In questo preciso istante mi trovo, dopo mesi, a casa mia, la mia vera casa, legalmente parlando, che è un antico convento del XVIII secolo sul lago di Garda. Nonostante sia gialla e luminosa, abbiamo un fantasma casalingo. Non ha un nomignolo, non me la sono sentita di irriderlo e, dato che non ci frequentiamo abbastanza, nemmeno di avvicinarlo con appellativi vezzosi. Probabilmente era uno dei frati che abitavano qui. Credo abbia poco più di cinquant’anni, altezza media (attuale, probabilmente alto per l’epoca), contemporaneo di Napoleone, riservato, se ne sta sempre sulle scale ma purtroppo poche volte si fa vedere.
Lo aspettavo sabato scorso quando, sfortunatamente, sono dovuta andare ad un funerale. Il mio vicino di casa preferito, nipote dell’altra mia vicina di casa preferita, morta a 102 anni, ha deciso di dire adieux al mondo crudele, giunto a dieci anni in meno della zia. Domenico dalle mani d’oro, restauratore provetto per passione, ha infatti lasciato nel mio cuore e in casa mia pezzi delle sue capacità ovunque, salvando armadi, tavoli, situazioni, comodini insieme a parecchie eco della sua voce asciutta e profonda. Non l’ho presa mica troppo bene, anzi, sto elaborando rocambolescamente il lutto nelle tre seguenti e arbitrarie fasi.
La prima, cercare sul sito internet di Elisa Motterle, guru italica del galateo moderno, la conferma che, a meno che non si sia parenti del defunto, il nero nel vestiario non va indossato al funerale, quindi abito blu, perle e niente occhiali da sole. Auto-concessione del ventaglio causa caldo infernale in chiesa anche se, sono sicura, Domenico è già al lavoro in paradiso a trattare della radica di noce per abbellire ogni stipite a disposizione.
La seconda, ingozzarsi di pensieri mortiferi per esorcizzare la controfigura di Max von Sydow che incombe. Ovvero guardando e rimirando “Tod und Leben”, ovvero “Morte e Vita” di Gustav Klimt. Infatti, il celeberrimo pittore austriaco, noto per il suo decorativismo da horror vacui iper-seducente, non solo era ossessionato dalla morte (a volte in maniera assai poco originale e tremendamente efficace) ma è doppiamente legato a questo momento personale perché, tra luglio e agosto 1913, visitò il Benaco (lo stesso anno anche Kafka, strano che il premio Tenco non sia consegnato qui) e dipinse alcune vedute locali. Soggiornò presso l’hotel Morandi di Tremosine, località famosa per i divini formaggi locali e per la vista strepitosa a picco sul lago. Lì, e presso la località di Campione, realizzò due dipinti notevoli e piattissimi, usando un cannocchiale per le sue osservazioni: “La chiesa di Cassone”…
…e “Malcesine sul lago di Garda”, quest’ultimo sfortunatamente distrutto nel 1945.
Paesaggi a parte, torniamo ai teschi. “Tod und Leben” è un grande “telero” secessionista di circa 180*200 cm che riposa esposto presso il Leopold Museum di Vienna, giusto che più giusto non si può. L’opera venne iniziata nel 1908 e terminata nel 1915 e nel 1911 vinse a Roma la medaglia d’oro all’Esposizione Internazionale, evento all’interno del ricco cartellone per celebrare i primi 50 anni dell’unità d’Italia.
Quello che possiamo oggi ammirare però è il risultato delle modifiche che l’autore apportò al pezzo originario. Gustav era probabilmente uno che rimuginava parecchio sulle cose (me lo immagino col muso e rancoroso) e in primis sulla morte, quindi nel 1915 decide di ammazzare lo spazio retrostante, e anche ogni lacerto di luminosa speranza, annichilendo lo sfondo dorato con un grigio a prova di Mogadon. Rese poi la morte da timida a birichina e ampliò il“bolo” colorato dei personaggi vivi e avvinti sulla destra. Mi fa senso notare come morte e vita in quest’opera rappresentino letteralmente la deriva dei continenti. Le due parti ritratte, infatti, al centro si incastrano pericolosamente come due pezzi di un puzzle tenuto insieme da un magnetismo banale e inesorabile, come il mantello da cattiva indossato dal teschio munito di mazza.
Travolto o meno dal dalla pioggia viennese di “pane e psicanalisi”, Klimt ci dà dentro di iconografie lapalissiane e per questo icastiche: sorrisi, mamma, abbraccio e amore, bellezze giovanili e voluttuose come edere vibranti [1]. Però poi a sinistra c’è lei, la stronzetta cupa, che ti guarda, nonostante le figure vive non la calcolino, è come se la accettassero, come il parente acido che rovina i pranzi delle feste, accettato malgrado ogni logica e senso civico – barra – del pudore. C’è dell’antropocentrica serenità? C’è quasi dell’ottimismo? Della sfrontatezza? C’è quel “nun te temo” tipico di un’auspicata maturità che fa prendere con distacco e consapevolezza il trascorrere degli anni? Secondo me c’è solo angoscia, ma quella paracula e compiaciuta, da cui Gustavo si monda attraverso le carni a occidente del quadro, così confortanti nella loro inquietudine di cui il pittore è ritrattista maestro. Probabilmente dovrei vederlo dal vivo perché quando ho incontrato Klimt in carne e olio la prima volta quasi sono svenuta o forse sono solo tanto inacidita perché ha tolto l’oro dallo sfondo che, per una bizantinara come me, è sempre un sacrilegio.
