Fermarsi all’Alt: populismo penale e pubblica (in)sicurezza

A cura di Roberta Covelli

La notte del 24 novembre, a Milano, un diciannovenne, Ramy Elgaml, è morto vittima di un incidente con il motorino durante un inseguimento dei carabinieri. Dopo aver ignorato un posto di blocco, lo scooter su cui viaggiava, guidato da un amico a cui era stata ritirata la patente, è stato inseguito per circa otto chilometri, per poi schiantarsi contro un semaforo.

La scorsa settimana è stato pubblicato il video della bodycam degli agenti, che registra le parole dei carabinieri impegnati nel drammatico inseguimento: si sentono frasi come “chiudilo, chiudilo che cade! No, merda, non è caduto”, il tutto nonostante avessero notato che uno dei due ragazzi aveva perso il casco. Le indagini sono tuttora in corso e cercheranno di chiarire la dinamica dei fatti e le responsabilità, almeno sul piano giudiziario. Per ora, e fino all’ultimo grado di giudizio, i carabinieri indagati sono presunti non colpevoli. Lo stesso però, conviene sottolinearlo, valeva anche per Ramy, morto da presunto non colpevole.

La card di Piantedosi, tra minaccia e victim blaming

Questa presunzione di non colpevolezza risulta piuttosto sfumata nella retorica scelta dal Viminale per commentare i fatti. Il Ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, ha infatti pubblicato su Instagram una card, che riprende una sua intervista a Il Messaggero. “All’alt bisogna fermarsi. Qualunque conseguenza eventuale è meglio di rischiare di perdere la vita”. 

Pubblicare una card di questo tipo ha una funzione retorica e politica ben precisa, l’opposto della presunzione di non colpevolezza che riguarda tutti i protagonisti di questa vicenda, inseguitori e inseguiti. Piantedosi assolve, a priori, le forze dell’ordine e condanna così la vittima. Per farlo, dà un comando ovvio (fermarsi all’alt) a cui collega una conseguenza drammatica, deresponsabilizzante nei confronti di chi, avendo il potere esclusivo di uso della forza, dovrebbe essere addestrato a ricorrere a essa secondo proporzionalità e garantendo la sicurezza e la pubblica incolumità.

La card che riporta le dichiarazioni di Piantedosi pubblicata sul profilo X del Messaggero. Photo credit: Il Messaggero.

Il sottotesto della card del ministro scarica quindi la responsabilità sulla vittima (ma anche su eventuali ulteriori vittime), trasformando, sulla base del sospetto e dell’adrenalina, dei presunti non colpevoli in potenziali condannati a morte. Un victim blaming da manuale, a cui si accompagnano gli sforzi di altri membri di questo governo nel rendere sempre più impuniti, o quanto meno mediaticamente giustificati, gli eventuali crimini commessi dalle forze dell’ordine.

Lo scudo penale (anzi no) di Nordio e la distorsione del diritto

Su questo solco sta ad esempio la proposta del Ministro della Giustizia, Nordio, che ha ipotizzato una sorta di scudo penale per gli agenti in servizio. O, meglio, il guardasigilli nega di aver mai ipotizzato un meccanismo di immunità ma, non senza una certa confusione, spiega che sono in corso riflessioni su “una riforma procedurale che, lungi dal dare impunità a chi commette un reato, coniughi il diritto a una presenza di garanzie per chi un domani potrebbe essere indagato”. Tra le ipotesi, ci sarebbe una sorta di registro degli indagati da archiviare, così da evitare il “marchio di infamia” e la “gogna mediatica” di cui sarebbero vittime gli indagati, specie se appartenenti alle forze dell’ordine.

L’attuale Ministro della Giustizia italiano Carlo Nordio. Photo credit: Agenpress.

La fumosa proposta, al di là dell’aumento del rischio d’impunità per crimini commessi nelle azioni di pubblica sicurezza, rispecchia una distorsione del diritto penale in senso giustizialista e inquisitorio, che ignora le tutele di base delle procedure d’indagine. L’iscrizione nel registro degli indagati è infatti anche a tutela dell’indagato, che è così informato della sua posizione, ha diritto di difesa, di nomina di consulenti di parte, di aggiornamento sugli sviluppi delle indagini.

Certo è che se il populismo penale, l’ideologia repressiva e la retorica securitaria equiparano chi è indagato a un criminale (e chi scappa all’alt a un obiettivo assassinabile), non si può pretendere che da questa semplicistica condanna siano esenti gli agenti di pubblica sicurezza, quando accusati di un reato, pur se ancora da verificare in giudizio.

Ramy Elgaml, il ragazzo diciannovenne morto per non essersi fermato all’alt delle forze dell’ordine. Photo credit: Il Messaggero.

