A cura di Roberta Covelli
Il Ministro Lollobrigida nei giorni scorsi, parlando di denatalità, ha dichiarato che “non ci possiamo arrendere all’idea della sostituzione etnica”, perpetuando una teoria che, anche sul sito del governo, è definita come un “mito neonazista”.
Come da prassi, di fronte alle critiche, sono arrivate scuse che non sono scuse, con il tentativo di alzare l’asticella dell’accettabile e la retorica vittimista di chi trasforma il dissenso in attacco. Lollobrigida non è nuovo a dichiarazioni discutibili, e questa volta, nel tentativo di rimediare (o ribadire, a seconda dei punti di vista), ha detto di aver sbagliato, “ma per ignoranza, non per razzismo”. Ammesso e non concesso che sia così, non è un problema meno grave.
L’ignoranza tra abbandono scolastico e analfabetismo funzionale e di ritorno
L’ignoranza è non conoscere una realtà, non comprenderla, non essere informati. Non sempre è una colpa: infatti, nonostante la nostra Costituzione preveda il dovere della Repubblica di rimuovere gli ostacoli socio-economici che impediscono l’effettiva uguaglianza delle persone, il loro pieno sviluppo e la partecipazione alla comunità, molti individui sono ancora vittime della scarsità di occasioni culturali.
I tassi di abbandono scolastico restano al di sopra della media dell’Unione Europea: nel 2021, la percentuale di giovani nella fascia di età compresa tra 18 e 24 anni che hanno abbandonato precocemente istruzione e formazione è stata del 12,7%, con dati più alti in alcune regioni (il 21,2% in Sicilia) e picchi del 30% per ragazzi nati all’estero. A questi dati deve aggiungersi la (scarsa) capacità di comprensione della realtà, a prescindere dai livelli di istruzione: secondo Treccani, la combinazione tra analfabetismo di ritorno, cioè la regressione delle competenze apprese, e analfabetismo funzionale, ossia “l’incapacità a usare in modo efficace le competenze di base (lettura, scrittura e calcolo) per muoversi autonomamente nella società contemporanea”, raggiunge la preoccupante quota del 47% della popolazione.
La parola rende eguali: diritti e sovranità del popolo
Questo è un problema democratico, perché impatta sui diritti e sulla sovranità.
“La parola rende eguali”, spiegava un educatore come don Milani. L’accesso alla conoscenza garantisce la crescita di bravi cittadini, che non sono semplicemente persone che rispettano la legge (anche i sudditi ne sono capaci), ma individui dotati di una consapevolezza politica, che conoscono i propri doveri e i propri diritti e siano pronti a esercitarli nella società. Questa consapevolezza è necessaria anche, ad esempio, per impedire la distorsione dei diritti in favori, un equivoco su cui si basa sia il potere mafioso, sul piano del clientelismo locale in assenza di servizi pubblici di qualità, sia il graduale smantellamento delle tutele sociali sul piano politico.
Un popolo sovrano deve inoltre essere un popolo in grado di capire, elaborare informazioni e prendere decisioni sulla base di valutazioni, interessi, valori. Se però manca l’informazione, o la capacità di elaborarla, la sovranità può essere facilmente distorta da chi sappia sfruttare la retorica per convincere le persone, non con la logica, non con l’empatia, ma cavalcando gli istinti più bassi.
Lo sfruttamento dell’ignoranza a fini politici
Tornando al ministro Lollobrigida e alle sue cosiddette scuse, dal discorso sembra che l’ignoranza si ponga in contrapposizione al razzismo (mentre invece spesso l’uno si nutre dell’altra), come fosse una giustificazione. Ma se “la legge non ammette ignoranza”, nel senso che non basta dire di non conoscere una norma per evitarne l’applicazione, allo stesso modo non ha senso sostenere di non essere al corrente del valore razzista di una teoria per negare il razzismo di una dichiarazione che proprio su quella posizione si basa.
