Il cinema contemporaneo tendea guardare verso il passato, alle idee ed alle prospettive che furono, conscio della sua capacità di costruire immaginari, rappresentazioni e modelli culturali. Il cinema americano, soprattutto, sembra mostrare un interesse particolare nel soffermare la sua attenzione verso ciò che nei decenni precedenti aveva occultato o rimosso per permettergli, adesso, di esporsi ed esprimersi.
I casi sono tanti, ma la parabola della discussa “inclusività” è un argomento attuale e pulsante, per chi il cinema lo fa ma anche per chi di cinema si nutre e discute. Ciò causa talvolta anche accese polemiche da parte chi mal sopporta questi cambi di prospettiva e accusa le Major di sfruttare le tendenze del momento o di strumentalizzare per motivi economici l’emancipazione di certe minoranze.
Ma ciò che non si può più negare è che qualcosa sia effettivamente cambiato nel cinema contemporaneo, in modo profondo e strutturale. Lo dimostrano gli Oscar vinti da registi provenienti da paesi non anglofoni (Alfonso Cuaron, Alejandro Gonzalez Inarritu, Bong Jong-ho), l’attenzione che l’Academy ripone nelle sue candidature (inserendo addirittura nuove regole per tutelarne l’inclusività), ma soprattutto i movimenti di Major come Disney o Netflix nel dare spazio a maestranze, storie e personaggi che diano voce alle minoranze.
Le modalità e gli esempi sono tanti: reboot e rilanci di vecchie saghe (basti pensare alle scelte di casting della saga di Star Wars o quelle Marvel), nuove strategie aziendali (come quelle che hanno portato Netflix a puntare sempre più su serie-evento internazionali come la Casa di Carta o Squid Game) e i tantissimi remake e rifacimenti che tentano di riattualizzare storie del passato in chiave, per l’appunto, inclusiva. A ciò hanno sicuramente contributo l’affermarsi delle piattaforme streaming, che incrociano e fluidificano prodotti proveniente da svariati paesi, i quali a loro volta devono rivolgersi a target ibridi.
Ma un ruolo decisivo lo ha rivestito sicuramente un genere relativamente nuovo come quello del “New Queer Cinema“, che più di ogni altro si è fatto manifesto di un nuovo modo di raccontare uno sguardo collaterale, a tratti bizzarro, rappresentante una parte della società fino ad ora relegata ai margini. Ma in questi ecosistemi di rivalsa e nella costruzione di questi nuovi immaginari, c’è una minoranza che viene ancora poco attenzionata e spesso messa al servizio di questioni altre, ovvero quella dell’animale non umano. Il problema è atavico e complesso, perché la domanda che bisogna subito porsi è se sia possibile dare una rappresentazione dell’animale libera e sincera tramite linguaggi e categorie di derivazione umana, soprattutto tramite un mezzo tecnologizzato come il cinema.
Mario Blaconà, nel suo saggio “Una specie di immagine: La consapevolezza antispecista nel cinema contemporaneo“, riflette sul rapporto tra cinema e rappresentazione dell’animale non umano, presentandola come una questione antica, che il cinema porta con sè sin dalle sue origini. Il cinema dell origini “assumerebbe il significato di un enorme rimosso collettivo in cui la svalutazione dell’ Animale o la sua ipervalutazione come eccezione spettacolare giocano un ruolo preponderante ai fini della propaganda specista funzionale a sancire la presunta superiorità (per difetto o per eccesso) dell’Umano e la sua distanza (simbolica e materiale) dall’animale non umano.” Blaconà porta ad esempio gli esperimenti di proto-cinema di Eadweard Muybridge o il genere Western, che già avevano in sé molti elementi dell’industria del cinema contemporaneo.
