Campioni di saliva. L’etica della ricerca biologica nel Congo meridionale.

L’uomo senza l’occhio era eretto al centro dello spiazzo, infervorato. Quello che mi colpisce di più non è in sé l’ardore della discussione, ma la capacità mimetica di lui che, gesticolando, convoglia il messaggio anche a chi, come me, ignora la parola usata. Colgo qualche frase, senz’altro, ma la partecipazione al dibattito non è menomata, perché, appunto, le mani suppliscono laddove la lingua vaca.

In sostanza, l’altro, l’uomo con la camicia bianca, diceva questo: Le genti pigmee, qua, sono nostre schiave (e frattanto roteava ampiamente le braccia, quieto, pari a chi fatichi a dover esprimere quello che agli occhi di ogni persona di buon senso dovrebbe parere un’ovvietà), quindi perché fare queste vostre campionature senza di noi?

Eh no, rispondeva l’uomo col cappello, arcigno nella sua espressione incisa sul volto a prugna che avrebbe potuto essere stato lasciato al dolce sole decantato dall’inno nazionale, non fosse stato per la barba che di necessità indicava una certa vitalità nelle fibre della pelle. Eh no, appunto: ci vogliono appresso, dannazione e maledizione a loro! E noi non ci stiamo. Perché, forse perché siamo alti un metro e una sega (cit.)? O perché abbiamo gli occhi storti (cit.)? No!

E così di nuovo la palla passava all’uomo senza l’occhio, che urlava, dico, urlava, e si piegava, e si genufletteva, e nel frattempo si sdegnava, mentre il popolo del paese gli andava dietro applaudendo. In tutto questo, devi immaginare me che torco il collo verso gli alberi verdoni della foresta, che si arrampicano l’uno sull’altro vomitandosi radici e rampini sui rami, sulle foglie, sui tronchi; e me, ancora, che vedo queste nuvole di farfalle che ne sortiscono come correnti ebbre, salendo e scendendo, tradotte dal vento attraverso le radure di prateria che intercorrono tra la vegetazione. “Il mosaico di foresta e savana del Congo meridionale”, medito.

Per esempio, si sa che la foresta, in quanto tale, è piena di insetti. Meno ci immaginiamo, tuttavia, che nugoli ne soffino come vento da una porta all’altra del bosco, come attraversando una improbabile casa dalla quale si debba temporaneamente uscire per andare dalla cucina al cesso, come le grotte dell’Aspromonte greco o le strisce pedonali in quel comune del Belgio dove una panchina può stare per metà in Olanda.

Così, riflettendo sulle affinità del paesaggio rurale centrafricano con i confini europei della fine della guerra, io rimango lì, sedendo, mentre costoro dibattono dei meriti e demeriti della servitù delle popolazioni indigene, cacciandosi vicendevolmente via con il vigore argomentativo della loro rabbia. Vorrei intervenire, vorrei dire questo: sono solo qui per lavoro. Invece, non dico niente, guardo, mentre l’inverosimile matrona capovillaggio mi scruta sorridente, con la sua maglietta norvegese.

Quando infine procediamo al campionamento della saliva, osservo le mie mani che si inzivano dello sputo altrui, guardo le vespe che mi gravitano intorno, guardo la clausura della stanza che mi precipita indosso, e mi sento morire. Credo tu sappia dei miei problemi neurologici: e mi pareva che da un istante all’altro potessero insorgere nuovamente, nel calore della perenne estate, tra gente a sua volta fonte di calore, insetti ovunque.

Ma per miracolo il cervello mi concesse la tregua di continuare a farmi umettare le dita dall’altrui bocca, a riempire fiale su fiale, senza perdere la vista, mentre Sabin mi aiutava coi formulari e la gente mi chiedeva soldi per sputare. Bianco, ti pare giusto che le persone sono venute qua a non farsi pagare? Non mi chiamo Bianco, dico. E chiaramente il contributo è retribuito, ecco… duemila franchi. Eh, ma che ci facciamo. Eh, lo so, signora mia, ma io non ho grandi fondi, vengo con l’università, mica sono dell’ONU. Mi guardano male.

Ovviamente non c’è accordo tra chi caccia e chi balla. Quando usciamo, tra sudore e lerciume, che cadremmo in terra tra le zecche pur di non fare un altro passo, le danze cominciano a Quindici. Altri soldi. Ma per ottenerli ci mettono sopra una seggia davanti al parco, da un lato le donne che simulano la pesca o il lutto, dall’altro gli uomini, specialmente quello col cappello di foglie, che mima il gesto di trafiggermi con una freccia come se questo, in qualche modo, rendesse ai suoi occhi più verosimile un mio versamento.

Lo fisso, e non intendo se voglia o no intimidirmi. Io, per parte mia, a onor del vero, non ci capisco più un cazzo, e riprendo tutto con il registratore senza neppure guardare bene. Come se occhio e cognizione fossero sbrigliati, e l’uno procedesse per binari diversi dall’altro.

Così, da Quindici scendiamo verso Dodici, e ripetiamo la fatica di spiegare le scemenze che avevamo già spiegato a Inongo, alla conferenza. Il capo, intanto, tiene il figliolo dormiente in braccio, mentre noi siamo improbabilmente là – e per cosa, poi? Per studiare? Mi vengono in mente talune riflessioni sulla moralità dell’arte, e mi chiedo cosa si potrebbe dire della scienza.

La cosa più importante è sempre convincere chi è al comando. Questa volta, il capo, tradotto l’infante alla madre come un pallone, solleva in alto la fialetta come a volerla esaminare contro luce, quasi vi cerchi entro la misura tangibile della sua stranezza. E così facciamo pure noi. Guardiamo l’uomo mentre se la conduce alla bocca e principia a sputarvi, e il villaggio frattanto esulta, rinvigorito nella fiducia del loro anziano e motivato, quanto mai, dagli ora tremila franchi promessi per i preziosissimi campioni di saliva.

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