“Il viaggio impossibile è quello che non faremo mai più, quello che avrebbe potuto farci scoprire paesaggi nuovi e altri uomini, che avrebbe potuto aprirci lo spazio degli incontri” (Marc Augé)
“Il Terminillo è molto conosciuto per la stazione sciistica, frequentata soprattutto dagli abitanti della Capitale”
(Anonimo, da Wikipedia)
Il problema è innanzitutto, anzi esclusivamente, semantico. Wikipedia, che contiene tutte le informazioni sullo scibile a portata di mano (postmoderna Treccani che soltanto un matto potrebbe imparare a memoria, dopo maiale, Majakowskji e malfatto) non ha dubbi ma io sono ambizioso e suggerirò le modifiche alla pagina. Il fatto che Terminillo, il luogo ove sono cresciuto, Appenino Laziale in Provincia di Rieti, un centro abitato sviluppato tra i 1500 e i 1600 metri, circondato da una serie di cime che vanno dai 1868 ai 2217 (quest’ultima quota è relativa alla Vetta del Terminillo inteso come massiccio montuoso, da cui il suddetto centro abitato ha preso per comodità il nome, un po’ come se Gressoney si chiamasse Rosa per intenderci ) sia definito semplicemente e in maniera riduttiva una stazione sciistica è una cosa che non mi riesce di sopportare. La stazione è luogo di transito per antonomasia. Se parlassimo semplicemente di una stazione sciistica, staremmo parlando di un “non luogo” dove la gente discende dalle macchine, scarica gli sci dal tettuccio e si incammina verso il primo impianto di risalita utile per trascorrere una giornata a disegnare curve, più o meno sapienti, sulla neve. Ne esistono, di luoghi di questo genere. Luoghi ove la permanenza umana è limitata al momento della ricreazione, dello svago, dello sport. Non dissimili se vogliamo dai Parchi di Divertimento, dalle Navi da Crociera o da quei capannoni a Dubai ove pure si può sciare, nel mezzo del deserto. Questo scritto è un atto di rivendicazione identitaria. Terminillo è il luogo delle lune e dei falò, anche. E soprattutto. Quelli belli dell’adolescenza con gli amici a suonare la chitarra.
Estate 2019, agosto. È un mondo ancora senza pandemia. Nei paesi poveri si muore come le mosche di altre malattie ma l’Occidente tira dritto ché finché il problema non ti riguarda non è un problema. Le persone sono libere di accalcarsi e specialmente in ferie lo fanno con particolare godimento. La massima ambizione del romano è quella di ricreare ovunque il Raccordo Anulare e il caos dei Centri Commerciali sorti intorno alla Bufalotta. Sono circondato da romani de Roma e da Romani della conurbazione, quella landa infinita che inizia a Monterotondo e che finisce a Morlupo. Una volta Roma annetteva la Grecia e l’Egitto, oggi Marcellina e Zagarolo sgomitano per sentirsi parte di quel che resta dell’Impero: trecento radio sportive che distraggono la plebe dai cinghiali e dai gabbiani che da Ostia arrivano a pescare ratti sul Lungotevere Vaticano, mentre i Patrizi s’arricchiscono con le Partecipate.
Mi sembra di non aver mai visto tanta gente, quassù. Le macchine sono parcheggiate in ogni dove e chi è arrivato più tardi delle dieci e mezza forse non troverà mai la maniera di scendere a fare due passi, costretto fino a notte a girare in tondo come i prigionieri impazziti in Midnight Express di Alan Parker. Ad agosto da queste parti non si scia, chiaramente. Non abbiamo sull’Appennino un ghiacciaio a disposizione. E anche quelli del Nord se la passano malamente. Primo 1 a 0 nella battaglia contro Wikipedia. Chiaramente Terminillo non è solamente una stazione sciistica ma un centro turistico, estivo ed invernale. Certe approssimazioni non dovrebbero essere ammesse, in un’enciclopedia.
Questo è il mio paese, anche se definirlo paese forse non è corretto, suggeriscono gli autori dell’Enciclopedia Online. Marc Augè, che ha aperto questa riflessione, avrebbe da che ragionarci: è un Luogo o è un non-luogo, il Terminillo? Oggi sono qui per tentare di avallare la prima ipotesi. Dal punto di vista metodologico l’approccio non è corretto, me ne rendo conto. Dovrei essere qui scevro da ogni pregiudizio, ma a non avere pregiudizi sul posto dove hai vissuto più di 2\3 della tua esistenza è dura. Fanno, a conti fatti, ventotto anni di vita. Quelli dell’infanzia, dell’adolescenza e della prima maturità, tra l’altro. Questa terra ha influenzato il mio essere, la mia personalità (è un’etnologia o una seduta di psicanalisi?). È un’idea che mi è balenata in testa tempo fa, quella di mettermi a scrivere sul Terminillo. Anche se sono andato via, anche se sto tentando di costruirmi una vita in un altro luogo (quello sì sicuramente Luogo, Cittaducale, provincia autentica, santi patroni da portare in processione, soprannomi tramandati di padre in figlio, una pasta tipica da stendere sulla tavola secondo un procedimento antico, due compendi storici. Ne parleremo, sicuramente) e tutto sommato ci sto pure riuscendo e sono anche stranamente felice (il mio livello di felicità è stando a chi mi conosce la malinconia di Victor Hugo), temo (o spero?) che non mi libererò mai del tutto di questa terra a milleseicento sul livello del mare, di queste montagne di Prateria e Roccia a dominare la Religione del Cemento.
