“Small talks”: conoscere l’Africa attraverso i suoi tassisti

Ho esperito la categoria del tassista in numerose città africane ormai. La parabola di ciascuna di quelle persone, con le quali per brevi, intensi periodi della tua vita condividi la tua quotidianità come forse non fai con nessun altro (lo stesso individuo che ti porta a lavoro, o in giro per la città, e con cui spartisci momenti quotidiane di silenzio e ciarle) mi è sempre parsa singolarmente rivelatrice. L’interfaccia coi tassisti, ovvero le “small talks” che condividono con te ogni giorno nella miglior tradizione di Alberto Sordi, è uno specchio in quello che è reputato normale, decente; in quello, insomma, di cui, in una società, si possa parlare con uno sconosciuto in macchina.

Ricordo, per esempio, gli exploits di Berry, che nelle strade di Addis Abeba portava una Toyota grigia brillante, gestiva traffici inesplorati con le sue costosissime cuffie wireless, e grassamente discettava di quanto colpa di tutto (e intendo qui un tutto profondo, importante, metafisico, un “Tutto”, insomma) fossero, com’è ovvio, i cinesi (e intendo qui una entità profonda, importante, metafisica, “i Cinesi”, insomma). Io rimango sempre esterrefatto dinnanzi a chi è capace, col la pura e semplice potenza euristica del proprio scrutinio, di individuare le risposte più profonde ai quesiti ancestrali dell’universo: è colpa di X, questo serve per X. Perdinci. Una volta gli chiesi degli italiani. Dico, non vi staremo mica simpatici, no?

Lui mi guardò perplesso. Perché mai?, mi chiese. No no, gli italiani sono gente apposto, invece i cinesi, eh no; loro vengono, si mettono le mascherine come dei pazzi (correva l’anno 2018), fanno strade che poi si rompono, comprano tutto, sono una peste. Ma, chiedo io timidamente; ma noi siamo venuti col gas… al che lui mi guarda interdetto. Lascio perdere. Meglio che non mi vogliano linciare, che devo dire?

I caratteristici taxi blu di Addis Abeba, Etiopia.

Anche Blaise aveva risposte a tutto; il caro Blaise, che navigava l’oceano impazzito di Kinshasa con la sicurezza di chi ne conoscesse ogni anfratto, salvo poi farsi il segno della croce ogni venti secondi. Devo confessare che le soluzioni di Blaise mi parevano vagamente più comunicabili nel quadro di un intendimento lineare di storia e causalità, ma anche questa gerarchia di valore è, probabilmente, figlia di uno specchio europeo sul mondo. Per lui, colpa di tutto erano le Nazioni Unite, i prezzi impazziti all’arrivo della MONUSCO, i commerci illeciti avallati dai caschi blu nel Kivu. Blaise.

Ricordo con quanta gentilezza spiegava che il Congo avrebbe potuto riprendersi, se solo non fosse stato per l’ONU; e anche là, il Belgio (post)coloniale non compariva mai nelle variabili storiche prese in esame. Se non per parlare di calcio, credo, erano gli europei, e mi fa, tranquillo, l’Italia non ha chances contro il Belgio. E io, benissimo, buon per il Belgio… non che me ne freghi niente, intendiamoci, ma non sono mica belga io. Cose così. Marginali. Periferiche nell’economia della conversazione, nella disamina delle cause delle cose.

Ingorgo di taxi in una zona commerciale di Kinshasa, Congo.

Oggi non so che fine abbia fatto Blaise. Ma di Berry ho visto che è diventato un importante conduttore televisivo in Etiopia, si è sposato, non mi risponde più ai messaggi e io quasi quasi ci rimango male. Mi domando se la sua trasmissione sia finanziata dal governo cinese, come molte altre cose laggiù.

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