Blaconà cita poi Jacques Derrida, che aveva già discusso sulla differenza profonda tra l’animale e l’uomo, definendo quest’ultimo come un “animale autobiografico”, così bisognoso di autorappresentarsi da illudersi di essere padrone del mondo e centro dell’universo. Ciò si può già notare nell’Antico Testamento: “Dio poi benedì Noè e i suoi figli, dicendo loro: Siate fecondi, moltiplicatevi e riempite la terra. La paura di voi e il terrore di voi siano in tutti gli animali selvatici e in tutti gli uccelli del cielo, come in ognuno che striscia sulla terra e in tutti i pesci del mare; essi sono dati in vostro potere. Tutto quello che si muove e ha vita sarà vostro cibo; come già la verde erba, do a voi tutto.”
Blaconà continua facendo riferimento al testo di John Berger “Perchè guardiamo gli animali?“, nel quale si riflette sull’eccessiva presenza degli animali nelle rappresentazioni umane, in spazi e contesti differenti che tendono a denaturalizzare quella che potrebbe essere vista come l'”essenza animale”, ovvero il loro essere messaggeri di un territorio selvaggio: “Oggi gli animali abitano le case di milioni di persone, le loro fotografie invadono il web e le pagine dei giornali: sono dappertutto, eppure stanno scomparendo, perché è sempre più rara la possibilità di un incontro, sostituita dallo spettacolo di documentari, cartoni animati e giochi per bambini. Stanno perdendo il ruolo di messaggeri di un «oltre» segreto, dell’abisso che si trova al di là del linguaggio e parla della nostra origine, della nostra solitudine come specie.”
A questo punto, risulta evidente come l’essere umano abbia da sempre avuto la consuetudine e la necessità di rappresentare l’animale. Già dalla preistoria ci giungono raffigurazioni rupestri che evidenziano come gli umani rappresentassero il mondo intorno a sé, tra cui ovviamente gli animali, per comprenderli ed in qualche modo controllarli. In questo senso, le rappresentazioni animali dei gruppi di costellazioni che compongono lo Zodiaco o le costruzioni totemiche rappresentano precedenti antropoloici importanti.
Se ci spostiamo invece nella letteratura, invece, sono tanti i casi di antropomorfizzazione narrativa, dove l’animale diviene metafora di vizi e questioni tutte umane. E’ questo il caso delle favole greche di Esopo, di quelle scritte da Fedro in epoca romana e del più recente “La Fattoria degli Animali” di George Orwell. Ma è chiaro che il maggior contributo nel diffondere l’immagine dell’animale nell’epoca contemporanea, soprattutto come essere antropomorfo, lo dobbiamo ai fumetti e all’animazione.
Si pensi alle strisce comiche pubblicate su giornali o riviste, con funzioni satiriche o narrative, come i “Peanuts” di Schulz, “Calvin e Hobbes” di Bill Watterson, “Fritz il Gatto” di Robert Crumb e la graphic novel “Maus” di Art Spiegleman. Oppure all’animazione americana, a partire dai classici “Looney Tunes” fino ai cartoon dei fratelli Fleischer, per arrivare a serie animate recentissime come “Bojack Horseman”.
Il contributo più grande ed incisivo, soprattutto se trattiamo di immaginari collettivi, non si può che ritrovarlo in Walt Disney. Dice a tal proposito la classicista e critica cinematografica Sofia Paolinelli: “La Disney ha di fatto introdotto l’antropomorfismo sul grande schermo, facendo dell’animale il proprio protagonista. Pensiamo al mondo di Topolino, creatura figlia di Walter Disney, abitato da specifiche razze animali. Dopo i primi prodotti, concentrati particolarmente sulle avventure di Topolino e Paperino, l’antropomorfismo ha poi raggiunto negli anni una consapevolezza maggiore e più estesa. I primi film disneiani tendevano principalmente a rappresentare il regno animale corredato dalle proprie caratteristiche naturali. I personaggi del ‘Re leone’, di ‘Lilli e il Vagabondo’ o de ‘La Carica dei 101’ ruggiscono ed abbaiano.”
