La nostra America. Di quando ascoltavamo Elvis con il mio amico Lolli

Quando a giugno ho scoperto che Bobby Solo avrebbe cantato nella piazza del mio paese mi sono entusiasmato in maniera irragionevole agli occhi dei più. Tutta la gente che conoscevo era abbastanza scettica sul fatto che un cantante di ottant’anni suonati avrebbe davvero riempito la piazza. Che poi è una piazza grande come tre campi da calcio, c’è da dire. A volerla davvero riempire ci vorrebbero cantanti di un certo tipo: Al Bano o Elettra Lamborghini ad esempio, due poli di quell’amore per il nazionalpopolare su cui le Pro Loco più danarose sanno di poter contare.

Bobby Solo, nella scala dei miei cantanti preferiti, almeno fino alla serata del concerto, poteva dirsi, parafrasando Erich Segal in “Love Story“, più o meno a metà strada tra Amedeo Minghi e Gatto Panceri. Si dice che in Svizzera, quando vai a morire, ti mettano le canzoni di Gatto Panceri per accelerare la pratica. Se stai sulle balle agli infermieri, quelle di Anonimo Italiano. Chi non ha letto “Love Story” se lo vada a recuperare, comunque. Aver visto il film non è sufficiente. Lo stesso vale con i Ponti di Madison County, il fatto che ci recitino insieme Clint e Meryl non è sufficiente. Non è roba che avrebbe dovuto leggere un duro come me lo ammetto, ma ho il cuore tenero.

Una foto recente di Roberto Satti, in arte Bobby Solo, cantante italiano attivo dal 1963. Photo credit: La Nazione.

Il mio entusiamo non era per Bobby Solo ma per un singolo pezzo che, per forza, sarebbe stato nel suo repertorio. E no,non parlo di “Una Lacrima sul Viso”  (che pure alla fine ho cantato a squarciagola). Parlo invece di un pezzo del Re, “Can’t  Help Falling in Love”, il brano musicale con cui Elvis chiudeva i suoi concerti.

Ora, io sono sicuro che se avete più o meno quarant’anni, quest’ultima cosa l’avete letta con cadenza emiliana, azzeccando la citazione giusta. I quarantenni, dicono, sono tra i migliori citazionisti in circolazione. Lo dicevano in tv, non mi ricordo chi, in una trasmissione che ora mi sfugge. Umberto Eco diceva che la vera cultura risiede nel saper ricercare la fonte dell’informazione giusta, ma la tv fa schifo in genere e possiamo anche soprassedere. Ricordo una vignetta di Altan, un papà che dice al figlio inchiodato davanti alla tv “figliolo sempre a rincoglionirti con la televisione”, e il bambino geniale “c’hai l’invidia che tu ti sei dovuto rincoglionire con la radio”.

La lessi in fila dal medico, ero bambino, quando ancora si leggeva in fila dal medico e si aveva una paura boia delle punture. All’epoca andava per la maggiore Forattini, che vendeva come un kebbabbaro dove si spaccia il fumo, ma Altan Diobono era davvero la prima classe, il royal col formaggio dei vignettisti. Chi indovina tutte le citazioni in questo pezzo vince un abbonamento annuale a Deep Hinterland cartaceo, che fidatevi prima o poi lo faremo, con tanto di shampoo monodose al mango in omaggio.

Comunque, dicevo dei quarantenni che in genere sono gente che conosce a memoria le battute di “Vacanze di Natale”, dei “Goonies”, di “Ritorno al Futuro ed anche di “Radiofreccia”. Gente quindi che chiaramente non dimentica le vicende di Ivan Benassi, detto Freccia, morto di overdose ed al cui funerale la banda di Correggio suonò “Can’t Help Falling in Love”, il pezzo (per l’appunto) con cui Elvis chiudeva i suoi concerti. C’è tanta provincia, in questa frase. Ammetto che sono andato a vedermi se è vero, che il Re la chiudeva sul serio in questa maniera. E sì, sembra di sì, anche se al suo famoso concerto di Honolulu lasciò spazio all’orchestra per un pezzo di sola musica.