Terza e ultima fase, processare, attraversare e chiudere. Se l’opera di cui sopra è una diapositiva di un ciclo fin troppo ovvio, le “Porte del morto” sono invece un fantastico invito al superamento, con digestione, di una fase, sono definitive, per questo le trovo tutt’altro che macabre e mi piacciono. Si tratta(va) di vere e proprie porte, spesso murate o chiuse in maniera semi-permanente, più piccole e leggermente sopraelevate rispetto al manto stradale, che venivano costruite a fianco dell’entrata principale, sulle facciate delle case medievali fino circa al 1300. Si trovano prevalentemente in centro Italia (Toscana, Umbria, Lazio e Marche ma qualcuna occhieggia ancora in qualche via buia e affidabile anche in Città Alta a Bergamo) e pare che la loro origine, relativa all’Italia, vada fatta risalire alle “Porte dell’Ade” etrusche.
Nelle loro famose e stupende tombe infatti, veniva spesso disegnata, accanto all’ingresso principale, una porta non reale rappresentante un varco accessibile solo alle anime delle persone scomparse verso il mondo dell’aldilà, un passaggio dalla dimensione fisica a quella spirituale, l’ingresso del vero percorso iniziatico e chi più ne ha più ne metta.
Sull’utilizzo pratico delle porte del morto medievali esistono diverse opinioni, alcuni ritengono che fossero una sorta di uscita di sicurezza in caso di assedio cittadino, per questo poi dal ‘400 in poi spariscono, per la più agiata dimensione delle case e soprattutto per una maggiore stabilità politica ed economica generale. Altri invece (quelli a cui a me piace credere, per inciso) sostengono fosse l’apertura dedicata all’ultimo passaggio del defunto dalla casa alla morte. Infatti una volta trasportata la bara all’esterno si richiudeva l’uscio per non permettere alla signora con la falce di fare dietro front per ripresentarsi agli altri abitanti. Per questo contro queste aperture venivano accatastati mobili o altro oppure venivano murate (e smurate all’occorrenza, cosa confermata dall’irregolarità spesso riscontrabile dei metodi successivi di apertura/chiusura) per rendere impossibile che per errore qualcuno le attraversasse, inavvertitamente.
E’ significativo notare che quando Santa Chiara d’Assisi decise di cambiare vita e abbracciare il suo celeberrimo percorso spirituale, pare avesse attraversato la porta del morto della sua famiglia, gesto simbolico e incontrovertibile che non c’era modo per lei di tornare indietro. In maniera meno aulica era anche un escamotage per sbattere fuori di casa qualcuno “for ever and ever” diseredandolo. Ma questo a noi non interessa, anzi, mi preme al contrario abbracciare questa antica usanza e rispolverarla, farci passare il mio dolore per spogliarmene. Sarà per questo che appena posso quando mi trovo a Bergamo vado in via della Rocca, via Solata, accanto a San Pancrazio, dove sono ancora “vive e vegete” delle autentiche Porte del morto stanti e in splendida forma e dove lascerò il mio pensiero per Domenico, sicuramente troverà qualcosa da aggiustare e impreziosire.
NdA: L’articolo viene presentato in questa forma diversa dal solito a causa del fatto che la mia terapeuta è meritatamente in ferie e quindi non disponibile. Buona estate e grazie per la lettura.
Note
[1]“Voluttuoso” è un aggettivo che andrebbe utilizzato per tre cose: Rubens, la panna e Klimt.
Arianna Tinulla Milesi è artista, illustratrice multimediale e nasce a Bergamo prima della caduta del Muro di Berlino. Si laurea in Arte Bizantina alla Statale di Milano e successivamente in Arti Visive – illustrazione allo IED. Al centro della sua pratica c’è il disegno come forma mentis, un tramite e mai un fine. Collabora internazionalmente con spazi espositivi, gallerie e musei. Le interessano le interazioni, la memoria, il folklore e la devozione, la percezione della violenza e il concetto di limite. Dal 2024 collabora con l’Orto Botanico di Toscolano Maderno parte dell’Università di Milano, per promuovere il disegno sperimentale come approccio libero verso il mondo naturale e non.
Questo le ha fatto venire in mente che potesse essere una buona idea partire alla volta del Galles per partecipare alla Mawddach Residency e studiare le alghe, il suo terrore più grande. Arianna è membro del Council della Society of Graphic and Fine Art, l’organismo che si cura di promuovere l’arte del disegno dal 1919 nel Regno Unito e nel mondo. I suoi lavori sono esposti presso istituzioni artistiche in varie parti del mondo e non sempre vogliono tornare a casa. Ama Piero della Francesca e Paolo Uccello, la sua power couple preferita sono Raffaello e Pietro Bembo, la gamma di colori dal vermiglio al lampone, sulle labbra e nei vestiti, i capelli estremamente corti, Adrien Brody vestito da Salvador Dalì, accarezzare gli animali e cantare a squarciagola. Ha adottato un gatto di nome Pilade, ricama e si produce vestiti con alterna fortuna, legge Giada Biaggi e Hilary Mantel, ascolta Paolo Conte, PJ Harvey, Fred Buscaglione e prova a fare snorkeling nel lago di Garda. Tra i suoi appuntamenti per il 2025 ci sarà un percorso di ricerca come artista in residenza presso la School of Art & Design dell’Università di Nottingham Trent all’interno del progetto AA2A. Il suo motto è: “Adoro i piani ben riusciti” e “Ogne melù al g’ha la sò stagiù”.