Da Rieti al Terminillo sono una ventina di chilometri, di cui gli ultimi quattordici in costante e impegnativa salita visto che si tratta di passare dai 400 metri slm ai 1500 quasi 1600, che è la quota entro cui si sviluppa il centro abitato, composto in larga misura da mastodontici residence di cemento armato (con qua e là della rifiniture in legno e pietra a donare un po’ di autenticità montana), qualche albergo tirato su con gli stessi criteri e in ultima parte delle graziose villette in pietra e legno che rappresentano il nucleo originario dell’abitato. Il Cemento è Religione ma siamo con Le Corbusier: “i materiali dell’Urbanistica sono il sole, gli alberi, il cielo, l’acciaio, il cemento, in questo ordine gerarchico e indissolubile”. Tutto sommato, la Religione del Cemento s’è integrata bene col Mondo Naturale, da queste parti. Se questo fosse un libro di geografia di prima media, diremmo che l’attività economica principale del Terminillo è il turismo. Più che principale, diremmo che è l’unica attività economica.
Qui non si vive che di turismo; questa è l’origine dell’equivoco con i ragazzi di Wiki. Fino agli anni’30 uomini e donne salivano dal fondovalle a falciare il fieno e a pascolare le pecore, ma il fascismo d’un tratto riscrisse per intero il senso del territorio decidendo tout court che se Roma, capitale dell’Impero, si stava munendo in quel periodo di una stazione balneare estiva (Lido di Ostia) era giusto e sacrosanto munirla anche di una stazione per gli sport invernali e, omissione di Wiki, per far respirare un po’ di refrigerio nella bella stagione. Siccome all’epoca si discuteva poco e niente, Mussolini senza starci a ragionare troppo ordinò di collegare Rieti (già collegata a Roma dai tempi antichi della Via Salaria) al Terminillo con una strada e su in quota al contempo di costruire una Funivia così che le genti laziali potessero prendere confidenza con la pratica dello sci. Per tirare su la Funivia venne interpellato tale Conte Manzolini, che non era affatto un costruttore di impianti sciistici ma uno che aveva una fabbrica di bombe a mano. Dicerie mormorano che in cambio della costruzione dell’impianto funiviario, ambienti fascisti promisero al Conte un bel po’ di commesse belliche per la prima guerra utile. La Funivia venne inaugurata in pompa magna nel Gennaio del 1938, alla presenza dell’Istituto Luce chiaramente, che in quei periodi pompava perfino l’inaugurazione di un chiosco di grattachecca, figuriamoci la prima funivia dell’Appennino e tra le prime in Italia (trent’anni prima Bolzano aveva aperto le danze con la mitica Kolherer Bahn).
Intanto erano stati già tirati su i primi alberghi, ad opera di lungimiranti avventurieri che avevano predetto la nascita dell’Eldorado, da queste parti. Sarebbe interessante interpellare uno studioso della Seconda Guerra Mondiale per scoprire se poi al Conte, dal ’40 in poi, quelli del Ministero della Guerra comprarono bombe a mano sufficienti per ripagarlo dell’investimento della Funivia del Terminillo. Questa è, molto brevemente, la Storia della Fondazione. Furono quei primi pionieri, a colonizzare questa terra e di fatto a viverla per primi entro un complesso di relazioni, sviluppando una rete sociale che esula dalle ambizioni esclusive del Terminillo inteso come fine (stazione sciistica) e creando quel Terminillo che è Paese, Luogo, Antropologia.
Ed eccomi allora, Agosto 2019, antropologo non praticante ormai da più dodici anni fuori dal giro, con un registratore in tasca pronto a ricominciare da capo. Etnologo a casa mia, ma che casa mia più non è. Quando vai via dal Terminillo, è come se smettessi di essere terminillese. Terminillo non è Rimini, dove Fellini scese alla stazione dopo anni e anni trascorsi a Roma a fare il cinema e un suo conoscente di passaggio gli disse “Federico che fai, parti?”. Come se non se ne fosse mai andato, ché nella Provincia così succede, i giorni sono uguali l’uno all’altro e vent’anni di vita sembrano una settimana (forse la Provincia è metafora della vita).
