I viandanti de “La Procura”. Hotel coloniali ed incontri di margine in Congo

“La Procura”, struttura alberghiera associata alla Chiesa Missionaria di Sant’Anna a Kinshasa, Congo, è uno spazio da romanzo esotico di fine secolo (o, per meglio dire, di due secoli fa oramai). Come questo, presumo, molti altri – e di certo sulla rotta ferroviaria che da Gibuti riporta a Addis Abeba. Ricordo, per esempio, l’albergo di Dire Daua: verde, giallo, rosa, fatiscente, ricolmo di insetti. Alla “Procura” la situazione è molto migliore, i corridoi sono larghi, eppure senti qualcosa di analogo.

Il blasone simbolico di questi resti coloniali si fonda, credo, su un rapporto peculiarissimo di ombre e luci. I lunghi antri dimorano all’oscuro durante tutto il giorno, e lo riaccolgono presto il pomeriggio, quando la sera tropicale ritorna dopo poche ore di vacanza. In quel momento cambiano certo i suoni, allorché la foresta pare rianimarsi, ma quello che entra ancor più violentemente è la tenebra. Questa sembra avere una qualità organica, sapere entrare anche laddove la luce già scarseggia, e farsi gradassa, mangiarsela tutta.

“La Procura” a Kinshasa, Repubblica Democratica del Congo. Photo credit: Hotel Procure des Missions Passagers.

Un tropico che non è di necessità luminoso, per non confondere la veemenza del sole con un suo qualche correlato visivo. Il chiarore meridiano, nebbioso di fuliggine, serve a dissolvere il cervello, non a rischiarare gli occhi; serve eminentemente da intermezzo musicale (pomposo, sinfonico) tra gli atti cardinali del buio. Un’intermittenza di emicrania, e via nel fiume.

Così, questi resti coloniali, sostenevo, hanno appunto dovuto cedere alle contingenze dell’ambiente. Reti contro gli insetti. Buio contro il calore. Sale ampie per favorire il fresco. L’igienismo borghese non ebbe a capitolare neppure quaggiù, e sopravvive ancora adesso, in queste cittadelle nel mare.

Pubblicità storica di un albergo coloniale a Dire Daua, Etiopia. Photo credit: Art of the Luggage Label.

Alla “Procura” incontri sempre ogni genere di viandanti che restano appena qualche giorno, il tempo che arrivino i risultati del tampone anti-Covid per riprendere la strada verso l’entroterra, popolato di nomi che evocano verdi scuri, petroli, apocalissi tra le foglie.

Prendi il caso di tutti quelli che vanno in Kasai, a Mbuji-Mayi. La capitale ai diamanti. La città, in questo tipo di trasferte, è sempre una funzione, un ventricolo preposto a espellerti nella periferia. Così, chi rimonta al centro del paese passa per questi portali che trasudano storie di sangue, i colori silvani digradano nel nero, la preziosità altrove quasi leziosa dei minerali, delle pietre, diventa qui allegoria di una violenza che si ammanta di ricchezza, di un territorio abusato.

Immagini trite, temo, quella per esempio del bambino col diamante in mano che spilla come una ferita aperta, quella dello scandalo geologico – lo scandalo, come se pertenesse a noi stupefarci dell’abbondanza. “È uno scandalo che abbiano tutto questo”, laddove si implica una comunità compatta e altra, una massa di beni misurati secondo presunte bilance universali, e un’opinione comune innanzi alla quale non solo meravigliarsi, ma protestare. “Mi sembra normale andarlo a prendere, noi non ce l’abbiamo”. Ma divago.

Veduta aerea di Mbuji-Mayi, la cosiddetta “Città dei Diamanti”, Repubblica Democratica del Congo. Photo credit: Coulisses.net.

Volevo parlare, a titolo di esempio, delle due chirurghe che andavano appunto nel Kasai. Avevano aperto, lei, la più anziana, intendo, una clinica oftalmica dalle parti di Kabinda. E così aspettavano appunto di potersi rimbarcare per andare più a fondo nel ventre del Congo. L’attesa, così, assume una misura incerta. Il tempo è scandito dalle campane che ti richiamano al refettorio, dalle nuove facce che vedi comparire. Per chi, come me, resta un poco più a lungo, essa è infatti un piccolo album di mille comparse, come se potessi sfogliarla piuttosto che sentirla scorrere. Non immagini davvero che possa finire.

“La Procura” tende all’infinito, i suoi corridoi si allungano mentre li osservi e al contempo tu ti restringi, come dentro una prospettiva Vertigo, senonché le persone di ieri sono ora state deglutite dalla foresta, e altre sono giunte frattanto, pronte a fare la stessa fine. Senti la presenza oscura degli alberi che avanzano, col rumore assordante di diecimila, centomila, milioni, miliardi di insetti e uccelli e altri animali canterini, in improbabile lega col buio. E intanto resti, sulla sedia, dinnanzi alla tua tazza lunghissima di caffè, in drappi di bianco contro le punture, godendo dei singhiozzi della notte. “Adesso sono in Kasai”, pensi. Sono là fuori. Esposte. La signora intanto ti tende il secondo, lo prendi con distrazione ma la ringrazi. “Quando parti?”, ti fa. “Giovedì”.

Clinica oftalmica a Kabinda, Repubblica Democratica del Congo. Photo credit: Kepmàs Magazine.

I gemelli lussemburghesi rimarranno nella mia memoria come un faro di speranza. Erano entrambi sull’aereo, eleganti, di un’eleganza tramontata a fine anni Sessanta, con le loro giacche chiare di lana pesante, le cravatte tozze. Cadevano in frantumi, era evidente: gli occhi cremosi e rosa per la tarda età, la pelle disfatta, claudicavano soli, con valigette strabordanti di carte, tra i casermoni dell’aeroporto di Ndjili. Darne loro novantacinque è farli giovani. Eppure andavano, penso a mia nonna che non può neanche salire in mansarda e mi viene un tocco di fastidio.

Al contempo mi interrogo su quale necessità mai possa averli spinti in Africa centrale in solitudine, a un passo dalla morte. Forse quei fogli con cui trafficavano erano la contabilità perduta lungamente di una vecchia impresa dei tempi delle colonie; oppure portavano con sé gli ordini di qualche nuova mattanza a est, forse erano improbabili signori della guerra.

L’Areoporto Internazionale Ndjili a Kinshasa, Repubblica Democratica del Congo. Photo credit: ProdAfrica.

In Etiopia ho dato il buongiorno a gentili vecchini della porta accanto, prima di apprendere chi fossero. “Ministro e capo dei servizi segreti del Därg, avranno la carne di mezzo milione di morti sulle mani”. O forse volevano vedere chi sarebbe crepato prima, e questo era il modo più pratico cui erano riusciti a pensare.

Né riesco in coscienza a divinare perché mai chicchessia possa voler fare quello che fa, alle propaggini estreme dell’esistenza. Come “La Procura”, questa si estende all’infinito, non hai nozione che possa mai esaurirsi. Presumo, poi, che a un tratto la foresta ti mangi. Ma magari, se aspettiamo, troveremo l’eccezione.

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