Il quartiere di Boston noto come North End è una delle aree urbane di maggior rilevanza storica degli Stati Uniti d’America. Come ben sanno i turisti che oggi si accalcano per le sue vie, infatti, questo quartiere intensamente abitato fin dal XVII secolo è stato teatro di alcuni dei maggiori eventi della Rivoluzione Americana e del controverso processo agli anarchici Sacco e Vanzetti. Negli ultimi quattro secoli, il North End ha ovviamente subito diversi mutamenti, sia da un punto di vista urbanistico che per quanto riguarda le varie comunità che lo hanno di volta in volta abitato. Ciononostante, a partire dalla fine del XIX secolo in poi, il North End è soprattutto noto per una sua caratteristica peculiare. Esso ha ospitato (e continua ad ospitare) quella che è probabilmente la più popolosa e tradizionalista comunità Italo-Americana di tutto il Nord America.
Da un punto di vista storico, la presenza Italo-Americana nel North End viene fatta risalire agli anni Sessanta del XIX secolo. In quell’epoca caratterizzata dell’appena avvenuta Unità d’Italia e dell’espansione dell’economia nazionale che ne conseguì, un nutrito nucleo di famiglie mercantili genovesi scelse di far stabilire alcuni dei propri figli “cadetti” in quest’area di Boston allo scopo di espandere sul mercato americano i propri commerci nell’ambito dell’industria tessile ed agroalimentare. Il North End non viene però considerato un’enclave Italo-Americana se non a partire dagli anni Novanta del XIX secolo, quando l’area di Boston venne investita dall’ondata migratoria nota come Diaspora Italiana.
Come è noto, questo movimento migratorio ha coinvolto una parte considerevole della working class italiana (specialmente quella proveniente dal Mezzogiorno, dalla Sardegna, e dal Veneto) a partire da metà Ottocento fino alla fine degli anni Settanta del Novecento. Durante questo periodo di tempo, una quantità spaventosa di Italiani decise di emigrare in massa verso le Americhe alla ricerca di migliori opportunità. Da un punto di vista meramente demografico, la Diaspora Italiana è stata una delle più drammatiche ondate migratorie di sempre. In base ai dati ufficiali forniti dal CSEI (Centro Studi per l’Emigrazione Italiana), infatti, la Diaspora ha coinvolto circa 27 milioni di persone; praticamente più di un terzo dell’attuale popolazione italiana!
I migranti italiani trovavano l’area di Boston particolarmente attraente. Essendo uno dei principali porti commerciali dell’Oceano Atlantico, infatti, Boston si poteva raggiungere da Genova, Napoli, e Palermo (cioè dai tre principali luoghi dai quali un italiano poteva imbarcarsi per le Americhe nel XIX secolo) in modo relativamente rapido ed economico. In quell’epoca, inoltre, Boston era soggetta ad una furiosa ed aggressiva crescita industriale, la quale si nutriva del costante arrivo di nuova manodopera sotto-specializzata ed a buon mercato. In altre parole, un bracciante agricolo italiano che arrivava a Boston a fine Ottocento non aveva bisogno di possedere particolari capacità professionali e neppure di conoscere la lingua inglese per trovarsi un lavoro sicuro (anche se spesso in nero e sottopagato) in qualche fabbrica o cantiere locale.
Viste queste premesse, che tanto ricordano quelle che ispirano gli attuali flussi migratori extra-europei verso l’Italia, non stupisce affatto che la comunità Italo-Americana del North End sia stata storicamente soggetta a fenomeni di sfruttamento economico e subalternità culturale da parte della borghesia anglosassone di Boston, la quale era già radicata in città da almeno tre secoli e certamente manteneva fortissimi interessi immobiliari nel quartiere. In questo contesto, i migranti Italo-Americani divennero rapidamente vittime di intense discriminazioni sociali e razziali, spesso fomentate da istituzioni pubbliche (inclusi il governo del Massachusetts e persino i sindacati locali) a caccia di capri espiatori e facili consensi. Ciò portò la giovane comunità italiana del North End a chiudersi in sé stessa dal punto di vista culturale, ed a mantenere le proprie origini etniche ed identitarie in modo più integrale e tutto sommato conservatore che in molti altri contesti Nordamericani.