Ho un appunto in merito scarabocchiato. Rimini esisteva da sempre, non è la Riviera Romagnola ad aver tirato su Rimini, ma i romani duecento e rotti anni prima di Cristo. Elemento centrale della Pentapoli marittima bizantina, Libero Comune nel XII secolo, Città Malatestiana, Capitale del Dipartimento del Rubicone sotto Napoleone, rasa al suolo nell’80% del suo territorio durante la seconda guerra mondiale e poi con tenacia romagnola ricostruita, Rimini esisterebbe ancora oggi senza quegli imprenditori lungimiranti che grazie alle cambiali e al Credito Romagnolo la resero a partire dagli anni ’50 una delle capitali balneari europee, luogo di follie, divertimento, bagni, amori lunghi un’estate. Sarebbe una Rimini diversa, ma sarebbe comunque una Rimini. Terminillo non è Rimini, prima del turismo Terminillo era montagna, pascolo, fieno e giusto una citazione di sfuggita di Virgilio nell’Eneide (tetricae horrentes rupes). Quassù, insomma, non c’era un paese ma solo prati, boschi, lupi, cinghiali e spermatofite monocotiledoni bulbose allo sciogliersi della neve.
I primi albergatori, i pionieri di questa terra, somigliano parecchio ai colonizzatori del vecchio West. Tra i 1500 metri e i 1600 metri, a pochi chilometri da Rieti, in quegli anni ’30 sta per essere fondato un centro urbano e chi lo capisce subito, non limitandosi a mettersi in fila per essere assunto nel cantiere della strada o della funivia, ha un’intuizione che gli stravolgerà completamente l’esistenza. Ed eccola adesso, agosto 2019, l’Intuizione. Caos, macchine in terza fila, gente che strombazza, una fila alla tavola calda dei miei amici Bruno e Stefania che inizia a Piazza Tacito, Terni. Tutto ottimo, per l’Economia di questa Terra.
Guardo mia moglie, manca ancora mezz’ora all’appuntamento. “Andiamo un attimo in Chiesa”. Acconsente contenta. Lei è cattolica, apostolica, romana. Io cerco soltanto un po’ di ristoro da tutto questo insopportabile casino. Da tutta questa moltitudine. Da queste migliaia di persone che si sono oggi tutte riversate quassù. Una volta la mia famiglia aveva un ristorante, qui. Tutta questa gente non mi sarebbe dispiaciuta per niente. Forse è per questo, per questo mio sentimento odierno di malcelato fastidio, che non sono e non sarò mai più un terminillese del presente ma l’ennesimo personaggio nell’album dei ricordi. Un personaggio minore, tra l’altro. Uno di quelli in fondo, nella foto di gruppo dell’Overlook Hotel, che soltanto i cultori intuiscono.
Anche in Chiesa c’è gente, ma non come alla tavola calda ringraziando Dio. La fame dello stomaco è da soddisfare sempre prima di quella dell’anima. Del resto, le vigilie religiose sono ormai feste dell’abbondanza, figuriamoci se si rinuncia ad una fettuccina coi porcini in vacanza. Non ho mai amato questa Chiesa, nonostante sia oggettivamente un capolavoro d’architettura moderna. Slanciato verso il Cielo, il Templum Pacis, dedicato a San Francesco ed edificato con una prima pietra proveniente direttamente dalla Tomba del Santo Poverello, mi ha sempre lasciato spaesato, durante le mie frequenti visite fanciullesche in occasione del catechismo per la prima comunione. La vita quassù non si divide in quattro stagioni ma in due stagioni: la Stagione (Turistica, invernale ed estiva) e la Stagione Morta. La Stagione Morta è rappresentata da quei mesi senza turisti, quando questa terra non è funzionale al mercato. Grosso modo la Stagione Morta inizia dopo la Pasqua e si protrae fino a giugno, per poi riprendere vita da metà Settembre fino all’8 Dicembre, festa della Madonna e se il tempo o le temperature necessarie all’innevamento artificiale delle piste da sci lo permettono, festa soprattutto per l’inizio della Stagione Turistica. La scuola elementare qualche anno fa ha chiuso i battenti e da allora la Stagione Morta è un pochino più morta, perché non si trovano nuove famiglie con bimbi piccole disposte a venire quassù a costruirsi una vita. Chi era custode di un residence, ora ne custodisce dieci a fronte di questo mancato ricambio quando il vecchio portiere va in pensione.