Però mi immagino come è venuta a saperla il Liga (ovvero il regista di “Radiofreccia”) questa storia dell’ultima canzone. Ci penso da mesi, da anni. La verità è che in ogni paese c’è un esperto di qualcosa, l’autorità: c’è quello che va per funghi, quello che ha trombato più di Cassano e c’è anche l’esperto di musica. Il palcoscenico di questi tecnici, di cui ha detto molto meglio di me Stefano Benni, è chiaramente il bancone. Ora io me lo immagino, l’esperto di musica anni ’70 di Correggio  entrare al bar e mettere al Juke Box Cant’help falling in love per poi dire, accendendosi una sigaretta, “silenzio ragassi, questo è il pezzo con cui Elvis chiudeva i suoi concerti”.

Non è l’America, è una cosa molto più bella e che manco esiste più, o esiste in maniera diversa. È il racconto di quello che succede in America da parte di chi sta da questa parte dell’Oceano e l’America gli arriva tramite i dischi, i libri, qualche articolo, il cinematografo. E non vi sto parlando delle macchiete, di quelli che facevano gli americani, di “America’ facce Tarzan!” Vi sto parlando di una cosa molto più bella che manco saprei spiegarvi bene, ma che rappresenta la maniera in cui finiti i sogni da bambini, Babbo Natale e tutta l’altra combriccola, abbiamo cominciato a sognare i sogni dei ragazzi.

Diciamocelo chiaramente: anche quando ci siamo fatti una bella e sana robusta coscienza antimperialista, è stata dura smettere di guardare con simpatia all’America. Magari siamo finiti in qualche cinema d’essai pure a vedere l’”Arpa Birmana” sperando di rimediare un pompino da quella del Centro di Cinematografia. E abbiamo pure legittimamente manifestato con le fiaccole insieme alla gente di Amnesty la notte che poi avrebbero ucciso il povero Bernabei. Il punto però è che non sappiamo resistere al fascino dell’America, quell’idea con cui ci siamo fatti grossi vedendo nostro nonno tifare John Waine (che sì, era davvero forse un cane d’uomo).

L’America è mito, frontiera, viaggio on the road, è l’idea che le cose più del secolo scorso si sono fatte a quelle latitudini. L’America è Jazz. Quel posto che chiamiamo America, e che in realtà sono gli Stati Uniti d’America, è una terra talmente vasta e ricca di differenze che capirci qualcosa stando da questa parte dell’Oceano sarebbe davvero difficile. Infatti esiste l’America reale ed un’altra America, molto più interessante. L’idea d’America. Un po’ come quando a dodici anni immagini di fare l’amore e sei convinto che scopare sia quella roba lì che ti ronza in testa. Poi dopo capisci che non ne sapevi niente, che t’eri fatto il tuo mondo e che forse quel mondo era addirittura più bello.

Tutti noi abbiamo un amico che vive negli States, in linea di massima. Non so se vi succede, ma quando quest’amico torna a casa e ci si incontra e chiaramente qualcuno gli chiede “Insomma come si vive in America?” e quello allora inizia  a raccontare, a me viene d’istinto d’allontanarmi. Non ti voglio sentire. Non ne voglio sapere niente. Un po’ come De Andrè che si rifiutò di incontrare Brassens pensando: “E’ il mio mito, metti che poi è uno stronzo?”. Io di quell’America reale non voglio sapere niente, non mi interessa manco quello che dice Rampini, lasciatemi la mia idea, lasciatemi la mia America dalla lente della mia Montagna.

Uno scorcio della mia America, quella che non esiste. Photo credit: Canvas Art.

A scorrere i miei articoli su Deep Hinterland, ne troverete uno che parla del mio paese d’origine, il Terminillo. Io ora non mi ripeto, lo ritrovate cliccando sul link qui sopra se volete. Non so quanti di voi comunque sono cresciuti a 1600 metri sul livello del mare, ma vi assicuro che, fatto salvo il periodo in cui si riempiono le seconde case e c’è l’assalto dei turisti, ci sono dei mesi da ragazzino e da ragazzo che se non trovi un altro mondo da navigare rischi di uscirne pazzo. Jack Torrance non è uscito di senno al mare, avete presente no?

