Una delle canzoni di protesta più importanti del tardo Novecento statunitense si chiama come il mio stato natale: Ohio. Non perché i cantautori, Crosby, Stills, Nash and Young, fossero di lì. Al contrario, si trattava di un Californiano, un Texano, un Inglese e un Canadese. Ma in quegli anni il malcontento popolare contro la sanguinosa guerra che gli Stati Uniti stavano portando avanti in Vietnam e Cambogia aveva raggiunto il suo apice, e quindi il pubblico del mio paese capiva benissimo il significato di quello strano titolo.
Il brano, uscito nel giugno del 1970, iniziava così:
“Tin soldiers and Nixon’s comin’
We’re finally on our own
This summer I hear the drummin’
Four dead in Ohio”
(Arriva Nixon coi soldatini di stagno
Ormai siamo soli
Quest’estate sento i tamburi
Quattro morti in Ohio)
Per capire il testo di questa canzone, bisogna fare un piccolo passo indietro. Il 30 aprile del 1970, il presidente Nixon annunciò l’inizio della campagna cambogiana, un allargamente della guerra americana già allora in corso in Vietnam. Questa mossa suscitò molte proteste, la più famosa delle quali ebbe luogo alla Kent State University, in Ohio. Quando il governatore di quello stato inviò la Guardia Nazionale al campus per sedare i tumulti, questa sparò su di una folla di studenti che stavano manifestando, uccidendone quattro e ferendone nove.
Dopo la sparatoria, le proteste e gli scioperi degli studenti scoppiarono sui campus di tutto l’Ohio e di tutti gli Stati Uniti. Mia madre me ne ha parlato spesso. Lei non partecipò di persona alle proteste in quanto era ancora molto giovane nel 1970, ma ricorda benissimo di come suo fratello maggiore fosse stato attaccato con dei gas lacrimogeni alla Ohio University, che allora frequentava. Dopo una settimana o due di questi tumulti, tutte le università pubbliche dell’Ohio vennero chiuse temporaneamente, non permettendo neppure ai genitori degli studenti (compresi i miei nonni) di recuperare i loro figli dai vari campus dove risiedevano e studiavano.

Oggi gli americani ricordano il massacro della Kent State Univeristy come un momento terribilmente buio, un abuso di potere allucinante da parte dello stato americano contro dei ragazzi disarmati. È riconducibile a questo episodio l’iconica foto che vinse il Premio Pulitzer l’anno seguente, scattata da John Filo, allora studente di fotogiornalismo proprio a Kent State, nella quale una ragazza in ginocchio urla accanto ad un cadavere ancora fresco di morte pochi minuti dopo il massacro.
Quasi dimenticato, invece, è l’atteggiamento ipocrita e controverso che dominò l’opinione pubblica di allora. In un sondaggio fatto da Gallup il giorno dopo il massacro degli studenti, il 58% di chi rispose diede la colpa agli studenti stessi, e solo l’11% incolpò la Guardia Nazionale. Non a caso tutti i militari che avevano sparato furono poi assolti, nonostante le loro vittime fossero non solo disarmate, ma addirittura a circa cento metri di distanza dai loro assassini, difficilmente percepibili quindi come una minaccia.