Nella Stagione Morta le relazioni tra i residenti si fanno più strette. La socialità, senza i turisti e i benefici che essi portano all’economia locale si rigenera in un complesso di relazioni umane che si sviluppano tra le portiere dei palazzi libere dalle incombenze coi condòmini- in panchina sotto il tiepido sole d’ottobre-, in una passeggiata in un bosco a raccogliere i seccaroli per accendere il fuoco o qualche fascio di trombetta dei morti (il tartufo dei poveri), in una chiacchiera lunga un pomeriggio con la Sora Iride al negozio di alimentari, dopo aver comprato un etto di mortadella tagliata fina. È in quei momenti di annuale e ciclica recessione economica (che si vorrebbe affrontare, non senza saggezza chiaramente, con una destagionalizzazione dell’offerta), quando le finestre dei 2000 appartamenti nati sotto l’Insegna della Religione del Cemento rimangono chiusi, che il Terminillese si rigenera e si ritrova non dissimile dagli abitanti della Pavana Gucciniana, della Correggio di Ligabue, della gente Santa Maria di Licodia e da tutti gli altri trentamila esempi che potremmo portare. Di quella Provincia Italiana che è, più della Metropoli, socialità e comunità.
Il fatto che manchi un Camposanto, un posto dove far riposare i morti di questa terra, è indicativo. Un paese che non può essere Spoon River può essere davvero un paese? Un paese senza scuola può essere davvero un paese? Per quanto quando cammino in questa terra riecheggi dentro di me il più celebre Pavese, sono certo che tali impedimenti rendano più ardua la mia impresa. Da qualche tempo vado rompendo le scatole agli anziani, richiedendo interviste che gentilmente mi vengono puntualmente accordate (me li immagino, sorridere e pensare “vedemo un po’ che cazzo vole Perelli”). Ho l’idea che quello che vado facendo sia necessario per risolvere un problema che è essenzialmente una mia esigenza forse- nell’impossibilità di riaprire la scuola elementare o di inventarmi un camposanto dove far riposare insieme tutti i terminillesi che per una vita hanno lavorato quassù e che ora riposano nei mille cimiteri giù a valle, tra compagni morti sconosciuti- di scrivere una grande Storia della Comunità e tramite essa, tramite il Ricordo e la Memoria, cercare di dire che se abbiamo avuto (e se ancora vi sono delle relazioni, nonostante la mia assenza non mi permetta di conoscerne le caratteristiche), dei rapporti umani, delle emozioni condivise entro questo spazio, allora davvero forse questo è un luogo storico, reale, non è un luogo di transito dove la memoria delle persone sbiadisce ed comunque irrilevante e dove l’unica storia possibile è la Storia trita e ritrita che parte dall’ambizione di Duce di dare una stazione sciistica alla Capitale dell’Impero, del suo incarico al Podestà di compiere la missione, di Manzolini e della povera Miss Italia Marcella Mariani perita sulle nostre montagne in un incidente aereo, insieme ad altri 28 nel febbraio del 1955.
Entro questa macrostoria, trattata abilmente già da Ferriani (Franco) nel suo Lo Sviluppo Turistico ed Urbanistico del Terminillo dal 1934 ad Oggi e dall’amico Cipolloni in La Montagna di Roma,non può che esserci anche una storia di uomini e donne comuni che quassù hanno speso savoir faire (nell’accezione più antropologica del tempo, saper fare inteso come saper lavorare) ma che al contempo hanno reso questa terra una terra culturale, un mondo vivo di relazioni,un mondo che ha necessità di munirsi di un manuale di memoria condivisa.
Per questo vado parlando con Peppe Mattioni, con Gigetto Faraglia, con il mio amico Felice Rossi del Bar-Albergo il Cavallino Bianco (che quando noialtri eravamo poco più che ragazzini ci sopportava pazientemente pomeriggi interi a bere lentamente in quattro una bottiglia di Peroni, ché non avevamo altrove dove non andare, in quelle eterne stagioni morte, e che Dio lo abbia in gloria per questo e per la sua infinità bontà) con Cinthia Picchiottini, con Roberto Rossi (che da bambino viveva con suo padre, operaio, alla Stazione Superiore della Funivia e dovette imparare a sciare per poter andare a scuola), per questo chiedo le loro ormai anziane memorie,per raccordarle alle mie e a quelle della mia generazione e poter un giorno riportare su carta questa Antologia di Spoon River Appenninica (e sarebbe bello avere le capacità di comporre un Poema invece che un ennesimo Saggio).
