Mettere in scena l’infinito. L’immaginario di Elisa Filomena e Jackie Berridge

A sedici anni, consapevole che la coolness fosse una tra le più palesi assenti del mio universo, cantavo spesso una canzone dei Bluvertigo che recitava: “In altre zone di questo universo / è facile da realizzare / che esiste tutto ciò che io non riesco / ancora ad immaginare.”

Come molte mie coetanee, a migliaia di chilometri di distanza, sentivo l’aria che mancava, volevo uno spazio personale dove potessero trovare respiro la mia fantasia e il nostro corpo[1]. In realtà volevo solo un fidanzato che facesse il Liceo Classico e potermi accomodare in un’aula dell’Istituto d’Arte. Indovinate che Maturità ho conseguito, dissertando alla prova orale di integrali e capezzoli maschili come organi vestigiali? In realtà solo molto più tardi avrei capito che quello che mi serviva davvero erano dei simili e uno spazio dove incontrarli, qualcosa di non facile da reperire per un’adolescente di provincia, senza motorino, coi capelli blu, sovrappeso, vestita come un aspirante skater californiano.

Mi ero dotata però di un fitto arsenale di alleati fantastici, quasi tutti morti, e uno dei più fedeli era Paul Klee. Ciò che più di tutto amo di lui sono le narrazioni-turbinio di sterminate possibilità spazio-temporali, esattamente quello che mi ha ammaliato del lavoro di Jackie Berridge ed Elisa Filomena.

Jackie Berridge, “Normal Service Will Be Resumed“, scultura e disegno, tecnica mista, 2021. Photo credit: cortesia dell’artista; fotografia di Sebastiano Luciano.

L’opera di Jackie che per prima mi ha sollevata dal suolo è stata una sua abitazione/disegno, “Normal Service Will Be Resumed“, opera tridimensionale con abitanti e spazi, occupatissimi nelle loro vite disegnate. Più ci si spinge nel suo universo, più si viene permeati dalla sua coerenza, il concetto stesso di realtà assurge a vette inesplorate, che fortunatamente resteranno tali.

Anni dopo, accompagnandola durante un viaggio in auto nella sua campagna inglese, mi ha confessato che lei non vuole dare un’interpretazione univoca e singola della sua opera perché ciò significherebbe strozzarla. Se il centro dell’opera è la narrazione, fermarla equivarrebbe a ridurre in cenere sterile tutto il suo mondo brulicante.

Berridge crea habitat, piccoli palcoscenici tattili all’occhio provenienti da sogni-pedoni che non si ossidano mai, tristezze crudeli e sorridenti, folkloristiche ombre sghignazzanti che trovano riparo presso il convivio di animaletti antropomorfi impegnati a creare rifugi nella loro quotidianità. I mondi di quest’artista sono mappe dove tutto è al di là del vero. E’ un vero nuovo, mi verrebbe da dire, da sfondare le pareti delle definizioni di immaginazione. Berridge ci offre uno sterminato, dolcissimo riparo terribile.

Jackie Berridge, “Searching for another story”, grafite su carta, 750*570 mm, 2023. Photo credit: cortesia dell’artista.

A voler essere cattivi, nel senso di appuntiti, possiamo soffermarci sui disegni a grafite di quest’artista che, anche senza colore, assicura l’effetto trascinamento in un universo poderosamente e sfacciatamente rimescolato.

In “Searching for another story” una testa olmeca [2] sbadiglia una strada lastricata di linee che accarezzano cespugli occhiuti e portano ad uno schienale flauto di Pan, rifugio per una melagrana sbucciata, impensierita e abbandonata su di un elegante pavimento di mattoncini. Nelle vicinanze delle collinette, isosceli sovrastano un giardinetto di unghie-lapide e una cellula-fossa piena di mitocondri-fiore. Ogni personaggio ha senso, è aperto ed è anche uno spazio-specchio dove il cibo dell’opera è la nostra interpretazione che rimbalza sul foglio e ci torna negli occhi sempre riflessa e rifratta.

Jackie Berridge, “In Search of Another Happy Ending”, olio su tela, 760*1050 mm, 2023. Photo credit: cortesia dell’artista.

