Chi ha paura delle AI? John Wick, la Bestia e la TikToker Giuliana Florio

Tra meme, proteste, indignazioni, ma soprattutto paure, uno dei temi del momento è sicuramente quello riguardante le cosiddette intelligenze artificiali (AI). Se circoscriviamo lo sguardo al versante più discusso, cioè quello dell’arte e dello spettacolo, la polemica viene mossa da un timore legale: è lecito utilizzare testi, musiche, ed immagini coperte da copyright per fortificare la performance di un software in grado di creare contenuti da solo?

Ma le questioni su cui, in questa sede, voglio soffermarmi sono, per così dire, di più ampio respiro. Al fondo della questione, infatti, tutte queste preoccupazioni riguardo alla diffusione delle AI sembrano alimentate da un timore indefinito per un futuro incerto, dove il ruolo degli esseri umani sarà sempre più precario e minacce dalla natura “disumana” incomberanno su ognuno di noi.

HAL 9000, probabilmente l’AI più spaventosa di tutta la storia del cinema, in una scena di “2001: Odissea nello spazio” di Stanley Kubrick (1968). Photo credit: Metro-Goldwyn-Mayer.

Per tentare una breve riflessione su questi timori ed i suoi argomenti cardine, ho trovato quest’anno tre spunti che, forse meglio di ogni speculazione teorica, sono riusciti a toccare la questione. Il primo di questi spunti l’ho trovato nel cinema più smaccatamente popolare. Si tratta infatti di uno dei film evento dell’anno e presunta conclusione di una delle saghe action più interessanti del decennio, ovvero quella di John Wick.

Dopo un primo capitolo action dal gusto molto classico e dalle nulle velleità teoriche, ma con una grossa convinzione nel voler affermare un nuovo personaggio iconico dietro al volto dell’amato Kenue Reeves, è già il turno del secondo e terzo. Nei sequel, il progetto John Wick si fa più ambizioso già in sede di regia, ma soprattutto a livello di scrittura, con un interesse molto più ingombrante nel definire uno spesso worldbuilding, fatto di personaggi e luoghi costantemente interconnessi ed un’azione sempre più simile a quella di un videogioco o di uno spettacolo teatrale.

Ma è con il quarto capitolo fiume (della durata di quasi 4 ore) che avviene la svolta definitiva nel proporre allo spettatore un action spiccatamente teorico. Il legame diretto con l’action muscolare viene definitivamente reciso a favore di un potpourri dalle disparate influenze postmoderne. Dal musical al videogioco, passando per il videoclip.

In questo caleidoscopio di influenze, i personaggi non sono più fatti di carne e materia, divenendo veri e proprio fantasmi di un mondo non più corporeo ma digitale. I pugni e le sparatorie vengono inquadrati adesso da sguardi che alludono direttamente al mondo dei videogiochi (cult immediato: il punto di vista à la “hotline Miami” o “GTA” che fu), che mostrano spazi non più reali, comparse umane non più più davvero presenti.

Reeves combatte, ma intorno a sé chiunque continua a vivere la sua vita, come fosse un NPC (personaggio non giocante) di una piattaforma videoludica open world, ed il suo cammino è scandito da veri e propri livelli. Quello di Wick è quindi un mondo interconnesso, dove assassini e vittime fanno parte di una rete viva e costantemente attiva.

La pista da ballo dove avviene uno degli scontri cruciali del film, dove chiunque continua a ballare senza far caso a nulla, raccoglie la danza sanguinolenta dei due sfidanti come se fosse diretta da un’enorme intelligenza artificiale difettata, o come se fosse la naturale dissonanza narrativa presente nelle scenografie di ogni musical o…di un video di TikTok.

Spostiamo adesso verso un altro film ed un altro spunto. Ma questa volta in un territorio parzialmente diverso, non più quello del cinema action e popolare, ma quello proposto da uno degli attuali registi dei punta di un certo cinema “intellettuale” europeo, il francese Bertrand Bonello. Il film in questione è “La Bestia” o, in originale, “La Bête”.

Il film fin da subito tenta di confondere le proprie coordinate spazio temporali. Da una sequenza immersa in un verde ed inquietante green screen si passa ad una sequenza in costume, ambientata durante la Belle Epoque. Ma c’è qualcosa di strano ed anomalo nell’aria, si mormora da subito di un presagio. Arriverà una bestia che rovinerà la vita dei protagonisti, infatti, in un prossimo futuro.