Questa Chiesa venne tanto voluta da Padre Riziero Lanfaloni e fu tirata su con pochi soldi pubblici e del vaticano ma più che altro con la capacità di questo prete mitico, un personaggio tra Don Camillo e il sigaro di Clint Eastwood-che quassù è Totem, memoria intoccabile di un tempo mitico migliore (il passato è migliore per antonomasia, ma spesso questa è memoria distorta)- di sedurre la Roma bene rimediando donazioni tra una sciata con una nobildonna e una partita di poker con suo marito. Sono qui per ordinare le idee, ché tra poco ho forse l’intervista più importante di tutte. Mostro a mia moglie il grande mosaico absidale, più di 350 mq, e le dico, come mi ha insegnato Padre Mariano Pappalardo, che rappresenta la creazione come una nebulosa in espansione: un connubio tra fede e scienza che sarebbe stato perfetto come sfondo ideale nella celebre chiacchierata tra Margherita Hack e Monsignor Giuseppe Zenti. Prima di questo Tempio vi era giusto la piccola Chiesa della Madonna della Vittoria (vi si sposò la prima delle molte volte la Lollobrigida, nota di macrostoria di costume), talmente minuscola da non poter contenere la comunità di pionieri, tanto che le messe si dicevano in estate nello spazio intorno al Crocifisso Ligneo di Villa Talenti e in Inverno nei locali dell’Inferiore della Funivia. Checché se ne dica, anche per un ateo impenitente, a queste latitudini una Chiesa è sempre un buon passo per fondare un Paese. Così come lo è una Scuola Elementare. O un bar, che fa sempre Provincia. Come quello del mio amico Bruno e di sua sorella Stefania,che ora continuano a servire pasti alla moltitudine giunta quassù ma che a stagione morta non serrano la serranda, ospitando i pochi residenti resistenti per un bicchiere di vino e una partita a carte. Come si fa, da sempre in Provincia.
È ora di andare. L’intervista più importante mi aspetta. Ho la fortuna di conoscere il primo bambino di questo strano paese. Un bambino di novant’anni che mi sta aspettando. Mia moglie uscendo dalla Chiesa mi dice che mi aspetterà alla Fiera dell’Antiquariato, una simpatica baracconata messa su per intrattenere i turisti e dove si possono trovare cose interessati a due lire (ci comprai ad un euro un’autentica edizione Urania della Guida Galattica per Autostoppisti). È ora di andare da Gino, per me.
Elena mi aspetta fuori dal piccolo appartamento del Residence Stella Alpina dove suo nonno trascorre i giorni estivi. La Stella Alpina è stata uno dei primi alberghi quassù, tirato su da Severino Rossi e da Amelia Luciani. Nell’intera mia infanzia e adolescenza lo ricordo chiuso e via via in stato sempre più pessimo per via dell’usura del tempo e delle stagioni. Nel retro, nascosto nella faggeta, c’era un campo da tennis, anch’esso chiaramente abbandonato- con l’erba a ciuffi a riprendersi il terreno arancione- il cui accesso era ambitissimo da noi bambini (vi entravamo saltando un alto muretto in pietra e arrampicandoci sullo stesso alla fine dei nostri giochi, in quei pomeriggi primaverili di giochi infiniti). C’è stato un periodo in cui al Terminillo le strutture abbandonate erano parecchie,poi fortuna le bolle immobiliari e vuoi anche una certa propensione delle Amministrazioni giù a valle nel permettere la conversione d’uso da struttura alberghiera a struttura residenziale, un pochino questo posto si è rifatto fortunatamente il lifting (alcune teorie sostengono, non a torto, che questa conversione ha tremendamente svilito la vocazione turistica originaria favorendo un turismo residenziale economicamente meno interessante).
Sempre da bambini le strutture abbandonate erano da noi esplorate all’interno in lungo e in largo, con torce elettriche comprate per l’occasione e lo spirito avventuriero che pareva preso in prestito direttamente dalla Banda dei Perdenti nella trasposizione televisiva del romanzo di King con protagonista Tim Curry nella parte del Pagliaccio. Vivere l’infanzia al Terminillo, e viverci nell’infanzia la Stagione Morta, è stata garanzia di indimenticabili avventure. Immaginate una combriccola di bambini (vi prego, riaprite la Scuola Elementare) tipo i Goonies, tutti i bambini del paese dai 6 ai 10 anni, in tutto poco più di dieci creature (la nostra scuola era divisa in due pluriclassi, per capirci), avere a disposizione per i loro giochi e le loro fantasie un paese praticamente deserto, con gli adulti a lasciarci liberi sicuri che nessuno zingaro di leggende metropolitane cittadine sarebbe arrivato lassù a farci del male.