Anche spostandoci in Giappone, la pratica di rappresentare l’animale non è meno ricorrente. Tuttavia prospettive e dinamiche possano, in certi casi, variare nel contesto orientale. Si prenda il caso di Hayao Miyazaki e del suo film più iconico, “Il Mio Vicino Totoro”, da cui proviene anche la mascotte ufficiale del suo studio di animazione. Totoro si fa portavoce e tramite del mondo della fantasia, dimensione dalla quale gli umani hanno attuato un processo di recisione nel passaggio all’età adulta e a cui, invece, solo i bambini hanno la possibilità di accedere. Ma in Miyazaki il rapporto tra l’uomo e l’animale (e quindi la Natura) può essere anche più complesso e feroce (si veda “Princessa Mononoke”), sebbene da esso si possa anche ottenere anche armonia ed equilibrio, spesso raggiunti tramite l’interazione con spettri o entità del folklore nipponico.
Esistono nel cinema, al di fuori dell’animazione, altri modi di rappresentare l’animale, che pur non antropomorfizzandolo lo sfruttano per questione tutte umane, in certi casi come metafora di una natura selvaggia e sconosciuta (le saghe di “King Kong” o “Godzilla”), altre come simbolo di paure umane ancestrali (“Lo Squalo” di Steven Spielberg), altre ancora come perno su cui costruire storie spesso edificanti rivolte ad un target “familiare”(“Lassie”, “Beethoven”, “Io e Marley”, “Hachiko”).
Ma tornando in contesti e tempi contemporanei, quindi, è possibile introdurre un nuovo modo di intendere la rappresentazione animale nel cinema, magari tramite tecniche e modalità che la rendano meno filtrata dallo sguardo umano?
Per tentare una riflessione simile va preso in considerazione il concetto di “antispecismo”. Mario Blaconà, sempre nel suo saggio, lo definisce come “un movimento filosofico, politico e culturale che si oppone allo specismo, il quale a sua volta riguarda l’attribuzione di un diverso valore e status morale agli individui unicamente in base alla loro specie di appartenenza.”
Con questa prospettiva in mente si può tentare, adesso, di osservare il cosmo delle produzioni audiovisive contemporanee per provare a rintracciare eventuali sguardi antispecisti o animalisti. Cercherò d farlo spaziando tra più generi e prospettive, target e formati, anche in film dove la parabola inclusiva può apparire anche solamente collaterale, ma dove si può, comunque, ricostruire un sottotesto che guarda in tale direzione.
Zootropolis (2015)
Come ho già accennato, se parliamo di immaginari non si può non riconoscere la Disney come una dei suoi maggiori artefici, soprattutto per ciò che riguarda il pantheon degli animali antropomorfi. Anche andando oltre le mascotte e i personaggi più noti, provenienti dai corti animati degli anni ’30, come Mickey Mouse e Donald Duck, basti osservare la sconfinata lista di lungometraggi animati prodotti dalla Disney nel corso dei decenni.
Che siano le “shakespeariane” bestie della savana de “Il Re Leone”, o le indifese creature di “Dumbo” e “Bambi”, in tutte queste rappresentazioni le caratteristiche umane sono sempre presenti, se non predominanti. Si potrebbe pure affermare che la cosiddetta “furry culture” (tanto in voga, oggi, nella cultura del web e dei “meme”) sia conseguenza di questo modo ibrido di intendere la rappresentazione dell’animale.
Però nel 2016, la Disney sembra interessata a mettere un punto un nuovo tipo di rappresentazione, o in qualche modo soffermarsi su ciò che ha significato fino ad allora, aver rappresentato l’animale non umano in senso classicamente disneiano. Realizza, così,“Zootropolis”, un thriller politico animato, ambientato in una fittizia metropoli, popolata esclusivamente da animali antropomorfi. La Disney decide di spingere la sua pratica di antropomorfizzazione al suo versante più estremo. La metropoli di Zootopia, infatti, è regolata da leggi e classi sociali di derivazione umana, con un “worldbuilding” che inscrive caratteristiche animali in contesti e comportamenti tutti umani.
