C’è qualcosa di naturale ed assolutamente prevedibile dietro la realizzazione di “Supersex”, la recente serie TV ispirata alla vita di Rocco Siffredi, ed i motivi di questa cosa credo siano da cercare proprio nel percorso delle realtà produttive e distributive che l’hanno realizzata, ovvero Groenlandia Group ed il colosso internazionale Netflix.
Da un lato c’è un chiaro proposito di Groenladia Group, la casa di produzione fondata da Sydney Sibilia e Matteo Rovero, ovvero quello di dar luce ad un nuovo cinema italiano che si ponga a metà strada tra la commedia popolare ed i guizzi d’essay di un certo cinema d’autore. Sin dalle prime opere alle quali questa casa di produzione ha preso parte (penso al film dei The Pills ed ai sequel di “Smetto Quando Voglio”), infatti, era altrettanto chiaro come essa volesse raggiungere tale scopo tramite l’ibridazione fra un certo cinema di genere americano e gli stilemi della vecchia commedia all’italiana, magari a loro volta “ringiovaniti” dalle emergenti realtà del web.
Andando un po’ più avanti nel tempo le cose si sono fatte ancora più interessanti per Groenlandia. Grazie a film come “L’Incredibile Storia dell’Isola delle Rose”, “Il Primo Re” o il recentissimo “Mixed by Enry”, appare ancora più evidente il suo l’interesse creativo nel valorizzare e prendere ispirazione da una cultura pop di gusto “glocal”, viva e piena di storie, a volte miti poco valorizzati semplicemente poco “osservati” del recente passato.
Dall’altro lato abbiamo, dicevamo, abbiamo invece il colosso della TV online Netflix, che più di ogni altro ha costruito la sua estetica ed il suo linguaggio intorno all’idea di Nostalgia e ad sguardo ossessivamente attratto dal recente passato culturale dell’attuale società dei consumi (mediatici, ma non solo). Attiva dovunque nel mondo, anche in Italia Netflix ha cercato di stimolare le emergenti realtà del web (vedasi “Generazione 56K” dei The Jackall o le serie TV animate di Zerocalcare) e dato spazio produttivo a vicende nostrane più o meno note (penso a documentari come “Sanpa“, “Wanna“, “Il Principe” e “Unica”, oppure a fiction come “Suburra”, “Curon”, e “Sulla mia Pelle”).
Ed anche Netflix, come Groenlandia, ha più volte mostrato l’interesse nel riempire quel vuoto tra due due tipologie di prodotto audiovisivo findamentalmente diverse, proponendo storie dai personaggi moralmente ambigui e distanziandosi in maniera radicale da prodotti che rappresentassero la realtà tramite le rigide dicotomie morali fin troppo diffuse nei racconti edificanti della televisione nazionale.
Per tutti questi motivi, scegliere di raccontare la storia di Rocco Siffredi, simbolo vivo di uno specifico bacino culturale nostrano, di una rivoluzione culturale che è finita per sdoganare l’industria del porno e l’immagine pubblica dei suoi protagonisti all’interno dei circuiti mediatici “ufficiali”, ed emblema delle personalità controverse dell’Italia contemporanea, era una scelta saggia, consapevole e sicuramente matura da parte delle due case di produzione. Ma purtroppo, nei sette episodi scritti da Francesca Manieri, manca qualcosa che riesca davvero a rappresentare lo spartiacque che soprattutto Groenlandia cerca da tempo.
È coraggiosa e sicuramente meritevole la voglia da parte degli autori di questa serie di ricalcare le orme di un cinecomic, per appunto il Supersex, per raccontare Rocco Siffredi, lo Stallone Italiano che proprio come qualsiasi supereroe americano affronta i suoi fantasmi e le responsabilità dei suoi poteri in quella che è in tutto e per tutto una “origin story”. In tal senso, è anche interessante l’accostamento culturale tra il fumetto ed il “giornaletto” pornografico, entrambi testi di basso profilo sociale, provenienti da quel microcosmo nostalgico che sono le edicole ed entrambi contenitori di “sogni”.
Come è altrettanto riuscito la sfondo che si delinea intorno alle storie dei protagonisti. Da Riccardo Schicchi a Moana, passando per gli spettacoli osè e la nascente industria del porno, quella che si delinea in Supersex è una vera e propria rivoluzione culturale, fatta da personaggi di cui sicuramente viene voglia di saperne di più.
Ma, purtroppo, queste aspetti positivi della serie rimangono solo sfumature, perché il corpus dell’opera rimangono i drammi di un Rocco Siffredi conteso tra amore, famiglia ed il sesso, in un racconto di gusto melò con qualche momento riuscito, ma complessivamente “dotato” di poco mordente. In questo senso, anche la complessità di un personaggio oggettivamente multiforme come quello di Rocco Siffredi viene ipersemplificata in favore di una personalità fin troppo romanticizzata ed enfatizzata da un’altrettanto patinata propensione per il voice over (forse anche questa debitrice degli stilemi supereroistici?).
Ancora peggio i personaggi di contorno. Tolte alcune guest star mitiche, queste riescono ad essere davvero troppo poco incisive, provvedendo qualcosa di più di un qualsiasi melodramma familiare all’italiana. Persino la cifra principale della serie, ovvero quella del corpo e della sessualità, rimane quindi solo una patina che appare di tanto in tanto sullo schermo, emergendo solo saltuariamente. Paradossalmente, “Supersex” è una serie sul corpo senza alcun vezzo erotico. Il corpo di cui sopra è a volte accennato, ma francamente lo spettatore non può sentirlo, nè vederlo, quasi mai in modo vero e tangibile.
Purtroppo bisogna dire che questo è sicuramente un problema comune a tanti prodotti targati Groenlandia Group, ed in parte anche di tante opere recentemente prodotte da Netflix, le quali non riescono a valorizzare davvero il contesti culturali che sembrano determinate a raccontare, forgiando invece opere individualiste centrate sulla complessità (o presunta tale) dei loro protagonisti.
Finché non si riuscirà davvero a prendere le distanze da questo paradigma e da un determinato racconto di superficie, difficilmente queste opere riusciranno a rappresentare quello spartiacque tanto desiderato da un certo pubblico e, probabilmente, dagli stessi produttori.

Frequento l’ultimo anno di DAMS a Palermo, dopo aver concluso un percorso all’accademia di cinema Griffith, a Roma.
Studio da tempo la cultura pop e le sue, svariate, manifestazioni. Su di queste ho organizzato pure 3 seminari all’Università di Palermo.
La mia rubrica approfondirà le dinamiche e i linguaggi dell’arte popolare, con particolare attenzione a come, oggi, questi vengano percepiti dai nuovi media e le nuove generazioni.