Eravamo un manipolo di ragazzini e c’era la fortuna, tra l’altro, che uno di noi aveva il papà che giù a valle gestiva la più grande videoteca di Rieti e una volta ogni quindici giorni saliva su con due bustoni di vhs. Tutte ultime uscite. In questo frangente poi si inserisce pure papà, che registrava su cassetta vergine i film tramite un sistema che collegava la telecamera al videoregistratore (anni dopo il vecchio, Dio l’abbia in gloria, sarebbe stato tra i primi a specializzarsi nelle schede clonate di Tele+). Questa combo devastante mi trasformò in breve in uno dei massimi esperti di America o, almeno, di quell’America che vedevo nei film.

Eravamo tra la fine degli anni ’80 ed i primi del ’90. Per noi da quelle parti era tutto un grattacielo in fiamme, un cyborg dalle sembianze umane in viaggio nel tempo, un elicottero da buttare giù a pistolettate, un OCP ohchepalle. Erano quei tipi muscolosi, quei “last action heroes” con la battuta sempre pronta al momento giusto, i veri eroi epici della nostra vita. Altro che la mitologia proposta nel libro di antologia con Achille, Ettore, Ulisse e il cane Argo. Rispetto al T-800 che pure alla fine fa il culo al T-1000, la cricca di Agamennone è roba da far addormentare anche Umberto Eco. Questa è la prima America  che abbiamo conosciuto, su in montagna.

La montagna, intendiamoci, tra tutte le province possibili, è un po’ più provincia delle altre. Lì la solitudine a volte ti stritola e vorresti davvero fuggire, da ragazzo. Poi, invecchiando, in genere quella dimensione la ricerchi, ti manca, la implori di tornare. Il nodo è questo: l’America se nasci in Provincia è una cosa che ti crei tu, un insieme di suggestioni che irrazionalmente amalgami, metti insieme, centrifughi, condensi.

L’America in Provincia è una sorta di città ideale dove ci metti dentro tutte le cose che t’arrivano addosso da quella parte dell’Oceano, filtrate col tuo metro. Inizi da ragazzino col cinema e poi passi per la letteratura e passi per la musica. E’ un po’ come in quella serie di videogiochi meravigliosi che rispondono al nome di Sim City. ti costruisci la tua America, coi suoi locali dove Bukowsky trova fica, i suoi treni merci su cui Sal Paradise salta su, la polvere di Fante e un Rocky Balboa che manda al tappeto Creed ricordandoci che lì tutto è possibile. E la musica, la musica chiaramente dentro questo gioco ci finisce di diritto, come colonna sonora di quella vita che forse non stai veramente vivendo.

I primi furono i The Doors. Io li ricordo gli anni in cui ascoltavamo soltanto i The Doors. Jim Morrison d’un tratto ci pareva l’unico poeta degno di questo mondo. Ora leggo Saba, Quasimodo, le Ceneri di Gramsci, ma per anni non sono andato oltre al “this is the end, my only friend” di Jimbo. A vederla oggi non una gran poesia. Il punto però è che sei in Provincia, nel buco del culo del mondo, e hai bisogno dell’America perché l’America è il mondo del tutto è possibile ed è, intendiamoci, dove tutti vorremmo andare a finire.

Così un giorno il mio migliore amico, Lolli, mi disse: “vado in America.” Partì davvero. S’era messo in testa che col suo lavoro lì davvero si potesse e, per un periodo, lo fece davvero. Ma poi tornò. Lui l’America l’ha vista, in qualche  maniera. Sfiorata un po’ meglio di me che sono andato giusto una volta in ferie a Key West a sentire quella puttanata dei gatti di Hemingway. Non me l’ha mai detto, però forse Lolli aveva capito una cosa che io ancora non capisco: che l’America non è l’America ed è tanto meglio immaginarla che viverla.

Uno dei gatti mutanti a sei dita che ancora oggi abitano nella casa di Ernest Hemingway a Key West, in Florida. Photo credit: TomoNews US.

Prima, però, io e lui eravamo passati da Radiofreccia, quel film per cui noi ora siamo qui a parlare di Elvis senza ancora mai parlare di Elvis. Fate finta che l’articolo inizi adesso Radiofreccia è l’opera prima di Ligabue dietro la macchina da presa. Ora voi considerate che, quando uscì Radiofreccia, Ligabue andava forte da far paura. Era il 1998 ed ancora non s’era sputtanato con quegli album con cui poi, per colpa o ingenuità, s’è sputtanato. Il problema del Liga, parlando di provincia, è quando poveraccio ha smesso di raccontarla. Finché è stato dentro i confini, fuori e dentro il borgo diciamo, andava veloce e preciso come una spada, come una Ferrari. Dopo di certo avrà perso il contatto, vai a capire.