Questo atteggiamento appassionato ed anche un po’ geloso nei confronti delle proprie origini etniche derivava anche dalle specifiche strategie migratorie attraverso le quali i migranti si stabilivano nel North End al loro arrivo dall’Italia. Strategie che, ancora una volta, ricordano molto da vicino quelle adottate dagli attuali migranti extra-europei che arrivano oggi sulle coste del Bel Paese. Gli italiani che partivano per il North End venivano spesso incaricati dalle loro famiglie d’origine di preparare il terreno per il successivo trasferimento di parenti ed amici, i quali erano venivano “pre-selezionati” informalmente come potenziali nuovi migranti sulla base delle logiche clientelari e familistiche che caratterizzano la cultural italiana da secoli. In questo modo, chi arrivava a Boston aveva il compito (e tutto sommato anche il potere ed il prestigio sociale) di selezionare chi fra i suoi contatti personali avrebbe potuto seguirne le orme ed avere a sua volta l’opportunità di cercare fortuna in America.
È anche grazie a queste strategie migratorie che la comunità Italo-Americana di Boston ha finito per espandersi in maniera esponenziale, occupando l’intero spazio urbano del North End in meno di un secolo. Questa espansione dinamica non è però da intendersi solamente in senso positivo. In primo luogo, l’espansione italiana nel North End è avvenuta a scapito delle comunità ebraiche, irlandesi, portoghesi, ed afroamericane che abitavano questa area urbana precedentemente. In base alle fonti storiche, gli Italiani spesso costringevano le famiglie che appartenevano a queste comunità ad andare a vivere altrove (anche tramite la violenza), attuando di fatto una italianizzazione forzata del quartiere. In secondo luogo, l’espansione territoriale italiana nel North End avveniva sistematicamente tramite la mediazione attiva di istituzioni politiche e culturali di dubbio valore etico, che gli Italiani portavano con sé dall’Europa riadattandole al contesto americano.
Istituzioni tradizionali come la famiglia patriarcale di stampo cattolico, le consorterie campanilistiche e soprattutto le mafie, sono state ben presenti nel North End Italo-Americano, scandendone di fatto la vita sociale. Queste istituzioni non erano però semplici repliche di quelle che animavano la vita sociale dell’Italia di fine Ottocento. Nel contesto bostoniano, esse assunsero invece significati culturali originali adattandosi alla perfezione alle condizioni sociopolitiche che ispiravano il funzionamento e le contraddizioni proprie della società postcoloniale americana. In Italia, istituzioni come la famiglia patriarcale o le mafie rappresentavano le principali coordinate sociali che un bracciante di fine Ottocento poteva utilizzare per orientarsi all’interno della sua società. In America, esse diventavano vere e proprie agenzie etniche, le quali servivano in primo luogo a tutelare (spesso a qualunque costo!) le pur precarie condizioni di vita delle comunità Italiane locali, le quali vivevano quasi come in una perenne guerra fra poveri contro qualunque altra comunità etnica che non fosse quella anglosassone.
Il ruolo storico e sociale di queste agenzie etniche “di territorio” emerge chiaramente anche da alcune testimonianze che ho avuto modo di raccoglire nel 2010 nel corso di un’inchiesta etnografica da me condotta nel North End. Nella testimonianza che segue, per esempio, un anziano tabaccaio Italo-Americano di nome Andrew ci spiega sulla base della propria esperienza diretta come il campanilismo nostrano e la famiglia patriarcale abbiano avuto una fortissima influenza sui trend migratori ed abitativi, così come sui rapporti di potere, del North End.
