“Che i merluzzi facciano il contropelo alla Regina!”
Pedestramente tradotto in italiano dall’intraducibile gioco di parole originale “Cod Shave the Queen!”, era questo il motto dei pescatori islandesi nei due decenni successivi al 1950. Decenni durante i quali essi, con i loro sgangherati navigli, attaccarono ripetutamente i pescherecci di Sua Maestà che pescavano nell’area del Nord Atlantico tra la Gran Bretagna e la remota isola scandinava.
Era accaduto che, dopo la seconda guerra mondiale, periodo nel quale la pesca era stata ferma, quel quadrante di mare fosse diventato ricchissimo di pesce, una risorsa importante nell’Europa uscita stremata dal conflitto.La neonata Repubblica Islandese (che si era appena affrancata dal dominio coloniale storicamente imposto all’isola dalla Danimarca, proprio in virtù dei cambiamenti geopolitici innestati dal dopoguerra sul continente Europeo) pretendeva che l’estensione del suo spazio di pesca arrivasse fino a 200 miglia marine dalla costa, inibendo così ai pescatori inglesi di navigare in quelle stesse acque.
Gli Inglesi non la presero bene: un paese che aveva più vulcani che abitanti osava sfidare una delle potenze vincitrici del conflitto mondiale. Persero gli Inglesi. Gli Islandesi avvertirono gli Americani che la base NATO di Keflavík, dal 1949 sull’isola, sarebbe stata sfrattata con effetto immediato se i marinai di Sua Maestà si fossero avvicinati troppo alle loro coste, e ne chiesero l’intervento. Gli Americani mediarono e le miglia di sfruttamento esclusivo di pesca per gli Islandesi divennero infine 200, come richiesto dal governo dell’Isola artica.Il fatto è che il limite delle acque territoriali a 12 miglia dalla costa, a livello internazionale, è stato fissato solo successivamente, nel 1982, dalla Convenzione di Montego Bay. Prima non era così semplice stabilire di chi fosse un determinato “pezzo di mare”.
Il comparto ittico è sempre stato di fondamentale importanza per l’economia dell’Islanda e quando, a causa dei pescherecci inglesi, gli introiti si ridussero, il governo di Reykjavík estese questo limite con dei repentini colpi di mano, dapprima (nel 1952) fino a 4 miglia e successivamente (nel 1958) fino a ben 12 miglia marittime. Agli Inglesi la cosa non andò proprio giù: i “figli di Albione” non li puoi mettere davanti al fatto compiuto quando si tratta di dominio sui mari. E così ai pescherecci di Sua Maestà fu data mano libera da Londra allo scopo di continuare a farli pescare imperterriti nell’area marittima che gli Islandesi reclamavano come propria.Per tranquillizzare i pescatori inglesi, la Royal Navy inviò loro di scorta una cinquantina tra cacciatorpedinieri, fregate e posamine. Gli Islandesi, dal canto loro, schierarono a difesa delle loro barche 6 pattugliatori. Uno di questi speronò addirittura una fregata inglese, incidente che costrinse l’ammiraglio britannico a salire a bordo del peschereccio per fare qualche prigioniero, per poi consegnarlo agli Americani di stanza in una base militare della NATO nei pressi dell’aeroporto di Reykiavik.
Per mesi vennero sparati colpi di avvertimento, scaramucce senza seguito che però tennero in allerta le Cancellerie di diversi governi. A conti fatti, si stavano fronteggiavano le marinerie militari di due Paesi alleati. Finì, come già detto, che l’Islanda minacciò di uscire dalla Nato e mandare a casa gli Americani che erano sull’isola, se non fosse stata riconosciuta, legalmente ed a livello internazionale, la “loro” nuova legge sulle acque territoriali. Ma questo ancora non bastò agli agguerriti pescatori scandinavi.Nonostante gli Inglesi avessero effettivamente rispettato i patti limitandosi a tirare su solo il baccalà previsto dalle quote loro assegnate, gli Islandesi ritenevano di pescare ancora troppo poco pesce.
Dalle originali 12 miglia marine concordate, gli Islandesi passarono a 50, e da lì a 200, forti della volontà di molti altri paesi costieri che via via si stavano dichiaravano favorevoli nello spostare le zone di sfruttamento esclusivo a 100 miglia. E perché non il doppio si chiesero gli Islandesi? E si regolarono di conseguenza. Così pescherecci islandesi e inglesi, scortati da navi da guerra, ricominciarono a fronteggiarsi. Ma stavolta gli speronamenti furono decine ed i dragamine, appositamente modificati della marineria islandese, fecero strage delle reti da pesca inglesi, provocando ingenti danni ai pescatori di Sua Maestà. Ci scappò pure un morto: un povero ingegnere islandese che stava saldando lo scafo della nave che aveva speronato una fregata inglese finì fulminato in mare con tutti i suoi attrezzi. La guerra del merluzzo si concluse con gli Inglesi che se ne tornarono in patria con le pive nel sacco. Il settore ittico inglese andò in crisi, costringendo addirittura il governo britannico a pagare i suoi pescatori perché se ne stessero in porto.Gli Islandesi mangeranno anche la testa di pecora (che rientra fra le specialità della cucina locale), ma è meglio non mettersi tra loro e il pesce che, da quelle parti, ritrovi pure effigiato sulle monete.
Non era facile per qualche migliaio di islandesi mettersi contro una super-potenza come l’Inghilterra. Gli Islandesi vivono infatti in una terra gelata e agitata dal fuoco; una terra che bolle incessantemente nel sottosuolo, più vicina ai ghiacciai dell’artico che all’Europa continentale. La abitano appena 350.000 persone, tuttora senza un vero e proprio esercito.Eppure, convinti delle proprie ragioni e ispirati dalle necessità di un’economia precaria e basata da sempre sulle risorse del mare, gli Islandesi hanno combattuto la loro piccola guerra e l’hanno vinta.
Ne sarebbero andati fieri gli antenati Vichinghi, primo fra tutti quel Leif Eriksonn, eroe protettore del Paese, che che approdò in America 400 anni prima di Colombo.
Ne sarebbero andati orgogliosi anche i narratori islandesi delle saghe del Nord, quelli che secondo Borges, attraverso quei racconti, inventarono il romanzo nel XII secolo, una scoperta che però restò sconosciuta ancora per molti secoli all’Europa continentale. E di sicuro, compiaciuti, ancora ne sorridono gli Elfi, a cui in Islanda quasi tutti credono. Compresi i pescatori.Avvocato e giornalista, coltivo un’antica passione per l’America Latina e l’Europa Orientale. Ma resto comunque convinto che non esista un paese che non valga la pena di essere visitato. E mi sono regolato di conseguenza. Siccome arriva sempre il momento in cui ti rendi conto di sapere meno di quanto pensi, mi sono rimesso a studiare e quelle quattro cose che so ho deciso di spacciarle su Deep Hinterland. Senza pretese che esse siano risolutive dei dubbi di chi legge, anche perché penso che ognuno farebbe bene a tenersi stretti tutti i suoi affanni. Alla fine, sono convinto, tornano sempre utili.