Tra tutte le strutture abbandonate,la più inaccessibile (se non per il campo da tennis, poco sorvegliato perché di fatto lì non avremmo potuto far più danni di quelli degli agenti atmosferici) era proprio la Stella Alpina che, nonostante il lento ma inesorabile cadere a pezzi della facciata, era custodita gelosamente nei suoi spazi interni da una coppia di anziani appositamente incaricata e che ci teneva alla larga sbucando all’improvviso, spesso con una scopa in mano brandita a mo’ di spada, ogni qualvolta si andava a tentare l’ingresso da qualche finestra. Gino Maurizi e sua moglie Giuseppina detta Peppinella sono stati per noi ragazzini degli anni’80 gli antagonisti perfetti, i nemici dell’avventura irresistibile. Ammetto a distanza di trent’anni che annientarono ogni nostro tentativo, anche quelli più elaborati, quelli studiati a tavolino come dovessimo progettare di entrare a Fort Knox. Credo sia giusto, per la fedeltà con cui ha servito la proprietà, che Ginetto Maurizi oggi abbia la possibilità di trascorrere le sue estati in uno degli appartamenti più prestigiosi ricavati dalla riconversione dello stabile. Dotato di ingresso indipendente, la casa di Gino e della sua discendenza ha un piccolo spazio esterno, una verandina, cui si accede passando da un cancelletto.
Rispetto agli appartamenti interni, questo è certamente più piacevole da vivere, con la porta di ingresso che s’affaccia direttamente sulla faggeta di fronte all’ex forno di Adone Salvatore e non su un anonimo corridoio cieco. Abbraccio Elena, cui mi lega un’antica amicizia e ha giusto quattro anni meno di me e che ha organizzato questo incontro ansiosa di far combaciare la voglia del nonno di raccontare la sua vita quassù con la mia urgenza di farne letteratura. Non è la mia prima intervista di questo progetto, ma è certamente la più importante vista l’età anagrafica di Ginetto e visti tutti gli anni che egli ha passato quassù. Se questo posto ha ancora una memoria storica assoluta, dalla fondazione ad oggi, quella memoria è Gino. Non arrivi a novant’anni, senza una storia incredibile da raccontare.
“Sta vedendo il motomondiale”, mi dice Elena facendomi entrare. Gino è sul divano insieme al compagno di Elena, mentre sua figlia Antonella sta preparando il caffè e mi saluta con un sorriso che è segno distintivo di questa famiglia. Il marito di Antonella, Massimiliano, è mancato da poco. Ragioniere della Società Funivie, era per me un autentico amico. Forse intervistare degli sconosciuti Masai sarebbe più semplice, penso. Le emozioni in gioco sono tante, d’improvviso. Penso alla lista di domande che ho in tasca e diamine decido di non tirarla fuori. Accendo il registratore. Lo faccio vedere a Gino per correttezza e poi lo poggio sul tavolino.
Lui mi sorride e io penso che l’unica maniera, quella più giusta per confrontarmi con questa etnografia che è un viaggio anche nella mia vita, in tutto quello che ho già raccontato e in molto altro, non può che essere che quello di una chiacchierata con un vecchio nonno. Forse soltanto così riuscirò a farlo aprire alle confidenze, anche perché per lui sarò sempre uno di quei ragazzini che tentava d’entrare qui dentro quando tutto era abbandonato e non di certo uno studioso di scienze sociali, tra l’altro fuori dal giro. Sono ancora un bambino curioso, lo ammetto. E mentre Dovizioso vince allo Spielberg e i primi minuti di registrazione se ne vanno con noi che commentiamo la gara, cerco di fare mente locale e di trovare una chiave per entrare dentro l’annunciata reticenza iniziale – una facciata più che altro, se ne muore, di raccontare questa storia- di Gino. Si tratta di entrare in empatia, prima di tutto.
“È pieno di gente oggi, Gi’”, dico, a rompere il ghiaccio.
“Eh già…è normale, c’è il sole, giù fa un callu (caldo), la gente ecco refiata (qui prende il fresco). È sempre stato così. Ora dura giusto agosto, ma prima arrivavano a maggio e se ne andavano a fine settembre. Gli uomini mandavano le mogli, coi figli e le governanti, nelle ville. Non era come oggi, venivano i romani coi soldi. Gli altri salivano coi torpedoni, un giorno e via”
“Ti ricordi tutto eh?!”
“Tutto…io ho visto tutto, da quando avevo sei anni che sto qua”
La maggior parte dell’anno Gino vive giù a valle, coccolato dalla famiglia specie dopo la morte della sua amata Giuseppina. Eppure non se n’è mai andato, le parentesi a valle sono per l’appunto parentesi, ma questa Terra è la sua vita, gli è impossibile immaginarsi d’altrove. Qui è casa, giù è vacanza. A giudicare dagli anni trascorsi sul Monte, dargli torto è impossibile. Dovrebbe rinascere e rivivere da capo, per sentirsi un residente della pianura. È la sua lingua, ad indicare questa appartenenza. A differenza degli anziani della pianura, Gino non parla in dialetto, se non per qualche parola messa qua e là nel discorso.
