Le chiavi della città ideale. Il Perugino, Arlecchino e i confetti di Bezos

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In questo sabato mattina inglese sferzato dal vento e dal caldo, il miliardario Jeff Bezos, che sfortunatamente non ha bisogno di (rap)presentazioni, sta celebrando il suo pantagruelico matrimonio con Lauren Sánchez a Venezia in uno stile grande, ma non affine al Canale della Laguna. Comprensibilmente, un altrettanto enorme scalpore accompagnato da proporzionali e giustissime proteste, sta circondando l’evento che, più che l’unione ufficializzata tra due persone, è una volgare, totalizzante presa di potere su di un luogo unico e abitato, simbolo dell’arte e dello stile, grandi assenti di questa kermesse.

Il punto non è nemmeno che un riccone si voglia sposare a Venezia, nulla di nuovo, ma è il come. La vuole infatti, ovviamente, tutta per sé, sconvolgendone i ritmi, l’ecosistema naturale e sociale, peggiorandone la Salute e, insomma, volendone comprare le chiavi.

In un’altra città immensa, poco più di cinquecento anni fa, il Perugino veniva incaricato da Papa Sisto IV di affrescare una sala riunioni molto particolare. Infatti il Nostro artista, tra il 1481 e il 1482, realizza una delle sue opere più influenti, soprattutto, come vedremo, sull’iconografia a lui coeva, ovver la “Consegna delle chiavi“.

L’evento si colloca all’interno delle storie cristologiche presenti nella celeberrima Cappella Sistina in Vaticano, che fungono da contraltare a quelle di Mosè, per suggellare la continuità e le affinità tra Nuovo e Antico Testamento. Oltre agli episodi stessi, lo stile e la cromia vennero studiati in maniera da far risaltare la storia e l’armonia funzionali a innalzare quello spazio di insensata bellezza al suo ruolo in secula seculorum, amen.

Perugino, Consegna delle Chiavi, Affresco, 335*550 cm, 1481-82, Cappella Sistina – Città del Vaticano. Photo credits: Wikipedia

L’episodio, ambientato in una città, prospetticamente ma non solo, ideale mostra il passaggio di responsabilità e ruoli da Gesù a San Pietro, nuovo capo della Chiesa. Con questo gesto potentissimo Cristo, e Sisto nostro, legittima la supremazia e l’infallibilità dei suoi successori (i Papi), ma soprattutto ne sancisce il loro potere super partes. Della serie: provateci solo a mettervi contro di noi già pappa e ciccia con l’Altissimo.

Ignorando volutamente le centinaia di anni di distanza, vien fin troppo facile soffermarsi sugli abissi ovvii di differenza tra i due vulgar display of power[1]. Da un lato inquinamento, abiti osceni, messa a soqquadro della città con barche ferro da stiro nutrito dopo mezzanotte. Dall’altra qualche testa tagliata, ma anche commissioni private ai più grandi artisti dell’epoca e sgomitate con Lorenzo il Magnifico, che solo a scriverlo fa girare la testa.

Perugino stesso, consapevole dell’importanza del suo lavoro e del riuscitissimo e inconfondibile impianto prospettico smaccatamente rinascimentale, lo riprende, tra il 1501 e il 1504, nello “Sposalizio della Vergine“, oggi custodito presso il Musée des Beaux-Arts di Caen. Questo lavoro incanta e ispira un suo illustre allievo, nonchè noto amico di questa rubrica, il giovanissimo e mai sufficientemente amato Raffaello.

Raffaello, Lo sposalizio della Vergine, 170*117 cm, Olio su Tavola, 1504, Pinacoteca di Brera. Photo credit: Wikicommons

L’urbinate nel 1504 realizza una sua versione de “Lo Sposalizio della vergine“. Un atto sublime, sospeso, un sogno oggi conservato presso la Pinacoteca di Brera. L’opera, di commissione tifernate, è un chiaro omaggio al lavoro anche vaticano del maestro più anziano ed è arricchita dalla dolcezza tipica dello stile rarefatto e raffinato di Raffaello di cui, bontà sua, siamo testimoni. Oltre alle pose chiasmiche, alle ombre gentilissime, i panneggi inanellano con le acconciature una sinuosità che, più che descrivere un consesso parte di un’unione mitica, ci rende quasi partecipi della Settimana della Moda di Città di Castello/Gerusalemme.

Infatti, secondo una tradizione legata ai vangeli apocrifi, Maria era cresciuta presso il Tempio di Gerusalemme secondo uno stile di vita casto e riservato che è anche il motivo per cui il giovane calzamagliato di fronte (fedele all’iconografia più classica delle nozze della Vergine), non avendo ricevuto come Giuseppe il ramo che germoglia, simbolo divino, rompe l’inutile ramo secco, non essendo lui il prescelto. Così facendo inizia forse l’iconografia del potenziale ex o wanna-be-ex tignoso inspiegabilmente invitato alle nozze?

C’è qualcosa di meraviglioso legato all’equilibrio di quest’opera, senza entrare nel merito dei personaggi, che mi fa sempre venire voglia di comportarmi all’altezza dell’invito. Dal classico stare dritta con la schiena all’avere le spalle coperte[2], mi sembra il momento di darsi un contegno estatico-estetico, anche solo perché questo dipinto fa volare e non conosco nessuno che sia decollato con agio indossando le infradito. Forse delle All-Star, ma si trattava di Mago Merlino tornando da Honolulu, in emergenza e senza bagaglio a mano.