Dopo qualche minuto, il film svela la sua vera natura. I due protagonisti sono un uomo ed una donna che, immersi in una realtà asettica e sovrastata (per l’appunto) dall’intelligenza artificiale, decidono di reprimere ogni emozione per poter vivere più serenamente, senza alcuna sofferenza. Così decidono di rivivere le vite di esistenze precedenti per cancellarle e, quindi, distruggere ogni traccia di umanità dalle loro menti.

Nel tracciare questo futuro distopico, Bonello costruisce un affresco multistrato, dove realtà, temporalità e spazi collidono a favore di un unico grande calderone fatto di generi, influenze, derivazioni ed universi narrativi. Al centro di tutto, la perdita di un centro. Dominano l’incertezza e la paura del futuro: chi è questa bestia? cosa incombe nel futuro dei protagonisti?

Per raccontare questo disagio verrà messa in campo una vera e propria manipolazione audiovisiva, da glitch grafici a immagini sfocate e smagnetizzate, fino al tocco di classe finale. Al termine del film, nessun titolo di coda scorrerà su schermo. Al suo posto comparire un enorme ed imperante codice QR. Cliccando sul link annesso dal proprio cellulare si verrà così rimandati agli effettivi titoli di coda.

Anche in questo caso, l’unica certezza a cui fa affidamento il cinema, ovvero lo schermo, perde la sua valenza. Anche il cinema, proprio il “cinema” in quanto tale così come la sala di proiezione all’interno della quale lo spettatore vede il film, viene così sostituito da un altro device, dislocando l’opera dal suo spazio di fruizione tradizionale.

Il regista francese Bertrand Bonello alla Mostra del Cinema di Venezia del 2023. Photo credit: fadege.it

Come ultimo punto, mi sposto dal cinema in senso stretto per giungere ad un fenomeno sociale, anch’esso audiovisivo. Ovvero quello delle cosiddette “Live NPC”. Negli ultimi mesi, infatti, c’è una nuova tendenza in rete, soprattutto su TikTok, in base alla quale i creatori e protagonisti dei video che circolano sulle piattaforme social simulano il comportamento di un personaggio non giocante di un videogame, quindi controllato da una AI. Questi rispondono a degli input dati dallo spettatore, sempre allo stesso modo, appunto come se fossero un un NPC scriptato.

Anche l’Italia ha la sua performer NPC, che è Giuliana Florio, una webstar di Napoli trapiantata ad Amsterdam che, nel tempo libero, imita i personaggi non giocanti dei videogiochi in lingua napoletana. Il successo della Ferrario nasce sui social, ma arriva tramite la visibilità donatele dalla trasmissione televisiva “Propaganda Live”.

E’ proprio da allora che fioccano da ogni parte video denigratori contro la performer partenopea. Ironie di ogni tipo, sì, ma soprattutto presagi di Apocalisse infarciti dai soliti “ecco dove siamo arrivati”, “signora mia, dove andremo a finire”, “o tempora o mores”, e chi può ne ha più ne metta.

Ma ciò che rende davvero interesssante le performances della Florio, così come quelle di tutti i performer NPC, è la loro capacità di raccontare un cambiamento. Perché è buffo pensare che, in un clima di protesta verso le AI, Giuliana Florio porti avanti un discorso di segno opposto.

Se quello che delle AI ci terrorizza è la loro capacità di sostituire l’essere umano, quello che fa la Florio è dimostrare come siano invece gli esseri umani ad essere ossessionati dal pensiero di diventare delle macchine, fino al punto di sostituirsi ad esse con efficacia. Nelle sua performances, in breve, fa quello che tentavano di fare i protagonisti del “La Bestia”: disumanizzare l’essere umano per esorcizzarne la sofferenza.

Quello che il “gioco” della Florio mette in luce, quindi, è l’esistenza di un dinamismo di fondo, un cambiamento, una capacità di andata e ritorno dal mondo corporeo degli esseri umani in carne ed ossa a quello delle intelligenze artificiali e della virtualizzazione del tutto.Un processo continuo di cambi e scambi, morti e rinascite, che accompagna l’umanità dall’alba dei tempi e rende ben evidente che l’apocalisse, se mai arriverà, non sarà per mano del progresso o del cambiamento tecnologico, culturale o sociale che dir si voglia.

E se anche questa Apocalisse dovesse effettivamente avvenire, sicuramente non saranno certo l’allarmismo e le paure dei benpensanti a salvarci.

Lascia un commento