Alla corte di Taylor Swift: fama, consumo e potere in America

Non ho opinioni particolarmente forti sulla musica di Taylor Swift; non la amo e non la odio. Ha prodotto qualche canzone bella, alcune che non mi piacciono, e molte che non conosco. Sarà che, pur essendo americana, ho passato troppe ore della mia vita a prognosticare i risultati delle prossime edizioni dei Festival Sanremo per conoscere fino in fondo il repertorio della pop star più famosa del mio stesso paese.

L’algoritmo di Meta, però, ha deciso che devo per forza esserne una fan. Sono una donna bianca e milennial di cittadinanza americana, e quindi sarebbe statisticamente improbabile che io non fossi una cosiddetta “Swiftie”.

Il profilo Instagram di Taylor Swift. Photo credit: Deep Hinterland.

E quindi non mi ha per niente sorpreso che il The New York Times la settimana scorsa abbia mandato un Breaking News Alert a tutti i suoi abbonnati quando la Swift ha annunciato il suo appoggio alla campagna elettorale di Kamala Harris.

Gli endorsements politici delle star non sono per niente rari nel mio paese. Anzi, ci si aspettava questa mossa da tempo da una come la Swift, normalmente molto loquace sui temi d’attualità. Nell’ultimo anno, la superstar è stata infatti molto criticata per il suo relativo silenzio in merito alle questioni politiche, specialmente per quanto riguarda i fatti di Gaza, con nugoli di followers che la pregavano a mezzo social di esercitare la sua influenza in favore dei civili massacrati in quel territorio.

Il post su Instagram tramite il quale Taylor Swift ha appoggiato la candidatura di Kamala Harris alle elezioni presidenziali americane. Photo Credit: The New York Times.

Sulla questione palestinese la Swift è rimasta zitta, ma sulle elezioni presidenziali ha detto la sua. Ma qual’è il peso di queste opinioni circolate a mezzo social? Perchè ne stiamo parolando in questo articolo? Conosco ragazze e ragazzi di 18 o 20 anni che, in America, parlano di Taylor come se una loro grande amica personale.

Gente prima indifferente allo sport si è messa a guardare i Kansas City Chiefs come i più appassionati dei tifosi quando la cantautrice si è fidanzata con il giocatore di football americano Travis Kelce, generando almeno $300 milioni di guadagni in più per l’NFL (ovvero l’associazione che gestisce il più importante campionato di football americano in Nord America). Li può convincere anche a votare? Non lo so di sicuro, ma forse sì.

Tifosi dei Kansas City Chiefs fanno il tifo per Taylor Swift allo stadio. Photo credit: Kirill Kudryavtsev/AFP via Getty Images.

Forse non esiste un equivalente allo star power della Swift in Italia. Ma se c’è stata una persona ad aver esercitato questo tipo di influenza negli ultimi anni, mi sembra ovvio che questa era Chiara Ferragni. Se la Swift è stata capace con un fidanzamento di mandare migliaia di fan allo stadio, la Ferragni con una foto li aveva mandati all’Uffizi, per non parlare delle migliaia di prodotti che era riuscita a vendere con ogni suo post.

Avrete notato e capito subito perchè ho usato uno specifico tempo verbale—era la Ferragni. La Ferragni esercitava questo tipo di influenze prima del Pandoro-gate del 2023, chiaramente. Ed è qui che vediamo la vera differenza fra la celebrità di Swift e quella di Ferragni: quella della Ferragni era fragile.

La campagna commerciale (e di dubbia beneficenza) a mezzo Instagram che, di fatto, ha ridimensionato il potere mediatico di Chiara Ferragni. Photo credit: Research Gate.

Penso di poter dire con relativa certezza che se Taylor Swift vendesse un pandoro “per beneficienza”, intascandosi tutto tranne una somma simbolica concordata in anticipo, non le succederebbe niente. E questo per due motivi.

