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Scegliere fra il pranzo e l’immergermi in una pellicola che per me “puzza di capolavoro” e di ribellione. Ancora meglio se la mia missione è andare a guardare “The Brutalist” e scoprire, in loco, che, data la lunghezza della pellicola, avrei impiegato il tanto odiato intero pomeriggio in questo modo. Ah, che bello. L’ho trovato davvero monumentale, ma questo lo hanno detto già tutti, The Guardian incluso, sfruttando una metafora che forse anche alla coppia di sceneggiatori è arrivata ben prima del film.
E’ un tunnel fatto di cieli, cappotti, nasi, peli, squadre a trenta gradi, ettolitri di droga (finalmente finemente raccontata), bretelle, e, grandi immancabili, tondini. E’ la vita del protagonista in America e nel cemento, spinto dal caso bellico più travolgente e svergognato del Novecento. E’ flessuoso, davvero brutale, offrendo però sempre una prospettiva verso l’alto ed una luce che promette (e, a modo suo, mantiene), anche se a sciabolate.
Brody, egregio e sempre impeccabile insieme alle sue narici, in abiti e pose, rende e regge una persona infiammata, determinata nel suo spaesamento, soprattutto dettato dai comportamenti altrui. Non smette mai di vedere il mondo a modo suo attraverso il disegno (non può scegliere) con una poetica spietatezza, che incanta ed è immanente a qualsiasi cosa “visibile o, ancora, invisibile”.

Come non empatizzare con questo plausibilissimo personaggio, un ungherese sopravvissuto all’Olocausto, architetto che si è formato al mitologico Bauhaus di Dessau, alto un metro e ottantacinque, che prende mazzate da tutte le parti, amico del carboncino, del cemento, dei porno e dei gatti, che sviluppa una dipendenza da eroina per calmare il dolore? Lui va avanti. Coglie e spoglia e lo smettere di ascoltare gli input e la vita per costruire è, semplicemente, fuori discussione. Procede in preda ad un desiderio mistico.
Ma, dico a me stessa e anche a voi, una volta immagazzinati i segnali, la bellezza, una volta generate le connessioni, tutto nella direzione del plasmare qualcosa, qualsiasi, come si può restare vigili o lucidi senza farsi travolgere? Sara Kane sosteneva che serve metodo, e non passione, per scrivere (e fare le cose). La passione distrugge. Insieme a lei metterei anche la vulnerabilità estrema e straziante dell’ascolto, partecipi di una nudità assoluta (e su questo punto, aggiungerei, serve una colonna sonora adeguata).
Non va, forse, la parte di percezione, anche se in funzione ricca ed espressiva, saggiamente centellinata, delimitata? Non si può certo reggere vita-natural-durante con le membra scoperte e impegnate nell’iperreattività mai oscena, e a volume da arresto cardiaco condominiale. Eppure il nostro talentuoso brutalista lo fa, e con lui generazioni di costruttori, che si tratti di parole, edifici, statue o bidet. Non è questione di giusto o sbagliato ma di effettiva sostenibilità.
Da sempre una parte di me è contenta e in pace sapendo che il bacino di meraviglia è sterminato, come il potenziale di ascolto. La bellezza che non arriverò mai nemmeno a concepire è infinita ed il saperlo mi rasserena, una boa naïf in uno specchio d’acqua in cui non mi immergerò mai. In minuscolo, mi accade lo stesso pensando alla carta velina su cui ho disegnato con la polvere d’Indaco e che ho, poco cautamente, appiccicato al muro esattamente sopra il calorifero dello studio. La fisica in me, solo part-time evidentemente, considerata la decisione, non ha realizzato che quella scelta avrebbe determinato un costante fruscio dei due piccoli a cinque dolcemente danzanti.

