Era una tempesta tropicale quella che mi aspettava all’uscita dell’aeroporto internazionale Tocumen di Panama, anche detto l’Hub of Americas, in quanto destinazione di arrivo e partenze per decine di località dell’ America meridionale, centrale, insulare e settentrionale.
Sono trascorsi 25 anni da quel primo viaggio in quella striscia di terra che unisce il nord al sud di un continente vastissimo, là dove la carrettera panamericana si interrompe per un centinaio di km sulla costa panamense di Puerto Obaldia. Quel sistema viario era partito da Prudhoe Bay, Alaska, 6.500 km più a nord ed aveva attraversato, tramite una serie interconnessa di strade statali ed highways, tutta la costa Canadese e Statunitense del Pacifico. Saltata Panama, sarebbe ripartito dal porto colombiano di Turbo, per poi scendere giù fino alle distese ghiacciate della Patagonia e Ushuaia, la città più al sud del mondo nella Tierra del Fuego, attraversando Equador, Perù e Cile.

Quel tratto mancante della Pan-American Highway tra Panama e Colombia era dovuto alle difficoltà, ancora esistenti, di attraversare la selva tropicale del Tapon del Darien, una regione Panamense che funge da confine naturale tra la Mesoamerica ed il Sudamerica. Una zona umida, ricca di vegetazione, inestricabile per la sua conformazione fisica, che ha impedito il passaggio di un sistema viario esteso come quello che, pensato nel 1923 durante la V Conferenza degli Stati Americani, fu in seguito realizzato, a partire dal 1936, per una lunghezza complessiva di oltre 36.000 km.
Le difficoltà tecniche incontrate dagli ingegneri americani nella giungla del Darien sono le stesse che gli ingegneri francesi vi avevano già incontrato nella seconda metà dell’Ottocento. Lo spirito imprenditoriale dei capitalisti d’Oltralpe del tempo avevano infatti individuato quel tratto di foresta come quello che poteva dividere in due le Americhe, collegando il Pacifico all’Atlantico tramite un canale artificiale che permettesse alle merci di evitare la pericolosa e costosa circumnavigazione di Capo Horn. In qualche modo, quegli ottanta chilometri che dividevano Colon, sulla costa atlantica, da Ciudad de Panama, sul Pacifico, dovevano essere eliminati per costruire un collegamento tra i due oceani.

Insomma, una volta atterrato a Panama ad affrontata la tempesta tropicale, valeva davvero la pena di andarla a vedere quell’opera. Fra le altre cose, proprio quell’anno gli americani l’avevano restituita ai panamensi. In una oretta di taxi dall’albergo situato nel casco viejo, il centro storico coloniale della Ciudad de Panama, patrimonio dell’umanità, arrivai quindi alle chiuse di Miraflores, da dove si possono ammirare le navi che attraversano il canale dall’Atlantico al Pacifico.
Nel mirador c’era un museo e anche un simulatore che, per pochi dollari, ti regalava l’emozione di governare una nave durante la delicata fase dell’attraversamento. Nulla di entusiasmante rispetto al balcone da dove si poteva vedere il complicato sistema di chiuse che, svuotandosi e riempiendosi, permettevano alle navi che transitavano di superare il dislivello tra il mare e le imboccature sui due lati del canale, per poi venire agganciate a dei rimorchiatori che letteralmente le trascinavano in mare aperto.

Nel mezzo del canale c’è il lago di Gatun, un bacino artificiale dove sostano le navi in attesa di attraversare l’ultimo tratto del canale in un senso o nell’altro. Confesso che l’escursione in barca con partenza dalle sponde (non dall’imbocco del canale, dove è rigorosamente vietata) è stata alquanto inquietante per l’abitudine tutta latinoamericana delle guide di far provare allo straniero qualche ebbrezza non richiesta, come quella di avvicinarsi troppo a mercantili in movimento lunghi duecento metri e alti una settantina. La stessa ebbrezza che qualche anno dopo in Perù mi costò un naufragio al largo delle isole delle Ballestas.
Come ho già detto, il progetto di costruire il canale di Panama risale alla seconda metà del secolo scorso. Nel 1881, il governo colombiano, che controllava la regione, fornì una concessione alla Compagnie Universelle du Canal Interocéanique, società francese che aveva partecipato con successo alla realizzazione del canale di Suez.
La compagnia transalpina presentò un progetto, avvalendosi anche della collaborazione di Gustave Eiffel, che non aveva ancora costruito la famosa torre di Parigi che porta il suo nome, e di Paul Gauguein, la cui pittura fu fortemente influenzata dalle atmosfere tropicali di Panama.