Non è però questo l’unico problema della dichiarazione d’ignoranza di Lollobrigida: perché se una persona comune, cresciuta in un contesto povero, sul piano sociale, economico o culturale, non ha colpe per la sua ignoranza, l’ignoranza di un ministro non è mai innocente. Primo, etimologicamente, perché nuoce, danneggia la realtà politica, veicolando messaggi e teorie che sedimentano, entrano nel senso comune e possono anche provocare tragedie che nella storia abbiamo già visto. Secondo, perché il ruolo politico impone delle responsabilità, di cui dovrebbe essere consapevole tanto Lollobrigida, quanto chi l’ha scelto per una carica istituzionale. I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, spiega la Costituzione, e diffondere miti neonazisti non corrisponde al modello di responsabilità richiesto a un ministro, a prescindere dall’ignoranza vantata, tanto più alla luce dell’uso retorico di quell’ignoranza.
Tra rivendicazione ed emancipazione: le umili origini nella realtà e nella retorica
Osservando la propaganda della destra italiana dell’ultimo ventennio, l’impressione è che l’ignoranza sia un vanto, più che un problema, e che questa rivendicazione sia parte di una più complessa strategia retorica, che sfrutta concetti di sinistra (che i cosiddetti progressisti hanno abbandonato) per riproporli in chiave reazionaria. Ma andiamo con ordine.
Nella storia della Repubblica non sono mancati politici che hanno rivendicato le proprie radici, l’umiltà delle proprie origini. Giuseppe Di Vittorio, sindacalista, antifascista, padre costituente, era un “cafone”. Fin da bambino aveva lavorato nei campi del Gargano e, una volta in Parlamento, aveva messo a frutto quella condizione, nell’elaborazione di politiche in favore dei diritti dei lavoratori. Di Vittorio però vantava le sue origini, non la sua ignoranza: le biografie narrano di quando, poco più che bambino, decise di vendere le sue scarpe per acquistare un vocabolario, che leggeva per imparare nuove parole. L’ignoranza è una condizione dalla quale bisogna emanciparsi, una prigione culturale (e socio-economica) da cui liberarsi. E le politiche di Di Vittorio, e di altri come lui, si fondavano proprio su questa lotta per il pane e per le rose, per il lavoro e per la cultura, per benessere e libertà.
La propaganda dell’underdog in chiave reazionaria
Quando invece Lollobrigida si giustifica dicendo di aver sbagliato non per razzismo ma per ignoranza, così come quando Giorgia Meloni si definisce “under-dog” e dipinge la sua biografia come quella di una persona nata povera e derelitta che con impegno e coraggio ha superato le difficoltà, si sfrutta una retorica eroica in chiave reazionaria. Si attivano infatti, soprattutto sul piano elettorale, meccanismi di identificazione che sono del tutto privi degli elementi di emancipazione culturale centrali nella rivendicazione di classe di Di Vittorio (e di chiunque abbia letto Gramsci).
L’ignoranza è anzi rivendicata dalla destra italiana come eterno alibi, come giustificazione per le barbarità pronunciate, come ennesima scusa vittimistica per non prendersi le proprie responsabilità, dialettiche o politiche che siano. E il consenso ottenuto anche tramite la diffusione di dichiarazioni simili, razziste o ignoranti che siano, si radicalizza con il modello dell’uomo qualunque, ignorante e che può sbagliare.
Con la retorica dell’ignorante buono e la narrazione della ragazza che vince contro tutto e tutti, e che arriva al potere anche sfruttando l’archetipo junghiano della Grande Madre (donna, madre, italiana, cristiana), non si lavora per una liberazione dalla povertà, dall’ignoranza, dagli ostacoli socio-economici. Si celebra invece il successo individualistico di qualcuno che non ha alcun interesse a garantire strumenti di egemonia ai subalterni, a cui chiede il voto e ai quali mostra la propria calcolata somiglianza.
E, attraverso questa strategia comunicativa ai limiti della manipolazione, le politiche proposte rispondono a interessi che non sono certo quelli di chi, per classe o per sfortuna, non ha potuto studiare ed elevarsi culturalmente.