Ma dietro questa superficie spiccatamente razionale e umana, continua ad esistere la “bestialità” dell’animale. Al centro della narrazione viene posta una presunta “animalità” che altera gli animali antropomorfi e li riporta al loro stadio di natura, creando caos in un mondo così umano e organizzato.
È come se la Disney, dopo anni di produzioni, rivelasse ai suoi spettatori che anche dentro ai suoi “poco animaleschi” animali abbia continuato ad esistere uno spirito animale del tutto alieno dall’umano, magari ad un livello inconscio.
Guardiani della Galassia Vol. 3 (2023)
Nello straripante e transmediale progetto del Marvel Cinematic Universe, la saga dei “Guardiani della Galassia” ha rappresentato, sin dal primo capitolo, la sua variabile, una scheggia impazzita che poteva permettersi ciò che altri cinecomics Marvel non potevano. Affidare la saga ad un regista come James Gunn, con un’esperienza alle spalle nella produzione dei “B-movies” della Troma, oltra agli svariati impieghi come scrittore e regista in prodotti dalle vibrazioni gore e horror, non poteva che essere la scelta ideale per raccontare di ibridi animali e degli “esperimenti” che il cinema fa con esso.
Già i primi due capitoli raccontano le sgangherate storie di un gruppo di reietti, tra cui un procione antropomorfo, Rocket Racoon, che ha acquisito l’ingegno umano a seguito di sperimentazioni scientifiche. Ma è proprio il terzo capitolo che mette il procione al centro della trama, scavando nel suo passato e sviscerando una questione spiccatamente animalista. Il villain del film, infatti, sarà proprio uno scienziato alieno ossessionato dalla creazione di una razza ideale, dalle caratteristiche di una bestia ma con l’ingegno umano.
Nel film si susseguiranno una sfilza di freak e ibridi di vario tipo, con caratteristiche talvolta più o meno animali, talvolta più o meno umane. È come se il villain del film, si facesse metafora dell’industria cinematografica stessa, ossessionata dal manipolare l’immagine dell’animale per conferire ad essa quei contorni che possano avvicinarla sempre più all’uomo, favorendo un facile auto-riconoscimento da parte dello spettatore.
La presa di posizione antispecista ed animalista è chiara, evidente ed intenzionale, magari a tratti anche didascalica, tanto da aver conquistato anche la P.E.T.A (People for the Ethical Treatment of Animals), che ha insignito il film di un premio dedicato.
Okja (2017)
In questo caso è un’altra grossa e nota Major a soffermarsi sulla questione animalista, ovvero il colosso dello streaming Netflix. La regia è dell’autore coreano Bong Joon-ho, già attivo da tempo nel trattare tematiche spiccatamente sociali a sfondo ambientalista; si pensi a suoi precedenti lavori come “Snowpiercer” o “The Host”. In “Okja“, il regista coreano sceglie di inspirarsi al cinema magico di Hayao Miyazaki, mettendo in scena il viaggio di una bambina alla ricerca del suo maiale magico, il quale a sua volta è braccato da una multinazionale che vuole utilizzarne le carni per produrre snack di ampia diffusione.
Il film, però, nel suo profondo, non adotta una lettura spiccatamente antispecista, poiché ad essere condannate con un’aspra satira sono solo le multinazionali e gli allevamenti intensivi e non l’alimentazione a base di carne in senso più assoluto. Il film riprende l’estetica e la narrazione di denuncia usata diffusamente dai video informativi interessati a mostrare la violenza e gli abusi che gli animali subiscono dentro gli allevamenti intensivi. Proprio a tal proposito, Mario Blaconà scrive: “Diverse inquadrature del film sfruttano la prospettiva aerea e “inorganica” dei droni che ispezionano i vasti territori dei capannoni degli allevamenti; ma alla fine di Okja è sempre lo sguardo umano a concedere all’animale il diritto alla vita, dall’alto di una pietà che non sempre è sinonimo di empatia.”
