia e ne abbiamo bloccato i treni. Siamo così determinati a fermare quello che sta succedendo da mettere a rischio i nostri corpi. Purtroppo, ancora non basta.

Manifestazione in favore del cessate il fuoco in Palestina nelle strade di Los Angeles. Photo credit: Los Angeles Daily News.

MM: Hai scritto molto a riguardo dell’attivismo di ispirazione ebraica in favore di una Palestina libera, sia in generale che per quanto riguarda i tuoi valori personali. Quale credi sia il ruolo assunto da questi movimenti a partire dallo scorso ottobre?

Quello occupato da questi movimenti è uno spazio non sempre facile da gestire perché a noi Ebrei viene data una credibilità particolare su queste questioni anche solo per questioni di identità, a prescindere dalla conoscenza che ognuno di noi ha della storia e del conflitto. In un certo senso, a noi viene dato un pulpito che altri, inclusi gli Arabi, i Musulmani e soprattutto i Palestinesi, purtroppo non hanno. Quindi credo sia molto importante usare questa voce per fare rumore, per dire che essere ebrei non vuol dire per forza essere anche sionisti. Allo stesso tempo, dovremmo dare sempre maggiore spazio alle voci dei Palestinesi, di quelli che vivono questo conflitto e che ora vedono i figli morire di fame e perdere le gambe sotto le bombe. Sono quelle le persone che tutti devono ascoltare, non noi Ebrei americani. Ma visto che questa voce ce l’abbiamo, è importante non sprecarla. Qualsiasi si cosa faccia a favore della Palestina, qualcuno dirà sempre che questa cosa è antisemita. Su questo neppure noi Ebrei di senso possiamo farci nulla. Ma forse, se c’è una cosa che possiamo e dobbiamo fare, è proprio quella di ribadire sempre in modo forte e chiaro che l’antisionismo e l’antisemitismo sono due cose radicalmente diverse.

Manifestazione contro un convegno dell’AIPAC, un’associazione sionista americana, presso Washington D.C.. Photo credit: Huffington Post.

La stragrande maggioranza dei politici statunitensi appoggia le azioni militari di Israele a Gaza, mentre solo piccola minoranza di essi chiede un cessate il fuoco. L’opinione pubblica americana, però, ha posizioni molto più variegate su questo tema. Come si spiega questa differenza d’opinioni su di una situazione così drammatica?

Si spiega col fatto viviamo all’inferno! Quella americana è una situazione davvero deprimente. Ovviamente parte del problema sono i soldi, i contributi politici con cui tante lobby pro-Israele come l’AIPAC finanziano campagne elettorali dei candidati alle elezioni tanto in campo democratico quanto repubblicano. Queste lobby hanno più potere e più soldi di quelli che vogliono la pace, il che avrà un effetto tetro sulle prossime Elezioni Presidenziali, anche in termini di affluenza alle urne. In tempi come questi, diventa sempre più difficile spiegare alle persone perché dovrebbero votare. Se sia i candidati democratici che quelli repubblicani si scoprono essere dei sionisti guerrafondai, chi vuole la pace in Medio Oriente sta iniziando a chiedersi che differenze ci siano fra di loro e che senso abbia votarne uno. Voglio essere chiara: esistono differenze sostanziali tra Trump e Biden. Però la gente vede che succedono queste cose orribili, che queste cose vengono sostenute dal governo degli Stati Uniti e che Biden va avanti lo stesso come se niente fosse. E quindi questa gente due domande se le chiede. In fondo però sappiamo che anche Trump farebbe le stesse cose. Il punto è che la gente chiede ai propri rappresentanti di rappresentarli e questi non lo fanno. La gente diserta la politica quando si sente senza alcun potere.

Pacifisti ebrei durante una manifestazione in favore del cessate il fuoco in Palestina a New York City. Photo credit: Jewish Voice for Peace.

MM: Credi che il sostegno di Biden per l’Israele avrà un impatto sul voto presidenziale il prossimo novembre?

Non saprei dirlo al momento. Gli elettori democratici ed il fronte progressista più in generale hanno inviato a Biden un segnale di forte malcontento, anche in occasione di appuntamenti elettorali recenti. Però credo che molti elettori si tapperanno il naso negli stati chiave, votando per Biden a malincuore. In fondo finirò per farlo pure io, così come i miei familiari. Credo però che la questione di Gaza un po’ di impatto sulle elezioni lo avrà. E siccome queste saranno elezioni serrate, potrebbe essere un fattore decisivo.

Sit-in in favore del cessate il fuoco presso la 30th St Station di Philadelphia. Photo credit: Mindy Isser.

Esiste anche un grande divario generazionale negli Stati Uniti per quanto riguarda le opinioni politiche riguardo ai massacri Israeliani a Gaza, sia fra gli ebrei che in generale, con gli americani giovani che tendenzialmente sostengono i diritti palestinesi e le vecchie generazioni che si attestano su posizioni più filoisraeliane. Questo potrebbe cambiare in futuro il rapporto tra il nostro paese e Israele?

Questa è davvero un’ottima domanda, alla quale non so rispondere proprio per via del distacco esistente fra classe politica ed opinione pubblica. Il che è vero non solo per i rapporti con Israele, ma anche per molte altre cose che accadono nel mio paese. La maggioranza delle persone vuole l’aborto legale, però ci sono un mucchio di stati americani che lo vietano totalmente. Quindi non lo so se il gap generazionale all’interno dell’opinione pubblica abbia un qualunque peso politico in questi tempi, anche se forse quando verranno eletti più deputati della nostra generazione potrebbero cambiare le cose. La cosiddetta “squad”, un piccolo gruppo di giovani legislatori progressisti eletti fra le fila dei democratici, ha infatti posizioni migliori su questo tema rispetto al resto del partito, ma la loro influenza purtroppo è ancora limitata. Servirebbe un numero maggiore di queste persone in circolazione, magari da eleggere anche fra le fila della comunità Palestinese in America, che ha un’esperienza più diretta di questo conflitto.

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