Radiofreccia è, per chi è nato in Provincia e ci è cresciuto in quegli anni, una sorta di Bibbia. Lì dentro ci sono un sacco di cose, oltre le radio libere e l’eroina. Se prendi uno e gli chiedi a bruciapelo di parlarti di Radiofreccia, quello ti dirà, di certo, radio libere ed eroina. Manco per niente. Radiofreccia è un film sulla provincia. È l’Amarcord di Ligabue, che a Fellini guarda spesso. C’è il bar, la compagnia, la squadra di calcio, la noia, i problemi con le tipe.

Radiofreccia essendo (anche) un film sulle radio anni ’70 è pieno di bella musica, da David Bowie ai Lynyrd Skynyrd passando per Guccini, e poi soprattutto quel pezzo di Elvis quando portano Freccia al camposanto. Ed è lì, dentro a quel vhs consumato allo sfinimento, grazie al quale pisciavamo sopra alla noia, che Elvis è entrato nelle nostre vite e quindi nella nostra America.

Perché di Elvis, noi ragazzi terminillesi dell’82, ce n’era fregato fino a quel momento davvero niente. Però succede che a un certo punto Elvis, anzi una canzone di Elvis, prende senso, corpo nelle nostre vite e finisce per raccontare un sacco d’altra roba oltre che il funerale di Ivan Benassi detto Freccia.

C’è “Can’t Help Falling in Love” quando, nel 2001, due nostri amici finiscono di vivere in una scarpata. C’è “Can’t Help Falling in Love” ogni volta che un amore gira male. C’è “Can’t Help Falling in Love” le sere in macchina a lesinare le marlboro. Quella canzone che un ragazzo della Provincia americana, uno nato in un altro buco del culo del mondo chiamato Tupelo, ha reso immortale e divenuta giorno dopo giorno roba nostra.

Quando arriva Bobby Solo sul palco, 26 anni dopo, e mi si avvicina un tipo e mi chiede “ti piace?”, io gli rispondo che “sto aspettando Can’t Help Falling in Love, il pezzo con cui Elvis chiudeva i suoi concerti”. Un po’ come il tecnico da bar di Correggio negli anni ’70. In realtà, a casa, non ho mezzo disco di Elvis. Elvis è entrato di diritto nella mia America con tre minuti e rotti di canzone, è un tassello del castello, un mattoncino della mia America che nel tempo ho riempito un po’  a casaccio. Non mi serve altro di lui, mi è sufficiente questo Elvis filtrato e le immagini dell’ultimo concerto quando col cuore che lo sta lasciando, grasso e senza forse, onora fino all’ultimo l’ideale di The Show Must Go On.

Non sappiamo niente dell’America, raccontiamo a modo nostro una cosa che ci siamo fatti raccontare. Eppure quando Bobby Solo attacca il pezzo, e lo attacca strabene, mi viene da piangere. Perché dentro ci sono un sacco di cose. Ma soprattutto c’è quel viaggio che non ho mai fatto, quell’andare senza tornare nei luoghi della frontiera, c’è saltare su per un coast to coast. E non è un sogno, perché io in America ci sono andato tutti i giorni della mia vita, ho tifato per Toro Scatenato e per quel tipo che pur di entrare in borsa finì con suo figlio a vivere negli ostelli dei poveri.

La necessità dell’America la disse pure Marco Paolini, molto meglio di me, quando si scusò per il silenzio degli intellettuali negli anni ’60 e ’70 sul Disastro del Vajont, ché c’era il Vietnam su cui discutere. All’America guardiamo sempre, pure se non ne capiamo niente. L’America non esiste, è un telefono senza fili cui abbiamo giocato con piacere, per non morire di noia. Quindi se volete sapere davvero qualcosa di Elvis, compratevi una  bella biografia, poi stampate questo articolo e fateci pisciare sopra il gatto. Quello di Hemingway o il vostro, fa lo stesso. Oppure mettete su un pezzo che per voi significa qualcosa e vedete cosa ne esce fuori. Se non ce l’avete, è perché non avete visto Radiofreccia.

Lascia un commento