Lamb (2022)
Oggi, sotto svariati punti di vista, bisogna riconoscere la A24 come una delle case di produzioni audiovisive più influenti del panorama occidentale, se non mondiale. Lo dimostra il suo stile ben chiaro e definito, fatto di scelte estetiche e poetiche ben precise, dal gusto tendente al cinema “art house”, o il suo interesse profondo nel ribaltare aspettative e topoi del cinema commerciale di genere. A dimostrare ciò basti notare le schiere di fan createsi negli ultimi anni, o i numerosi registi affermatosi tramite essa, ma anche le altrettante personalità riemerse dall’oblio dello star system grazie ai suoi film.
Le testimonianze più evidenti di questa ascesa, però, rimangono i 7 Oscar vinti da “Everything Everywhere All at Once”, la fantascientifica commedia diretta dai Daniels, che nel 2023 ha consacrato definitivamente la casa di produzione a nuovo modello produttivo hollywoodiano. Non pare anomalo, quindi, che sia proprio uno dei suoi recenti film ad affrontare una storia con al suo interno dinamiche familiari atipiche e tematiche antispeciste.
“Lamb” (2022), rientra nel genere del folk-horror ed è l’opera prima del regista islandese Valdimar Jóhannsson. Ambientato in una fattoria di una zona remota dell’Islanda, racconta del tentativo di una coppia di contadini di integrare nel loro nucleo familiare un ibrido uomo-pecora, con il presupposto di adattarla a costumi e dinamiche di stampo umano. Le intenzioni della coppia di contadini vengono però messe in crisi durante l’avanzamento della vicenda, fino ad arrivare alla fatale e sanguinosa conclusione. Il film evidenzia lo sguardo specista dei protagonisti, disinteressati a valorizzare l’unicità di specie della creatura, schiacciandola con i loro sguardi e le loro pretese, ma al contempo costruisce una messa in scena interessata a valorizzare la denuncia antispecista.
Gunda (2020)
L’attore premio Oscar Joaquin Phoenix ha un lungo trascorso come attivista per cause ambientaliste e animaliste, a cui contribuisce prendendo parte attivamente a manifestazioni e partecipando a progetti di svariata forma e natura. Tra le più note, si ricorda il documentario “Eartlings (2005)” di Shaun Monson (parte di una possibile trilogia, con un secondo capitolo “Unity”, uscito nel 2015), dove dà il suo contributivo come voce narrante dell’intero film. “Eartlings” si caricava già di tutta quella protesta antispecista di cui Phoenix si fa portavoce, denunciando i consumi e gli abusi che l’uomo attua sull’animale.
Ma è nel 2020 che Phoenix fa un passo ulteriore, producendo un film del documentarista russo Viktor Kossakovsky, “Gunda”. La pellicola racconta di una scrofa da allevamento tramite una telecamera che accompagna l’animale dalla gravidanza fino al forzato abbandono dei suoi cuccioli, destinati al macello. “Gunda” presenta così come un nuovo modo di raccontare l’animale e le sue vicende. Lontano dalle denunce audiovisive più spietate e declamatorie, ma anche distante da qualsiasi stucchevole melodramma interessato solo a stimolare le lacrime forzata dello spettatore, il film cerca invece di costruire una denuncia antispecista in modo tacito e silenzioso, valorizzando l’animale e la sua intima epica.
La regia di Kossakovsky esalta l’animale non solo come personaggio, ma anche come vero e proprio attore. Il regista inquadra il maiale come se fosse un professionista, celebrando le sue capacità espressive con profondi primi piani. Kossakovsky stesso sottolinea in più interviste, ironicamente, questo suo modo di rapportarsi all’animale mettendolo in scena, paragonando le capacità espressive del maiale Gunda a quelle di Meryl Streep. Si tratta ovviamente un’iperbole che fa sorridere, ma i primi piani sugli occhi neri della scrofa fanno pensare che dietro quella battuta si celi un fondo di verità.