Invece il matrimonio di cui sopra tra milionari irresponsabili e impermeabili alla salute del pianeta, nonchè alla bellezza di cui sono circondati anche solo per il fatto di stare al mondo, mi fa venire voglia di tirarle le scarpe. Anche voglia di protestare, di unirmi a chi, con stile e coraggio, sta rischiando anche condanne penali per esprimere il pensiero di tantissimi, nonché la reale posizione del 99% della popolazione mondiale che, non avrà tanti soldi, ma a volte e in parte, quei pochi può scegliere come spenderli.

Oltretutto, parlando di gusto, cultura e sogni, Bezos ci sta annoiando ribadendo per l’ennesima volta che soprattutto la fantasia, che ha generato un luogo come Venezia, non si può comprare. Ho trovato particolarmente meritevole d’interesse e riflessione una delle proteste messe in atto in Laguna, il matrimonio finto e mascherato inscenato in Piazza San Marco.

Mi pare una risposta perfetta da ogni punto di vista, iconografico, storico, d’impatto. Queste persone, purtroppo già duramente represse dalle forze dell’ordine italiane (che per inciso spesso indossano una divisa che somiglia di più ad una maschera, dato il loro comportamento) si presentano vestite, meglio dei soon-to-be Bezos, ed indossano una maschera che li rende ognuno di noi, universali e allo stesso tempo liberi.

Curioso, logico e lodevole indossare delle maschere per protestare nella città che del volto coperto ha fatto una bandiera per secoli, di stile, di seducente sotterfugio, di schiavitù/silenzio, ma anche di libertà d’espressione e scelta d’identità.

Venezia per molto tempo, fortuna nostra, ha dominato Bergamo, mia città natale, di cui è originario un personaggio colonna del Carnevale, Arlecchino.

Arlecchino, in una rappresentazione di Maurice Sand. Photo credit: Wikipedia

Devo ammettere che da piccola, dopo essere stata fatina e albero, anche per un profondo, e poco scelto, senso di coerenza, ho ceduto a lui. Come tutti sappiamo, Carnevale cade in inverno, se siamo fortunati inizio primavera e, in una città orobica a inizio anni Novanta, le temperature non permettevano un costume non supportato da un’adeguata imbottitura sottostante.

Fu così che mia nonna si ingegnò e mi confezionò un insuperato costume da Arlecchino taglia 52, con ampio spazio per giacca a vento da indossare a mo’ di lingerie. E mi dotò anche di Tricorno, copricapo che mi chiedo ancora perché sia andato in disuso non solo per lo stile ma anche per la comodità di poterci riporre ogni genere di oggetto e poter evitare la borsetta.

Autrice in abito da Arlecchino con suo padre, Anni fine ‘80 – inizio ‘90. Berlinguer era morto, Kurt Cobain vivo, fate voi i conti. Piazza Vecchia, Bergamo.

Nemmeno a farlo apposta, di recente ho rispolverato la sua figura durante un seminario sulle sottoculture e il sincretismo ed ho scoperto, con una portentoso e poco mascherato mea culpa, che il suo nome deriva da Hölle König (re dell’inferno), trasformato poi in Helleking e successivamente in Harlequin. Chiaramente questa interpretazione “infernale” del nome è di matrice cristiana. In epoca pagana, infatti, si credeva, nel centro e nord Europa, che nel buio periodo invernale e in occasione di feste particolari, una schiera di spiriti dei morti corresse per cielo e per terra, con a capo una divinità a Km 0, in base al pantheon del luogo.

Tale Caccia Selvaggia pagana si è quindi trasformata nella schiera dei dannati sotto il cristianesimo. Che brutta traduzione, ingiusta, più che altro ma tanto, tanto affascinante. Perché questa è la fine che fa chi viene ostracizzato dai vari imprimatur. DH Lawrence (morto a Venezia!) ancora ringrazia, insieme a Guareschi.

Photo credit: Arianna Milesi.

A Bezos partito, tra pochi giorni, andrò anche io a Venezia, grazie ad un cocktail di treni lenti o meno, in pellegrinaggio, nella mia versione terrena e irresistibilmente decadente di città ideale. Ci andrò per stare con persone che amo, per farmi imbarbarire dalla bellezza spudorata, per togliermi la patina quotidiana e proprio per indossare manifestamente la maschera che voglio, inclusa qualcuna controversa ma spesso efficace[3].

Vincere il potere significa privarlo dell’essenza, quindi depotenziarlo, cioè irriderlo. Più di ogni bomba, di ogni manganello, di ogni misura anti-rave, un matrimonio fittizio (che anche qui, apriti Mar Rosso) e mascherato ci libera e ci difende dal potere più becero, lesivo e, sì, irrimediabilmente brutto. Perché solo un mona, e questo chiedetelo ai veneti cosa significa, potrebbe pensare di non fare brutta figura a rovinare il mondo e poi voler andare dalla più bella pensando di vincere.

Su di un muro, a Venezia. Photo credit: Arianna Milesi.

Note
[1] “Volgare – e immotivata – manifestazione di potere”, nonché famosissimo album dei Pantera.
[2] Non me ne vogliate, si sposa la Madonna, niente sandali aperti sul davanti, vestiti in poliestere o scollature esagerate. Se non altro siamo a Brera.
[3] Con le non dovute eccezioni, vedi la Moretta .

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