Arrivai a Mostar, Bosnia Erzegovina, con un bimotore ad elica decollato poco più di un’ora prima dall’altra sponda dell’Adriatico. L’aereoporto si trovava in una deliziosa conca punteggiata dal verde dei Monti Balcani. Quel paesaggio ingannava, al punto che quasi non mi sembrava di essere appena atterrato in quella che era stata la più martoriata delle Repubbliche nate dalla dissoluzione della Jugoslavia.
L’architettura istituzionale del Generale Tito aveva tenuto bene fino alla sua morte, nel 1980, riunendo austroungarici e levantini, ortodossi e musulmani, balcanici e albanesi. Un capolavoro politico e diplomatico, quello di Tito, che lo aveva tenuto indenne anche dalle mire espansionistiche della URSS. Assieme con l’India, infatti, la Jugoslavia di Tito era stata il paese leader tra quelli “non allineati” durante la divisione del mondo in due blocchi.
Per una dozzina d’anni, le tensioni tra le diverse comunità etniche, dalla fine della Seconda Guerra Mondiale erano stata tenute insieme artificiosamente, avevano preso lentamente forma. Sino a quando, nel 1992, gli appetiti politici di Serbi e Croati non divennero parte di un più grande progetto volto ad affermare la supremazia etnica dei nazionalisti Cetnici ed Ustaci sugli altri territori e sulle altre genti dei Balcani. Provarono prima ad attaccare la Slovenia, ma la guerra a Lubjana e dintorni durò pochi giorni. Troppo forti le protezioni europee, soprattutto di Germania ed Austria.
Toccò dunque alla Bosnia essere teatro dell’ultimo sanguinoso conflitto europeo dello scorso secolo. Le enclave serbe e croate su quel territorio facilitarono il compito dei macellai di Zagabria e Belgrado, che arrivarono ad assediare Sarajevo per quattro anni, dal 1992 al 1996. Una guerra nel cuore pulsante d’Europa, che la comunità internazionale non sepper (o non volle) evitare.
Sarajevo, una città pacifica, colta, multietnica, costretta a subire l’assedio delle forze serbo-bosniache che la cannoneggiavano dalle deliziose alture che la circondano. Fiaccata dai cecchini appostati nei palazzi, i mirini ben puntati sui viali della città (famoso quello di ulica zmaje od bosne), Sarajevo è rimasta in balia degli eventi per 1500 giorni.
Unica via di fuga un tunnel, oggi detto della Speranza, che la collegava all’aereoporto controllato dai caschi blu dell’ONU. Nei due sensi transitavano uomini, donne, bambini, ma anche armi e munizioni.
Intanto i generali Karadzic e Mladic, agli ordini del Presidente serbo Milosevic, si rendevano responsabili di orribili stragi in tutta la Bosnia. Il martirio, oltre che di Sarajevo, di Srebrenica, Tuzla, Mostar, veniva annunciato tutti i giorni sui nostri TG all’ora di pranzo.
A 200 km in linea d’aria da Ancona, vecchi, donne e bambini venivano sgozzati, mutilati, stuprati dalla follia nazionalista. I bosgnacchi (musulmani di Bosnia) da secoli pacificamente conviventi con ortodossi, cattolici, ebrei, erano oltraggiati dai loro stessi vicini, dai loro stessi parenti. A Mostar veniva bombardato lo “Stari Most” (in italiano “il Ponte Vecchio”) simbolo della città, che stava lì dal 1566 e che divideva i quartieri cristiani da quella musulmani attraversando il fiume Narenta.
Un’opera commissionata da Solimano Il Magnifico, uno splendido ponte a singolo arco, il più grande del suo tempo, Lo Stari Most era stato dichiarato dall’Unesco patrimonio dell’Umanità. I tiri di artiglieria lo buttarono giù il 9 Novembre del 1993. Le televisioni di tutto il mondo inquadrarono in diretta lo sgretolamento di quel gioiello architettonico, ricostruito pietra su pietra uguale e identico a come era, e riaperto al suo (faticoso) attraversamento nel 2004 come simbolo di riconciliazione tra le comunità cristiane e musulmane dopo gli orrori della guerra.
Solo a Sebrenica, dalle 20.000 alle 50.000 donne furono stuprate. Si trattò di stupri etnici, affermò il Tribunale Penale Internazionale. I figli di quella “colpa”, oggi quasi trentenni, si sono riuniti in una associazione, la Zaboravljena Djeca Rata (letteralmente “Figli Dimenticati dalla Guerra”), rivendcando riconoscimento, diritti, dignità.
Non è facile. Troppo recenti quelle ferite tra le comunità. Gli accordi di Daytona del 1995 hanno posto fine alla guerra civile jugoslava, hanno sterilizzato le colpe della comunità internazionel, ma non hanno cicatrizzato tutte le ferite di questa terra martoriata.
Ma Sarajevo e Mostar oggi sono tornate ad essere belle, civili, tolleranti. La maggioranza bosgnacca musulmana convive pacificamente con le minoranze ebree e cristiane. Chador e minigonne sfilano tra le belle strade dei centri storici delle città della Bosnia e Erzegovina.
Tuttavia i segni della guerra li vedi ancora, soprattutto nella capitale. Sono i crateri provocati dai mortai serbo-croati, che a imperitura memoria i cittadini di Sarajevo hanno segnato di rosso per le strade e che chiamano le “Rose di Sarajevo”.
Sono i fori da mortaio lasciati sui bei palazzi austroungarici lungo i viali dedicati al Maresciallo Tito, sia nella capitale bosniaca che in quella della Erzegovina, Mostar.
Ma più ancora li vedi nei profondi e tristi occhi scuri degli anziani di queste due città, che lentamente provano a rinascere. È li che resta iscritto l’orrore di una guerra crudele nel cuore indifferente di una distratta Europa.
Avvocato e giornalista, coltivo un’antica passione per l’America Latina e l’Europa Orientale. Ma resto comunque convinto che non esista un paese che non valga la pena di essere visitato. E mi sono regolato di conseguenza. Siccome arriva sempre il momento in cui ti rendi conto di sapere meno di quanto pensi, mi sono rimesso a studiare e quelle quattro cose che so ho deciso di spacciarle su Deep Hinterland. Senza pretese che esse siano risolutive dei dubbi di chi legge, anche perché penso che ognuno farebbe bene a tenersi stretti tutti i suoi affanni. Alla fine, sono convinto, tornano sempre utili.