Cow (2021)
Ad un anno da Gunda, un’altra autrice prova a sperimentare con un racconto dal protagonista animale: la regista inglese Andrea Arnold. Con una carriera da tempo avviata nella fiction cinematografica e televisiva, con “Cow” la Arnold si cimenta per la prima volta con il mezzo documentaristico, portando a compimento quel desiderio, a lungo interiorizzato, sul raccontare la vita di un animale non umano.
In questo caso viene selezionata come protagonista una mucca da allevamento: mostrando il suo intero percorso vitale in cattività, dalla nascita fino al doloroso epilogo. Dove “Gunda”, però, annulla quasi completamente la presenza umana, Arnold sceglie una strada differente. In “Cow”, l’umano interferisce continuamente con l’agire della mucca, che sia il suo subentrare nell’inquadratura, o l’interazione diretta con il corpo e la presenza dell’animale, oltre alla massiccia presenza della strumentazione tecnica d’allevamento, ingombrante e ben visibile in scena.
A differenza di Kossakovsky, il quale mostra la scrofa in un contesto quasi metafisico e rarefatto, dove domina il bianco e nero ed una perfezione stilistica ineccepibile, la Arnold utilizza invece una camera a mano che, per sua natura, consegna un’immagine più sporca e naturalistica. In questo modo, “Cow” rivela maggiormente nell’immagine la presenza della “tecnica” e dello sguardo umano. Anche la stessa mucca si rivolgerà più volte infastidita alla telecamera che la riprende, definendo così una tensione tra l’agire umano e quello animale, tra il fuori campo e la diegesi dell’inquadratura, da cui l’animale ne esce sempre sopraffatto. La Arnold mette in scena, quindi, l’impossibilità stessa di guardare, o addirittura immaginare, l’animale senza un filtro umano; un animale la cui natura (ed immagine) è stata ormai completamente rimodulata dall’uomo ed i suoi strumenti.
Dalle considerazioni che si deducono dal film di Andrea Arnold, viene spontanea una nuova domanda: è possibile che il cinema non sia il mezzo più adatto per riconsegnare un’immagine dell’animale maggiormente emancipata? Per tentare una riflessione su questo argomento bisognerebbe spostarsi verso i nuovi media dominanti dell’audiovisivo contemporaneo e soprattutto in quelli che più di ogni altro, oggi, lasciano traccia nell’immaginario, ad esempio i videogiochi.
Anche il videogioco, storicamente, non dà una interpretazione animale troppo differente da quelle del cinema. Anche nel suo caso l’animale soccombe sotto le infrastrutture ludiche e linguistiche create dall’uomo. Lo si può trovare in contesti di scontro, dove diviene il “nemico” da combattere (la saga di Monster Hunter), o come strumento di comprensione ed accesso a spazi di gioco (la saga di Far Cry, la serie Pokemon). Se poi si tentasse di rintracciare i casi di antropomorfizzazione di animali protagonisti di videogiochi gli esempi si sprecherebbero, dalla saga di Crash Bandicoot a quella di Super Mario.
Eppure, il videogioco, media decisamente più immaturo e giovane rispetto al cinema, ha comunque uno strumento in più da poter sfruttare, che è ovviamente quello dell’interazione, caratteristica fondante della sua stessa struttura compositiva. Per immaginare un’interazione videoludica in senso antispecista, quindi, bisognerebbe pensarla come possibile scambio di idee e sguardi, un’interazione capace di educare al confronto con il diverso, il non conosciuto o ciò che non appartiene alla sfera umana, ma con cui è possibile costruire un ponte comunicativo.