Forse così si spiega anche il fatto che gli ammistratori universitari di oggi non sembrano avere imparato un cazzo dalla storia. Ho capito questo pochi giorni fa, quando ho visto circolare sui social immagini di cecchini della polizia sui tetti dei palazzi universitari, sia all’Ohio State University, nella mia città natale, che all’Indiana University, dove ho studiato ed insegnato per anni. Erano passati solo pochi giorni da quando la presidentessa della Columbia University di New York chiamò la polizia contro un accampamento di studenti manifestanti pro-Palestina, facendone arrestare 108 e, paradossalmente, dando un impulso importante alla diffusione massicciadi questo movimento di protesta in tutto il paese.
Gli studenti americani stanno oggi chiedendo che le loro università riducano le loro collaborazioni con (ed i loro investimenti in) aziende legate ad Israele ed ai produttori di armi militari (richieste, fra l’altro, simili a quelle che il movimento studentesco americano richiedeva negli anni ’80 contro l’apartheid sudafricano). Assieme alle proteste, però, si sono diffuse anche le severe risposte delle amministrazioni universitarie, molte di cui hanno reagito come quella di Columbia, impegnando reggimenti di polizia in tenuta anti-sommossa contro manifestanti pacifici e facendone arrestare a centinaia.
All’Indiana University, per citare solo un esempio, l’amministrazione ha cambiato durante la notte del 24 aprile una regola che dal 1969 permetteva manfestazioni pubbliche su di un prato del campus, tendendo così una trappola agli studenti ed ai professori che ci sarebbero andati il giorno dopo, inconsapevoli del cambiamento, per una manifestazione che era già in programma da tempo. Una volta arrivati sul prato, hanno incontrato la Polizia dello stato dell’Indiana armata di mitragliatori ed un cecchino che li puntava dal tetto di un palazzo accanto. Altri studenti sono stati arrestati durante il weekend. Ne ho parlato con Marco Arnaudo, professore di italianistica all’Indiana University, il quale mi ha spiegato che dallo scorso 25 aprile quella dei cecchini nel campus è una minaccia continua. “Vengono ogni mattina, stanno tutto il giorno a tenere sotto tiro studenti e professori, e vanno via la sera”.

Da quanto pare, amministratori universitari come la Presidentessa dell’Indiana University Pamela Whitten non solo rischiano un’altra Kent State, ma adirittura la minacciano. Perché? Nel caso della Whitten, bisogna forse fare un po’ di dietrologia. Pamela Whitten è stata nominata Presidentessa nel 2021 dal Board of Trustees dell’Università, un consiglio i cui membri sono per la maggior parte nominati dal Governatore dello stato dell’Indiana.
La Whitten quindi non ha mai avuto il sostegno dello staff o degli studenti dell’università. Infatti proprio il 17 aprile di quest’anno, una settimana prima degli arresti al campus, i docenti dell’Indiana University hanno tenuto un voto di sfiducia contro Whitten, citando fra i motivi la sospensione di un professore di scienze politiche, Abdulkader Sinno (reo di aver prenotato un’aula per farvi svolgere un evento del gruppo Palestine Solidarity Committee), e la cancellazione di una mostra dell’artista palestinese Samia Halaby.
Alla luce di questi avvenimenti recenti, secondo il Professor Arnaudo, la repressione delle proteste pro-Palestina nel campus dove lavora sarebbe un’atto di forza dai chiari scopi politici. “Hanno bersagliato questa manifestazione e non altre; l’intento è chiaramente politico”, sostiene Arnaudo. La Whitten non sarebbe quindi una semplice rappresentante dell’università. Essendo stata essenzialmente nominata per motivi politici, questa non può che rappresentare interessi del tutto estranei a chi l’università la vive ogni giorno.

In fondo ci troviamo di fronte a quelle stesse contradizioni di cui ho parlato di recente con Mindy Isser proprio qui su Deep Hinterland: vi è un distacco siderale fra un’opinione pubblica americana che mette sempre più in discussione le azioni militari del mio paese (oppure quelle che il mio paese finanzia all’estero) e strutture di potere che appoggiano senza riserve quelle stesse azioni. Nel 1970, la guerra diventava sempre più impopolare, come il massacro a Gaza oggi.
Ciò che rimane è quest’orrore americano per l’espressione politica degli studenti, che per qualche motivo il potere costituito non può tollerare. Alla vigilia dell’anniversario del massacro della Kent State, i giovani ed i meno giovani continuano ad affrontare un sistema che li vuole zitti e buoni. E almeno questo nessuna polizia al mondo lo potrà mai negare.

Nata in Ohio e vissuta in passato a Bologna e a Genova, Mary Migliozzi attualmente vive vicino a Philadelphia, dove lavora nell’ambito dei programmi internazionali universitari. Per oltre 15 anni ha insegnato e ha fatto ricerca accademica in Italian Studies, concentrandosi sulla letteratura dialettale italiana e sulla musica pop e cantautoriale del Bel Paese. È un’appassionata di romanzi gialli inglesi, romanzi russi troppo lunghi per essere letti tutti d’un fiato, e del Festival di Sanremo.