Ma l’arido deserto egiziano non era la giungla tropicale del centro America. Scandali finanziari, ma soprattutto le difficoltà tecniche incontrare durante i lavori (che causarono migliaia di morti tra i lavoratori, per lo più asiatici, decimati come mosche dalle malattie tropicali), suggerirono ai francesi di interrompere l’opera. Ciò aprì la strada agli americani che, anzitutto, appoggiarono l’indipendenza di quel territorio dalla Colombia (1903), per poi invianre in loco l’esercito a difesa degli interessi della neonata Repubblica di Panama.
Un regime change utilissimo agli Stati Uniti, che solo un anno dopo iniziarono i lavori per la costruzione del canale. Furono impiegate 40.000 persone, per lo più poveracci provenienti dalle vicine isole dei Caraibi, sottoposti ad un regime di segregazione e discriminazione simile a quello che subivano gli Afro-Americani in patria. Ingegneri, amministratori, tecnici e operai specializzati provenivano invece dal Nord America.
I lavoratori o, per meglio dire, gli schiavi, venivano iscritti in appositi albi, quello d’oro e quello d’argento, a seconda del colore della pelle. Inutile dire che la paga e le condizioni di vita dipendevano dall’albo in cui si finiva annotati. Furono 5.000 quelli che ci lasciarono la pelle in quella impresa, cui vanno sommati i 20.000 che facevano parte delle squadre impiegate in precedenza dai francesi nella loro fallimentare avventura. Si può dire che, oltre alle navi, tra i due oceani scorse anche sangue in quegli anni.

In cambio della realizzazione dell’opera gli americani ottennero il diritto di gestire il canale per cento anni. Un trattato del 1903 aveva fissato al 31 dicembre 1999 la fine della concessione per lo sfruttamento e l’esazione dei diritti di passaggio. E quell’anno, in effetti, la zona del canale è tornata sotto l’autorità del governo di Panama. Tuttavia gli Americani, anche in base a un precedente trattato del 1901, ritengono di avere un diritto permanente alla difesa del canale da ogni minaccia che possa interferire con la loro sicurezza.
Si fonda anche su questo la pretesa di Trump di annettere la Panama Canal Area agli Stati Uniti, oltre alla bislacca affermazione secondo cui il Canale fu riconsegnato a Panama e non ai Cinesi, che in effetti per mezzo di una società di Hong Kong, la CK Hutchinson, controllano il Canale. Almeno fino ad oggi, date le trattative per la cessione della gestione del Canale al fondo americano Black Rock, il più grande del mondo.

In verità, non c’è alcun motivo giuridico o politico perché il governo panamense possa piegarsi al volere del tycoon, anche perchè sono passati più di venticinque anni da quella retrocessione. Nel frattempo, le dimesioni originali del Canale sono diventute del tutto inadeguate, tanto da indurre i panamensi a raddoppiarne le capacità, varando un progetto nel 2016 in cui il governo centramericano investì oltre la metà del proprio PIL. Soldi panamensi dunque e non americani.
C’è da augurarsi quindi che, al pari di quelle su Groeanlandia e Canada, quelle di Trump siano solo delle spacconate senza seguito. Se non altro per evitare di aggiungere altre morti alle già tante, troppe, che sono state necessarie per costruire il Canale.

Avvocato e giornalista, coltivo un’antica passione per l’America Latina e l’Europa Orientale. Ma resto comunque convinto che non esista un paese che non valga la pena di essere visitato. E mi sono regolato di conseguenza. Siccome arriva sempre il momento in cui ti rendi conto di sapere meno di quanto pensi, mi sono rimesso a studiare e quelle quattro cose che so ho deciso di spacciarle su Deep Hinterland. Senza pretese che esse siano risolutive dei dubbi di chi legge, anche perché penso che ognuno farebbe bene a tenersi stretti tutti i suoi affanni. Alla fine, sono convinto, tornano sempre utili.