Questo qualcosa che non posso controllare, che mi godo, è un solo seme, un filo verso il desiderio di meraviglia. Non è la narrazione della meraviglia stessa, è una possibilità ancora aperta che salva dal subire le conseguenze raccontate. Ed è per questo che l’altro giorno al cinema sono scappata, sui gomiti e con lo zaino in spalla, all’inizio del secondo tempo di The Brutalist (che ho deciso di rivedere in nome dell’agognata aperta nudità di cui sopra) perché non riuscivo a sopportare quanto il protagonista venisse trattato male da tutto, come se avesse davvero una betoniera puntata in faccia.
Lo sviluppo che ha seguito il seme-primo tempo era insopportabile. Alla prima visione ho retto, intrappolata bambinescamente dalla trama, assorbita dal “cosa potrà essere”. La seconda volta ero talmente in simbiosi che non ho retto, con buona pace del signore accanto a me che mi ha guardata e mi ha detto: “Mah…”. Avrei voluto scrivergli un biglietto, qualcosa tipo: “Sempre allegri che tutto passa”, frase che una ho ammirato incisa sulle pareti dei Piombi, a Venezia.
A tal proposito, qualcuno sostiene infatti che il primo ed il secondo tempo di “The Brutalist” siano due film separati e che la (relativa) mediocrità della seconda parte cozzi ancora di più con la grandezza della prima, trattandosi di un capolavoro. Un problema di narrazione, funzionale e magistralmente infuso, che insiste nell’interrompere per noi la magia del film e per László (Adrien Brody) quella della prosecuzione della motivazione, costruttiva e vitale (ed anche su questo punto, se permettete, servirebbe una colonna sonora che ribadisca il concetto).
Salto indietro nel tempo. Londra, esterno di un giugno grigio ma non freddo; lo stesso tempo atmosferico che mi immagino dovesse esserci quando hanno tagliato la testa ad Anna Bolena. Sono lì per consegnare del materiale artistico, quando incontro un’altra donna che adoro e ammiro. Le chiedo se le va un caffè, che poi si trasforma in ore di conversazione, svelando una persona ancora più dolce, visionaria e profonda di quanto potessi sperare. Lei è Marianne Walker, divina disegnatrice dotata ti sterminati talento e cultura e, ça va sans dire, di una passione viscerale e soave per l’arte devozionale.
Colpita e affondata mi spertico in racconti sul corpo, su Ernesto De Martino, sull’arte bizantina, e su alcuni Concili assortiti della cristianità. Ad un certo punto, Marianne cala l’asso sul tavolo e spinge un: “E se l’atto artistico fosse un’esperienza del divino?”. Mi racconta così delle sue sensazioni durante l’atto demiurgico. Sul mio volto non parte una campanella, ma l’Orchestra Sinfonica della Rai al massimo della sua forma e non ricordo nemmeno cosa le rispondo tale era azzeccata la sua domanda.
Walker recentemente ha partecipato ad una collettiva dal titolo “Shadders”, che si è tenuta presso la Project 78 Gallery a St Leonards on Sea, in Inghilterra.

Marianne presenzia alla mostra con un potentissimo e immanente disegno-scultura, una testa appesa con una corda, un’architettura sacra di di grafite. Ne parla come del risultato del suo studio sulle sculture devozionali del Barocco spagnolo. “Questa in particolare è ispirata alla “Testa di San Giovanni Battista” di Juan de Mesa. Desideravo fare un lavoro deliberatamente emotivo e che esplorasse la luminosità, un concetto sempre più presente nel mio lavoro.[1]”
Il disegno della pelle di animale sul volto diventa un pattern di pianto totale. E’ “l’incarnazione del lutto della natura quando gli umani la negano, la bistrattano e si separano da lei stessa. Volevo creare qualcosa che mostrasse il dolore che prova la natura per il trattamento insensibile dell’umanità e dimostrasse il continuo martirio degli altri oltre che umani.” Il linguaggio incredibilmente personale e la sintesi profondissima di quest’artista sono un dono, figlio della sua atavica consapevolezza e concezione di unità delle forme di esistenza. Tutto è connesso e, potenzialmente, a tutto si può avere accesso, anche alla divinità, di cui partecipiamo tramite particolari ritualità, azioni e creazioni.

A tal proposito l’immaginazione corre alla magia delle icone acheropite. Il termine viene dal greco e le indica come non realizzate da mano umana, immagini impresse nella materia “da sé”, create o per un contatto diretto, come ad esempio il volto di Cristo sul velo della Veronica, o per ierofania, manifestazione divina. Un’immagine Hodighitria (che indica la via) molto antica che era stata ascritta fra queste e che richiama molto gli splendidi ritratti del Fayyum è quella della Madonna del Conforto, o “Imago antiqua”, custodita presso la Basilica di Santa Francesca Romana a Roma, in una zona talmente bella da essere surreale, proprio accanto alla Basilica di Massenzio.
Si tratta dell’icona mariana più antica custodita nella capitale e viene datata attorno ai primi decenni del V secolo, poco prima che l’Impero Romano d’Occidente crollasse. Di quest’immagine per anni si sono perse le tracce, ma durante un restauro si venne fortunatamente a scoprire che alcune parti, i volti in particolare, erano ancora quelle originali. Guarda caso questi capolavori non hanno autore.

Ricordiamoci anche che seppure San Luca, protettore dei pittori mica per niente, si riteneva essere stato l’autore delle immagini di riferimento dei volti della Madonna e di Gesù, fino a Giotto, prima vera rockstar tra gli artisti visuali, era l’invasamento dell’uomo da parte del divino a permettere al Santo di realizzare il suo lavoro, non certo la farina del suo sacco di pigmenti.
E’ soprattutto per questo che la storia dell’arte è zeppa di “Maestri di qualcosa”, era la loro memoria ad esistere in funzione dell’opera, come ogni tramite che si rispetti, contestualmente, di cui si dimentichi il nome, un po’ come succede ancora alle donne che fanno qualcosa che possa essere considerato considerato rilevante. Insomma, San Luca, mica aveva fatto la Brera di Antiochia. Era stata la sua sovraesposizione ai volti divini a realizzare il miracolo delle icone.
Il termine icona viene dal greco eikóna e significa letteralmente “immagine”. E a cosa servivano le immagini se non a raccontare e a tenere vivo il seme di qualcuno che aveva salutato la vita e, di solito, non ne aveva punto voglia? In questo senso le maschere funebri sono le antesignane di qualsiasi faccia ed una delle più belle di sempre è la celeberrima maschera di Agamennone, che ha colpito anche Walker, la quale ne materializza ancora la sua fascinazione attraverso la matita.