Un centro abitato giovane ha un linguaggio funzionale alle nuove esigenze, mi viene da pensare. Nell’italiano trovarono punto di incontro i pionieri e le genti venute da ogni altrove. Ed ecco che i pionieri s’affacciano alla mente, nelle foto in bianco e nero che mi è stato possibile vedere durante le altre interviste e dove ho rivisto giovani persone che ho conosciuto anziane e dove ho rivisto vive persone già andate all’altro mondo quando ero un ragazzino. Ed ecco così che nell’Italiano parlato trovarono la possibilità di comunicare i pionieri (qui di seguito ricordati in maniera sommaria per esigenze di spazio) di quel West Anomalo, Eldorado Appenninico: l’umbro Riziero, edificatore della Chiesa e Totem Comunitario, il bolognese Cesare Ferriani creatore de facto della Stazione Sciistica per conto del Conte e il suo conterraneo e collaboratore Cingolani, il comasco Colonnello Picchiottini, il brissense Willie Acherer, il mitico maestro di sci e falegname valligiano Edgardo Camosi la cui figura meriterebbe una trattazione specifica che un giorno arriverà , il lucano Attilio Salvatore detto Pennellone i cui eredi ancora oggi operano nel commercio di questo posto, l’abruzzese Colonnello Zamboni edificatore dell’Hotel Savoia.
Oltre a loro, chiaramente, le famiglie provenienti dai paesi pedemontani intorno a Rieti, dove un dialetto nel raggio di dieci chilometri si trasforma in una nuova lingua: i Faraglia, i Rossi, i Munalli, i Pensabene, i Serva, i Maurizi, gli Acciai, i Mazzilli, i Fusacchia e gli Amici. Tutti cognomi che corrispondono a facce giovani a me note, nipoti e pronipoti che sono a volte i miei amici storici e che ci tengono a ribadire la loro appartenenza a questa terra che sì, è disponibile per tutti, per chi ne usufruisce per un fine settimana come è dei proprietari delle seconde case ma che deve, gioco forza, essere anche e più di qualcun altro che può dirsi terminillese per legami affettivi che si stringono all’ascendenza mitica. L’origine del luogo è talmente prossima, ottant’anni e poco più, che è possibile tracciare entro uno schema la genealogia dell’insediamento senza possibilità di sbagliare. È un punto di vista di studio privilegiato, in un Paese di borghi e insediamenti che si perdono nella Storia Antica, un luogo come Terminillo.
Gino inizia a raccontare e io chiudo gli occhi e nel racconto scompaiono i residence, la Religione del Cemento che ha riscritto lo spazio in maniera funzionale lascia spazio alla Montagna Vergine di quei primi anni, ad uno spazio in cui s’è cercato per un periodo d’operare per sottrazione funzionale, prima che i palazzinari degli anni ’60 ci prendessero troppo gusto a tirar su palazzi per ricavarci migliaia di appartamenti moquettati.
“Quanti anni avevi la prima volta che sei venuto qua?”, chiedo.
“Era il 39, ’40 ogni tanto facevamo una scappata. Poi dal ’40 in poi semo venuti sempre su, perché papà ha lavorato prima con la strada, poi quando hanno iniziato a fare e ville ha lavorato là e poi è rimasto come guardiano di parecchie ville.”
Le ville, i primi insediamenti, le seconde case che vengono costruite da quella Roma bene che poi, negli anni ’60, trasformerà per un periodo questo scorcio d’Appennino in una dependance invernale di Via Veneto: Gassaman, Tognazzi e Gino Cervi erano di casa, quassù. È un mondo che Gino ha visto di sfuggita però, troppo impegnato a lavorare duramente per l’uomo di cui non smette per un secondo di parlare bene: Cesare Ferriani, vero animatore della Società Funivie, l’Ingegnere, il Mago a cui ogni cosa riusciva perfettamente. Operaio della Società Funivie fin dalla minore età, Gino fa carriera velocemente fino a ritrovarsi, posto che manterrà per decenni, caposervizio e autentico numero 2, spalla e consulente per creare nuove piste, elaborare strategie, tirare tracciati per nuove sciovie. Prima di tutto questo però l’infanzia, la scuola frequentata grazie alla Maestra Elena, capace di ricavare classi in una sistemazione di fortuna quale la baracca degli Operai della Funivia, sulla cima di quella collina poi rasa da Padre Riziero per costruire una Chiesa la cui altezza surclassa quella della collina stessa e visibilissima da valle (“a Padre Riziero non interessava vedere, interessava essere visto” mi disse un giorno Antonio Cipolloni).
“Maurì, io di questo posto ho visto tutto. La Valletta, dove adesso hanno costruito la piscina, era bellissima. Era del nonno di Luciano, ci faceva il fieno. Da dove finisce il Prato della Togo con la Slitta arrivavamo sotto la chiesa, che non c’era. Non c’era niente. Poi Rossi Orlando fece una stradina pe andà là, un ponticello, fino a dove mo’ c’è l’ingresso attualmente dell’Albergo Togo. Dopo venne fatto tutto il resto. Te l’ho detto, noi facevamo le gare da lassù e arrivavamo sotto la chiesa. Qua era tutto sciabile.”