Ma Berridge cerca, e non le basta, il carbonio su carta e ci invita a far compagnia a degli anemoni che ammirano un panorama al tramonto di una montagna di una commovente tonalità di rosa. In “In Search of Another Happy Ending” troneggia sfasato un agglomerato semovente peloso e iridescente con quattro piedi depilati. Non è questione di crederci, è questione di esserci. Jackie non apre un sipario, compone cartoline del livello di realtà casa natale dei numeri irreali e dei calzolai delle fate.

Se quest’artista britannica ci incanta con i suoi sfondati immaginifici (più irruenti e fiabeschi di un taglio di Fontana), ho trovato un’altra generosa risposta torinese e seducente al mio bisogno di disatteso horror vacui: i visi (stanza) e le stanze (volto) di Elisa Filomena.

Il suo primo lavoro che mi ha agganciata è Levitazione, un disegno che rispecchia esattamente il mio sentimento nell’osservarlo. Ombre e mistero al loro meglio, quel vapore fumoso che materializza l’infinito infido della magia fin de siècle.

Elisa Filomena, “Levitazione”, tecnica mista su carta, 250*250 mm, 2016. Photo credit: cortesia dell’artista.

Non sono più io, coi capelli quasi rasati, i jeans e i miei enormi occhiali rossi. Sono una ragazzina coi capelli lunghi, un severo abito nero e un peso non registrato dalla gravità terrestre in evidente vacanza. Ma la sensazione di ampliamento di prospettiva, di miracolosa infinita riproduzione mai frattale degli spazi, che siano monolocali o galassie tra una guancia e l’attaccatura dei capelli, emerge con ulteriore inesorabile e garbata irruenza nell’installazione Eden. 

Filomena dedica gran parte del suo lavoro del 2021 a questa impressionante opera site-specific, presentata presso Casa Vuota a Roma, trasformata da locale in muratura in un’infinita camera picta. Filomena ha costruito questa impressionante architettura rilasciando il suo talento su ben settanta metri lineari di tela (e non solo), dove campeggia la sua personale scenografia teatrale. Non realizza disegni preparatori: irradia il palco direttamente col suo pennello.

Elisa Filomena, “Eden”, installazione presso “Casa Vuota”, acrilico su tela, 2021. Photo credit: cortesia dell’artista; fotografia di Sebastiano Luciano.

Echi di Gainsborough, di rossastri secolari, di livelli sinuosi e autoportanti avvolgono e invitano. Il suo spazio, autodefinendosi, fa lo stesso col nostro. E il tempo segue, come un orchestrale, abbracciandoci. Rendere le infinite possibilità non come omaggi ma come effettivi spazi da abitare, con cui interagire e da toccare con le ciglia.

Elisa Filomena, “Eden”, installazione presso “Casa Vuota”, acrilico su tela, particolare, 2021. Photo credit: cortesia dell’artista; fotografia di Sebastiano Luciano.

In tutto questo baluginare di aperture, le mie pupille hanno però diretto il loro amore per un sublime ritratto di Daphne du Maurier, fortissima, marmorea ed impetuosa nelle sue nuvole. Quando ammiro questa immagine, la mia idea di tinte calde o fredde si sovverte. Le sue gocce sono pianeti, le pennellate vento e capelli. Starà pensando a Rebecca o a sua cugina Rachele?[3] Filomena riesce a sfondare lo spazio due volte, ci fa viaggiare attraverso questo ritratto e ci invita a sfogliare le pagine di altri mondi raccontati dalla scrittrice.

Elisa Filomena, “Daphne du Maurier”, acrilico su tela, 800*650 mm, collezione privata, 2021. Photo credit: cortesia dell’artista.

Un uomo saggio una volta mi disse che non serve riprodurre la realtà come la vediamo, è già lì da guardare. Filomena e Berridge non ne danno una versione personale, ne costruiscono e restituiscono invece un impatto grandioso sul mondo. In loro c’è spazio, c’è tutto, una casa splendida e interminabile, che a sedici anni non avrei potuto nemmeno immaginare[4] .

Note
[1]: Mio e della fantasia.
[2]: Nel suo statement, Jackie Berridge ci ricorda del suo amore per il Giardino dei Boboli di Firenze; e forse possiamo azzardare anche un riferimento a Bomarzo?
[3]: Opere della scrittrice.
[4]: Foto di copertina: Elisa Filomena, “Eden”, installazione presso “Casa Vuota”, acrilico su tela, 2021. Photo credit: cortesia dell’artista; fotografia di Sebastiano Luciano.

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