In primo luogo, questo modello di collaborazione con organizzazioni filantropiche è—purtroppo—normale nel contesto del capitalismo americano. E lo è già da tempo. The Susan Komen Foundation, un’organizzazione che promuove la ricerca sul cancro al seno, per esempio, è da anni criticata dal pubblico americano per partnerships simili. Ma nessuna delle celebrità coinvolte in queste partnership è mai stata seriamente boicottata per questa pratica discutibile, che è legale negli USA. In secondo luogo, gli/le Swifties hanno già investito troppo nella carriera della loro beniamina, e non solo i loro soldi.

Una campagna pubblicitaria che vede il wrestler ed attore americano John Cena vendere il proprio merchandising in joint venture con l’associazione benefica Susan Komen Foundation. Photo credit: Muscle & Fitness.

È proprio di questo secondo punto che voglio parlare. Per molti, la musica di Taylor Swift non rappresenta solo un prodotto da consumo, ma un’identità. Anche perchè, in America molto più che in Italia, consumo ed identità non sono due cose così distinte come dovrebbero essere. Nella patria del capitalismo globale, il consumo troppo spesso diventa un importante fattore politico ed identitario.

Pensiamo, per esempio, ai fan di Harry Potter (per massima trasparenza, devo ammettere che anche io ero una di loro da adolescente), i quali gioiosamente si dichiarano Hufflepuff o Slytherin anche se prendono le distanze da J.K. Rowling (l’autrice stessa della saga) per le sue posizioni transfobiche proprio in nome del maghetto di Hogwarts. O i cosidetti Disney Adults, che spendono migliaia di dollari per giocattoli, vestiti e vacanze nei parchi del loro brand commerciale preferito.

Un fan americano di Star Wars circondato dalla sua costosissima collezione di gadgets legati al franshise, attualmente posseduto dalla Disney. Photo credit: Great Falls Tribune.

I fan più ferventi della Swift sono caratterizzati non (o, per meglio dire, non solo) da un gusto per un determinato genere di musica, ma da una forte identificazione con i testi della cantautrice. Sentono di condividere le esperienze della Swift. Il che non è niente si strano, visto che da sempre la gente si riconosce nei testi delle canzoni.

Quello che però è peculiare di molti fan americani è la misura con cui essi riescono a perdersi dentro il consumo non tanto della sua musica, ma della sua immagine, al punto di smettere di essere solo dei “fan” per diventare degli Swifties—o dei Potterhead, o dei Disney Adults, o dei fanatici di Star Wars, a seconda dei casi.

In un certo senso, noi americani facciamo la stessa cosa pure con i politici. Kamala Harris dalla sua campagna presidenziale (fallita) del 2020 ha il suo “Khive“, una fandom tutta sua. Tim Walz, appena nominato suo vice, è diventato “America’s Dad” per il popolo di Internet. Per non parlare di Trump: nell’ultimo decennio i suoi sostenitori hanno costruito le fan fictions più bizarre attraverso varie teorie del complotto. Più di candidati con una politica da avanzare, forse ci piace vedere i nostri politici come star, celebrità o personaggi dei fumetti.

Merchandising a tema “Game of Throne” a sostegno della campagna elettorale di Kamala Harris del 2020. Photo credit:Tshirt Classic.

Non credo che fandom di questa intensità siano limitate al mio paese (basta pensare ai fan dei gruppi K-pop, ad esempio, oppure ai sostenitori di Berlusconi in Italia negli anni 2000), ma non so nemmeno quanto questa tendenza possa definirsi globale.

E qui torniamo alla Ferragni. Fino a un anno fa, l’avrei definita la più grande delle star italiane. Ma la sua caduta dimostra che forse l’unico a fondere l’identità con il suo brand è stato Fedez (il che, fra l’altro, ha portato al diss track peggiore degli ultimi anni), non i milioni di followers che la seguivano sui social.

In un senso, tutte le star sono prodotti da consumare, ma noi americani abbiamo il vizio di fare del consumo un’identità e dell’identità (più che della riflessione ponderata dei programmi elettorali) una scelta politica.

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