Centrando il punto, l’artista riesce a rinvenire il mito in tre dimensioni e ne ricava una ritualità nella realizzazione stessa, il passaggio ripetuto, completo, ossessivo e definitivo che lo consegna all’eternità futura. Marianne ha usato qui la grafite come uno strumento scultoreo per accompagnare la pelle al suo posto e darle la forma della memoria per i posteri, regalando anche una coerente metallizzazione all’opera finale[2]. Un oro concettuale, liturgico, invisibile e incredibilmente presente.
“Le cose visibili diventano più profonde attraverso quelle invisibili per chi si dedica alla contemplazione”, diceva S. Massimo il Confessore nel VII secolo. L’ispirazione come esperienza della divinità ha un qualcosa di tautologico nella sua completezza ma, divino o non divino, o ascolto nel cemento, quando è lecito e ha senso farsi travolgere in una prospettiva “al-di-là” del bene e del male? Quando ha senso lasciare che il seme inondi con la narrazione ogni spazio?
Chiaramente una risposta non ce l’ho e non la voglio forse nemmeno avere, non perché il mondo perderebbe d’interesse ma perché davvero, non ne ho idea. Il fascino insito in ogni cosa non è affare legato alla salda e sobria logica della comprensione razionale ma, credo, alla serietà del gioco prospettico, e non per forza iconodulo, che non rispetta nemmeno la gravità. Neanche se viene da dio ed è attaccato, nel cemento, ad un tondino.

Note
[1] L’artista continua: “Volevo creare un’opera che fosse deliberatamente emotiva e che esplorasse la luminosità, un tema sempre più presente nel mio lavoro. Il disegno rappresenta la pelle di una foca con anelli; continuo a tornare alla pelliccia di questo animale nella mia pratica. Dopo aver finito il disegno, mi sono reso conto che la forma era più lineare rispetto alla pelle di foca, ma ho deciso di seguirla comunque, perché conferiva alla forma una suggestione di lacrime. Volevo creare qualcosa che mostrasse il dolore della natura per il trattamento spietato dell’umanità e dimostrare il martirio continuo degli esseri non umani. Il cordone è stato un’aggiunta dell’ultimo minuto, l’ho intrecciato in studio poco prima di impacchettare l’opera per portarla all’installazione in Shadders. Era trattenuto dal cordone. Un altro cenno al disinteresse casuale. Ho ricevuto un bellissimo commento dall’esposizione: camminando di notte accanto alla mostra e intravedendo l’opera che brillava nel buio, non avrei potuto chiedere di più.”
[2] Così l’artista descrive la sua opera: “È stata ispirata dalla leggendaria maschera d’oro di Agamennone scoperta dall’archeologo Heinrich Schliemann. La mia versione è più prosaica: la matita grafite è stata usata come strumento scultoreo per creare una pelle sulla superficie della maschera, il suo luccichio metallico che rivela il volto e la forma.”

Arianna Tinulla Milesi è un’artista e illustratrice multimediale nata a Bergamo prima della caduta del Muro di Berlino. Si laurea in Arte Bizantina alla Statale di Milano e successivamente in Arti Visive – illustrazione allo IED. Al centro della sua pratica c’è il disegno come forma mentis, un tramite e mai un fine. Collabora internazionalmente con spazi espositivi, gallerie e musei. Dal 2024 collabora con l’Orto Botanico di Toscolano Maderno, parte dell’Università di Milano, per promuovere il disegno sperimentale come approccio libero verso il mondo naturale e non.
Arianna è membro del Council della Society of Graphic and Fine Art, l’organismo che si cura di promuovere l’arte del disegno dal 1919 nel Regno Unito e nel mondo. Ama Piero della Francesca e Paolo Uccello, Raffaello e Pietro Bembo, la gamma di colori dal vermiglio al lampone, i capelli estremamente corti, Adrien Brody, accarezzare gli animali e cantare a squarciagola. Ha adottato un gatto di nome Pilade, ricama e si produce vestiti con alterna fortuna, ascolta Paolo Conte, PJ Harvey, Fred Buscaglione e prova a fare snorkeling nel lago di Garda. Il suo motti sono: “Adoro i piani ben riusciti” e “Ogne melù al g’ha la sò stagiù”.