“Rocky”: zapping post-prandiale, epica popolare ed il riscatto delle periferie

Pranzo di Ferragosto, zapping post-prandiale ed incappi ancora una volta in Rocky 1 o, per meglio dire, il primo “Rocky”, quello del 1976. Chiaramente posi il telecomando e ti abbandoni all’ennesima visione, forse la cinquantesima della tua vita.

Vi è un Olimpo Ristretto di Capolavori della Settima Arte che potresti vedere, avendo tempo a disposizione, anche una volta il giorno: i due “Fantozzi” di Salce,la trilogia di “Ritorno al Futuro”, “Hook Capitan Uncino”, “Nel nome del Padre” e, per l’appunto, “Rocky”.

Da bambino vuoi vedere i pugni. Forse è per questo che preferivi il più testosteronico (e propagandistico) film della saga, il quarto capitolo con Ivan Drago.

Da grande cogli invece il sottotesto e non ti vergogni a dire che forse “Rocky” è tra le pellicole più importanti degli anni ’70. Sicuramente quella che più ha lavorato l’immaginario popolare. Forse, anzi, è addirittura l’ultimo vero romanzo popolare, dentro quel grande solco che comprende Omero, forse Manzoni, sicuramente Dumas (padre).

Mio figlio che si vede “Rocky II” proprio mentre io sto scrivendo questo articolo sul primo “Rocky”. Photo credit: Maurizio Perelli

Il primo “Rocky” è oggettivamente il migliore della saga per un motivo chiaro ai più. Come quel capolavoro a esso successivo che è “Million Dollar Baby“, “Rocky” non è assolutamente un film sul pugilato. Il pugilato c’è dentro perché era ed è, a determinate latitudini, uno dei più veloci strumenti di riscatto sociale.

Un adagio popolare recita che per vincere serve la fame. Non a caso, recentemente, Tyson si è espresso con scetticismo sull’idea di vedere i suoi figli, cresciuti nella bambagia, sul ring. E forse Rocky è un film venuto così bene perché, è risaputo, Stallone lo ha scritto quando era alla fame. Quando la vita stessa si fonde con l’arte, insomma.

Una scena tratta da “Rocky” (1976), scritto da Sylvester Stallone per la regia di John Avildsen. Photo credit: United Artists.

“Rocky” è un film d’atmosfera, innanzitutto. La potenza dirompente di certe immagini l’abbiamo compresa appieno molti anni dopo, quando nel sesto film della saga, è proprio il pugile italo-americano che, ormai vedovo e ormai incamminato verso la vecchiaia, si abbandona ai ricordi di quel quartiere di Philadephia che ormai non esiste più. Il Quartiere dove portò per la prima volta Adriana a pattinare pagando dieci biglietti per dieci minuti.

In “Rocky” si entra dentro casa dei fratelli Pennino. Capisci la sofferenza di Paulie che, incendiata dal bourbon, diviene ferocia disperata. Paulie è tutto ciò che non vorremmo mai essere. E’ la faccia sbagliata di Rocky, quello che lo Stallone Italiano sarebbe probabilmente divenuto senza l’incontro casuale con Creed, continuando a fare lo scagnozzo sfigato per il boss di zona.

Come e più di “Rocky 5”, “Rocky” è un affresco puntuale sulla vita della periferia più malfamata di Philaldephia e sulle scarse possibilità di ottenere un riscatto sociale. Se non attraverso il Mito della Grande Opportunità che, negli Stati Uniti, la cultura pop ci ha abituati ad immaginarla come disponibile per tutti almeno una volta nella vita.

La Grande Opportunità di Rocky si chiama Apollo Creed, un pugile che almeno nei primi due episodi pare disegnato per essere disprezzato dai ceti meno abbienti. Una specie di Foreman a Kinshasa, un nero WASP che poi troverà redenzione per le scelte di sceneggiatura a partire dal terzo film della saga. Fino ad immolarsi nel quarto film così da dare a Rocky la carica giusta per cambiare il mondo ed aprire la Grande Unione Sovietica all’Occidente massacrando Ivan Drago.

In “Rocky” il riscatto è collettivo. Riscatto del protagonista ma anche di Adriana, che appoggiandosi all’eroe trova una dimensione umana (e boghese) rispetto a quella atroce della prima parte della pellicola, quando si divide tra il negozio di animali e la vita infernale col fratello. Riscatto di Mickey, costretto a vivere (fino all’opportunità  di allenare il suo pugile per il combattimento con Creed) di malinconie, rimpianti e ricordi.

Riscatto della periferia, che quando Creed va al tappeto gioisce al bar in quella che è una delle scene iconiche della pellicola e che anticipa un leitmotiv dei film successivi: l’amore assoluto della gente di Philadelphia per Balboa (un remake ambientato nel 2024 forse prevederebbe anche un manipolo di hater, però).

L’impatto del film è ancora oggi fortissimo nell’immaginario popolare. La periferia di Philaldephia è un po’ ogni periferia, ogni provincia, ogni buco di culo del mondo da cui pare impossibile fuggire e che macina e trita vite che si esauriscono al balcone di un bar.

Quando gestivo uno di quei bar, in TV davano le maratone Rocky. Non a caso un gruppetto di fedelissimi si dava appuntamento in sala TV proprio nel mio bar, manco fossero prime visioni. Senza vergogna, tifavamo.

Forse, la grande magia di Rocky, la chiave narrativa perfetta, è nell’idea che per farcela davvero non si deve per forza vincere ma si deve resistere agli urti della vita. Ha anticipato, e di molto, tutta una letteratura anche piuttosto stucchevole sulla resilienza, oltre ad offrire spunti su spunti a quei cazzo di mental coach che oggi nascono come funghi da ogni dove.

Quei quindici round sono le prove che ognuno affronta e in definitiva quello che conta, ci insegna Rocky, è rimanere in piedi per non essere solamente un bullo di periferia. Forse “Rocky” ci piace così tanto perché è un eroe normale, anzi uno sfigato.

Uno sfigato che però se la gioca. I suoi pugni sono il riscatto di ogni periferia, ma soprattutto ci danno il coraggio per attendere un Creed che dia ad ognuno di noi l’opportunità di uscire dalla sua Philadelphia disperata.

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