“Fin da quando sono nato, ho visto un sacco di nuova gente venire a vivere nel mio quartiere dall’Italia. Gente spesso poverissima, che veniva da un sacco di regioni Italiane diverse. Non appena arrivavano, le nuove famiglie si dividevano lo spazio urbano fra di loro, sulla base delle loro regioni d’origine. C’era la strada dei Siciliani, quella degli Abruzzesi, e così via. Ricordo di un poveraccio che veniva da Pavia e nessuno voleva affittargli una stanza, perché non c’erano altri Pavesi che abitavano nel North End all’epoca. Con il tempo, queste famiglie hanno iniziato a programmare matrimoni fra di loro, ad incrociarsi [to mix up with each other]. Alle ragazze del North End non piacevano gli anglosassoni e, anche quando le cose non stavano proprio così, le loro famiglie non avrebbero mai permesso matrimoni misti ai tempi della mia infanzia. Oggi sembrerebbe una follia, ma all’epoca era normale [it was totally ok, back then]. Secondo me era una reazione giustificata dal fatto che i migranti italiani erano molto discriminati dagli anglosassoni, un po’ come lo sono oggi i migranti messicani.”
Un’altra testimonianza orale, questa volta raccolta durante una intervista a don Robert, un sacerdote cattolico Italo-Americano nato e cresciuto nel North End, esprime in modo assai controverso il ruolo sociale svolto a Boston dalle mafie all’epoca della Diaspora Italiana.
“La mia famiglia è originaria dell’Abruzzo. Quando ero piccolo eravamo tutti un po’ spaventati dai nostri vicini di casa, perché erano Siciliani. Nel North End, i Siciliani gestivano la mafia, la quale a sua volta gestiva l’economia e la politica della comunità italiana. La mia famiglia aveva paura della mafia, ma non la odiava. Questo perché la mafia del North End difendeva la gente italiana povera [those poor Italian fella] dalle istituzioni pubbliche e dalla polizia, che di loro se ne sono sempre fottuti [who would not give a fuck about their rights]. La mafia siciliana forniva prestiti a chi ne aveva bisogno, oppure ti trovava un lavoro se rimanevi disoccupato. Certo, volevano sempre qualcosa in cambio, ma è anche per via della mafia se il North End è quello che è oggi. Il North End non è America; è un pezzo della vecchia Italia che sopravvive all’America di oggi.”
Come espresso dalle parole di Andrew e Robert, un sentimento diffuso di identità etnica e subalternità storica (alle mafie, alla polizia di Boston, al proprio passato contadino) pervade la storia del Nord End così come l’esperienza di vita dei suoi abitanti più anziani. E lo fa al punto da offuscare le forme di violenza strutturale e di oppressione sociale che questo sentimento di appartenenza ha finito per generare nell’ultimo secolo. Lungi dall’essere un sentimento che spontaneamente appartiene a tutti coloro che condividono una comune cultura italiana in sé e per sé, l’identità etnica Italo-Americana è state impiegata strategicamente dagli abitanti del North End allo scopo di resistere (once again, a qualunque costo) alle pressioni egemoniche imposte su di loro dall’ambiente sociale statunitense, che non è mai stato attento alle condizioni di vita ed al diritto alla diversità degli ultimi.
A mezzo secolo di distanza dalla cosiddetta Diaspora Italiana, resta da chiedersi se le società europee di oggi siano in grado di imparare dalla storia allo scopo di evitare che essa si ripeta (come sempre, prima in tragedia e poi in farsa) nel contesto dei flussi migratori, delle lotte fra poveri, e dei continui episodi di balcanizzazione etnica che attualmente scuotono le periferie sociali del cosiddetto Vecchio Mondo.

Ingabolato da molti anni fra l’Italia, il Nord America e l’Olanda, Salvatore Giusto lavora come ricercatore presso l’Università di Amsterdam, dove si occupa di antropologia politica, antropologia dei media, criminologia sociale ed antropologia digitale. Salvatore è autore di articoli scientifici pubblicati da varie riviste Italiane, Canadesi, e Statunitensi (Visual Anthropology, Antropologia, Global Crime, Polar: Political and Legal Anthropology Review).
Ha inoltre pubblicato la raccolta di poesie “Ritzomena: cose che danzano” (2000) ed è co-autore del film etnografico “Good Time for a Change: un documentario di emigazione italiana in Canada” (2014). Quando non butta via il tempo facendo ricerca e insegnando corsi universitari, Salvatore è solitamente impegnato a guardare film horror, a cercare la pietra filosofale ed a perfezionare ulteriormente la ricetta della parmigiana di melanzane che la sua famiglia si tramanda da generazioni. Da marzo 2020, è il direttore editoriale di Deep Hinterland.