La Valletta del nonno di Luciano, il papà di Bruno e di Stefania, che adesso a trenta metri da noi nel loro locale continuano a sfamare turisti. Eccola, la comunità, la discendenza che continua a lavorare in maniera diversa questo luogo, ma che forse qui non esisterebbe senza la presenza accertata dagli avi. Forse davvero, manca un Camposanto a questo posto. A ricordare perennemente che se oggi siamo, è perché ieri eravamo. Il Camposanto è la geografia dove si racchiude la memoria dell’individuo, ma anche quella collettiva, nei piccoli centri. Tra un residence e una sciovia, aveva ragione Riziero a volerne costruire uno.
È un racconto intimo, di storia locale, per appassionati del territorio. Forse un giorno lo scriverò per intero, in uno di quei libricini da comprare nella sezione locale delle librerie e delle edicole. Scriverò della Seconda Guerra Mondiale (la stazione fu occupata prima dai soldati della Germania e poi da quelli Alleati, che qui si addestrarono sulla neve in previsione di una poi irrealizzata linea di resistenza dei brandelli della Wermacht sulle Alpi) e di quel soldato tedesco che giocando a pallone con Ginetto lo costringeva sempre ad andare a recuperare la sfera di pezze giù nella scarpata.
“un giorno mi incazzai e gli dissi, vacci tu a riprendere il pallone. Quello da che era buono buono, mi puntò addosso la rivoltella”
O forse questa è una storia da raccontare intorno al fuoco, in un prato, quando ci si ritroverà tutti insieme, una memoria che appartiene ad una comunità che di queste memorie ha bisogno, perché forse un secolo di vita sono sufficienti per trasformare l’aneddoto in storia comunità ed affermare senza ombra di dubbio che questa terra strana d’alberghi e forestieri è molto di più di una stazione turistica, di un Parco Divertimenti dove tutto è attrazione e basta staccare il biglietto.
Parliamo due ore e più. Mi congedo, con la promessa di rivederci presto. Gino è contento. Esco fuori e la marmaglia mi avvolge come un vortice. Il Terminillo dell’Agosto 2019 è voci, baccano e gente che si fa i selfie. Mi rendo conto di camminare una strada che quando Gino arrivò quassù, era pendio di collina. Dal basso vedo salire tra la confusione il mio amico Lolli. Siamo cresciuti insieme, è mio fratello. Si è trasferito da qualche tempo dalle parti di Bergamo, dove ha messo su famiglia. Spinge la carrozzina con la piccola Rebecca a bordo. Abbiamo in programma di cenare insieme, una sera di queste. “Sì ma non andiamo al Ristorante, troppo casino”. Fortuna quattro mura dove isolarci e ricreare l’ambiente dei falò estivi ancora le abbiamo, da queste parti. Da quando è andato via, anche lui che come me lo ama più di tutto, questo posto (forse meno giusto della sua Rebecca), è un po’ allergico alla folla.
Per paradosso, ci troviamo quasi costretti per gli impegni della vita a frequentarlo quando lo frequentano anche tutti gli altri. Siamo persi tra le migliaia di anime sconosciute. Ci accordiamo per domani. Sul muretto della Funivia vedo seduto Alvaro, figlio di Adone, nipote di Attilio, fratello di Titto, di Adriana e della mia grande amica Annalisa. Attilio detto Pennellone è stato il primo commerciante di questo posto, direttamente da Lavello, provincia di Potenza. I Salvatore sono ancora tutti commercianti, quassù, giusto Alvaro qualche anno fa si è rotto le scatole e ha venduto il Bazar e la Tabaccheria. Ora ne ha, di tempo libero. Può essere una buona fonte, per continuare a dimostrare a quelli di Wikipedia che noialtri siamo prima di tutto un paese, altro che una stazione.
Lui, gli altri e anche i versi della nostra unica poetessa, Maria Santacroce Serva, che già nel 1999, in occasione del Sessantesimo della Fondazione del Paese, aveva intuito la necessità della Memoria del Luogo.
“[…] Da allora 60 anni son passati
E nomi illustri che andrebbero citati
E doverosamente ricordati
Sono tutti ormai dimenticati […]”
Con Amore,
Maurizio Perelli
Antropologo non praticante, nasce a Rieti nel 1982. Laureato presso l’Università di Perugia, al momento ha messo la sua laurea in fondo al cassetto dei calzini preferendo andarsene in giro a commerciare bottiglie di vino. Appassionato delle vite dei santi, se n’è già occupato in un piccolo mensile che poi però è fallito. Sposato, gli piace la pastasciutta e ha una forte passione per la Milano degli anni ’80. Anche se a Milano ci è andato giusto tre volte.