Ed in questo senso, pur essendo molto pochi, esistono degli sprazzi sperimentali che nel videogioco tentano di costruire un nuovo modo di interagire con l’animale. Sono due i casi che meritano sicuramente attenzione: “The Last Guardian” (2016) di Fumito Ueda e la saga di “Shelter” (2013), sviluppata dallo studio Might and Delight. Nel caso di “The Last Guardian”, ultimo capitolo di una trilogia spirituale dell’autore giapponese Fumito Ueda, viene posta al centro della struttura narrativa e di gioco l’interazione tra un bambino (personaggio giocante) e una bestia magica, una chimera con caratteristiche provenienti da una moltitudine di animali.
L’avanzamento nello spazio di gioco e nella narrazione sarà possibile solo tramite l’interazione e la comprensione tra il bambino e la bestia, la quale sarà regolata da una ben definita intelligenza artificiale, articolata dai suoi specifici codici e movimenti da interpretare, donando alla bestia una sua dignità ed indipendenza, tanto ludica quanto narrativa. A differenza quindi della costruzione di animali più diffusa in ambito videoludico, la bestia di “The Last Guardian” ha un valore comunicativo reale che conferisce all’interazione con il giocatore verosimiglianza e profondità.
Con la saga di Shelter, invece, gli autori si pongono come obiettivo il racconto naturalistico animale, in cui madri animali appartenenti a diverse specie (tra cui un tasso, una lince ed un elefante) dovranno prendersi cura dei loro cuccioli. La presenza dell’uomo viene completamente abolita nell’ecosistema di gioco e lo scambio interattivo “antispecista” avviene tra il giocatore stesso ed il “personaggio giocante”, che è per l’appunto un animale, costruito con grande rispetto verso i suoi limiti e le sue capacità. Obiettivo del giocatore è quindi proprio quello di togliersi le vesti di essere umano per porsi in quelle dell’animale, allo scopo di comprendere la sua prospettiva ed il suo sguardo.
Di conseguenza se controllerà un tasso, il giocatore diverrà la preda di un ecosistema naturale. Se controllerà la lince, invece, sarà un predatore. La stessa morte che, nei videogiochi, solitamente smette di essere spaventosa grazie ai checkpoint, in questo caso, per suggerire una maggiore verosimiglianza, sarà irreversibile. Se uno dei cuccioli della madre verrà divorato da un predatore, lo rimarrà fino al termine dell’avventura.
È chiaro che anche il videogioco, come il cinema, sia uno strumento regolamento da schemi e segni umani e che quindi si presti a dubbi e limiti per qualsiasi tipo di definizione antispecista. Quindi dobbiamo chiederci se anche il videogioco, come il cinema, non sia il mezzo più adatto per una rappresentazione antispecista? Forse il punto della questione sta proprio qua: probabilmente non esiste nessuno strumento mediatico ideale per una potenziale emancipazione animale.
Forse il cambiamento di una rappresentazione specifica, e quindi di un immaginario, deve sempre passare da un groviglio, da un incrocio di possibilità, sguardi, visioni, linguaggi e sperimentazioni, la cui totalità ha poi come risultato la messa in discussione di precedenti modelli e paradigmi, con, magari, la conseguente nascita di nuovi ibridi, mescolanze e forme di linguaggio. E questo probabilmente riguarda l’animale non umano, ma anche qualsiasi altro soggetto culturale e narrativo nei confronti del quale si desideri un cambiamento ed una rivoluzione.
Frequento l’ultimo anno di DAMS a Palermo, dopo aver concluso un percorso all’accademia di cinema Griffith, a Roma.
Studio da tempo la cultura pop e le sue, svariate, manifestazioni. Su di queste ho organizzato pure 3 seminari all’Università di Palermo.
La mia rubrica approfondirà le dinamiche e i linguaggi dell’arte popolare, con particolare attenzione a come, oggi, questi vengano percepiti dai nuovi media e le nuove generazioni.