Come sapete, ormai, le mie informazioni le prendo dai tassì. Non è che creda necessariamente troppo a quello che i tassisti mi dicono, ma almeno restituiscono uno spaccato circa comparabile di società da cui posso estrapolare i miei piccoli dati sulla situazione dei vari paesi africani che mi capita di visitare.
Classe media tendente all’alto, conservatrice, ricordo l’autista con cui avevo un contratto in Etiopia. A furia di strapagarlo per assicurarmi che invero si presentasse al posto designato all’orario designato, nei mesi di nostra collaborazione l’ho visto passare dal vivavoce alle cuffie senza fili della Apple. Per poi scoprire che, a distanza di qualche anno, è diventato una sorta di celebrità della TV locale. E gli ho chiesto varie volte cosa pensasse della situazione, di Abiy, dell’Italia, e lui, trumpianamente, solo una cosa mi rispondeva: che il problema è la Cina.
Giunsi a Nairobi nel pieno delle proteste. L’albergo era una torre al centro della città. Dal balcone si sentivano, la mattina, gli odori delle terre che bruciavano e i suoni da una parte dei falchi, la cui ombra si ritagliava enorme sulla facciata blanda del palazzo innanzi, e dall’altra del friggere costante delle vite tredici piani sotto. Le vite di tutte quelle persone che le guardie non facevano entrare. Eppure, di veri giorni di rivolta posso confermarne solo uno. Un giovedì, mi pare?
Avevano detto all’università che forse sarebbe stato meglio restare in albergo, o venire con l’occorrente per passare la notte in aula. Io, pensando di fare cosa saggia, optai per la prima opzione. A quanto pare, i moti si concentrarono nel mio quartiere di residenza. Quindi ho dovuto a malincuore mettere in dubbio la brillantezza della mia risoluzione quando, stando fuori sul terrazzo a fumare e guardare le olimpiadi, ho cominciato, inattesamente, a lacrimare. Valutai se fosse lo sport (commozione impredicibile?), o il fumo (un cancro dell’occhio?); dovetti concedere che no, erano semplicemente i lacrimogeni elevatisi dal suolo.
Le masse rivoltose vennero a onde. C’erano momenti di silenzio completo, infranti prima sotterra da vibrazioni appena percepibili, poi una bomba, boato, luce, poi passi pesanti. Ed ecco venire la prima folata – che vuol dire macchine malmenate, che vuol dire altre bombette, che vuol dire urla, e risa, e pianti. Poi di nuovo silenzio. Eppoi di nuovo più dello stesso. Io mi rimisi a letto, aspettando che la lacrimazione terminasse.
Il ristorante al pian terreno distava una vetrata e qualche grata dalla folla. Battendo sul vetro, loro passavano, e noi mangiavamo. La cameriera sorrise amabilmente. Io non sapevo bene cosa dire.
Il giorno dopo, appunto, chiesi al tassinaro cosa stesse succedendo. Che il presidente del Kenya, William Ruto, voleva mettere una tassa su qualcosa, mi fece. Avevo capito, ma quindi la protesta era contro di lui?
Sì, sì, ma la gente non aveva capito che le cose non si cambiavano con la forza, se volevano cambiare la situazione dovevano andare a votare. Certamente, certamente. Ma quindi loro cosa volevano? Che si dimettesse William Ruto. Come mai? Perché aveva fatto malamente, non solo la tassa, tante altre porcate.
Avevo capito. Ma lui tutto apposto, sì? E la famiglia? Certo, tutto bene, loro non facevano queste proteste stupide. Loro lavoravano, quest’altra gente lavativa non era della loro. Ma quindi non avevano ragione a manifestare? Sì che avevano ragione, ma tanto che cambiava? Erano tutte scuse per non lavorare. Ruto è un mariuolo, ma pure loro assai meglio non erano. Capito, quindi tutto schifo faceva? Eh sì, giusto. Tutto schifo. Chiaro.
Così mi feci portare in università, il venerdì. Era l’ultimo giorno di proteste. Le sentinelle, chiaramente, non avevano dormito, i capelli scompigliati lo denunciavano irrispettosi, sotto il cartello: “il campus di Nairobi è libero dalla corruzione”. Passai la mia tessera, ed entrai.
Linguista di stanza in Belgio, amante del cinema horror, delle pipe da fumo, delle oltre 7000 lingue parlate sulla pianeta Terra e dell’Africa. Un pot-pourri che cerco di portare avanti come meglio riesco. Avendo passato un po’ di tempo in Etiopia, e dovendone passare pLinguista di stanza in Belgio, amante del cinema horror, delle pipe da fumo, delle oltre 7000 lingue parlate sulla pianeta Terra e dell’Africa. Un pot-pourri che cerco di portare avanti come meglio riesco. Avendo passato un po’ di tempo in Etiopia, e dovendone passare parecchio in Congo, credo di poter fornire uno sguardo da “quasi insider” sui posti che visito – tra cui, le meravigliose e sconosciute capitali sotto il Mediterraneo.arecchio in Congo, credo di poter fornire uno sguardo da “quasi insider” sui posti che visito – tra cui, le meravigliose e sconosciute capitali sotto il Mediterraneo.