Non aver paura delle forze dell’ordine è un privilegio

Tornando all’ordine di Piantedosi via social, fermarsi all’alt con fiducia, accettando “qualunque conseguenza eventuale”, non è un privilegio che tutti possano vantare. A prescindere dalle responsabilità, che come anticipato saranno accertate a giudizio, le ragioni di una fuga al termine della quale la vita di un diciannovenne è stata spezzata erano correlate alla guida con la patente ritirata: Fares Bouzidi, e con lui Ramy Elgaml, non scappavano per una rapina, un furto o un reato più o meno grave, ma per il timore di un fermo amministrativo. Difficile credere, però, che l’unico timore fosse quello.

L’assunto secondo cui “se non hai nulla da nascondere, non scappi” si basa infatti su di un privilegio: la certezza che il contatto con le forze dell’ordine avverrà in modo regolare, civile, rispettoso dei diritti di chiunque, in virtù non solo della presunzione di non colpevolezza, ma anche della dignità umana. Per alcune categorie di persone, però, come stranieri, persone marginalizzate, soggetti già criminalizzati dai media o dalla politica, questa certezza non c’è. 

Posto di blocco delle forze dell’ordine che, armi in pugno, pattugliano una strada statale in Veneto. Photo credit: Padova Oggi.

Fermarsi all’alt non salva nessuno da agenti criminali e strutture omertose

A dirla tutta, la certezza di non rischiare la vita fermandosi all’alt non c’è per nessuno. Era la notte del 25 settembre 2005 quando un diciottenne fu fermato da quattro poliziotti: il ragazzo si chiamava Federico Aldrovandi e fu ucciso di botte dagli agenti. Non è l’unico caso, purtroppo, e la verità (non certo la giustizia) sulla sua vicenda è stata possibile soltanto grazie al caparbio impegno della famiglia.

La sentenza ha definito i quattro poliziotti che uccisero Federico Aldrovandi, che all’alt s’era fermato, come “schegge impazzite”. Accanto a quelle schegge impazzite, in quel caso e in troppi altri, ci sono però anche i silenzi, quando non i depistaggi, del corpo a cui appartengono gli assassini.

La violenza delle forze dell’ordine, in Italia ed ovunque, potrebbe anche essere soltanto opera di schegge impazzite o mele marce. Il problema è che, nella maggior parte dei casi, le mele marce vengono nascoste: accanto al processo a un agente che ha fatto violenza, c’è  spesso un processo bis ai colleghi e ai superiori che hanno occultato le prove, falsificato i rapporti, corretto sui documenti gli errori che erano stati commessi sulla pelle altrui.

Il segreto necessario alle indagini finisce per diventare un mistero corporativo, un fight club di cui non bisogna parlare, una cesta di mele nutrite di cameratismo e omertà, in cui le marce vengono nascoste e rischiano così di intaccare l’intero raccolto.

La propaganda securitaria non è davvero sicura

Questo è il contesto in cui siamo immersi: se il sistema protegge chi abusa del potere, al punto da adottare, persino ai più alti gradi istituzionali, una retorica che pone l’inseguimento pericoloso, il pestaggio, la tortura quali forme accettabili di esercizio del potere (“lasciateli lavorare”), non è possibile distinguere l’agente corretto da quello violento. E, in una realtà simile, la paura che un incontro con la pubblica sicurezza possa degenerare non rivela la colpevolezza di chi scappa, né rappresenta una qualche forma di paranoia: è piuttosto il frutto di un calcolo basato su precedenti concreti.

Una democrazia non può esistere senza fiducia nelle istituzioni, e la fiducia non si costruisce sull’impunità, giuridica o retorica che sia. La propaganda securitaria sicura non è: fomenta i violenti assicurando un aprioristico supporto alle forze dell’ordine, comunque si comportino. E questa già inquietante retorica si accompagna a scelte normative, purtroppo non solo dell’attuale governo di estrema destra, che hanno allargato ed estendono ulteriormente l’ambito in cui la discrezionalità poliziesca può agire.

Tra riforme e repressione: la discrezionalità poliziesca è un problema democratico

Aggravanti per manifestazione, sorveglianza speciale, zone rosse, DASPO urbani, oltre ai continui tentativi di introdurre nuovi reati contro gli ecoattivisti e in generale i dissidenti, arrivando persino, con il DDL 1660 a prevedere la criminalizzazione di azioni nonviolente, sono lo specchio di una concezione repressiva di sicurezza e ordine pubblico.

Si tratta spesso, tra l’altro, di scelte che aumentano il potere discrezionale delle forze dell’ordine senza introdurre strumenti efficaci per monitorare e sanzionare eventuali abusi. Non esiste, infatti, un sistema di identificazione chiara degli agenti, come invece avviene in altri paesi, né si sono rafforzati i meccanismi di trasparenza e responsabilità: al contrario, si ragiona su forme di immunità di fatto per gli operatori della sicurezza. In questo scenario, i cittadini devono fidarsi ciecamente di un potere che, quando sbaglia, difficilmente è chiamato a risponderne.

L’espansione della discrezionalità poliziesca, con l’anticipazione della repressione e senza un rafforzamento della trasparenza, non solo aumenta il rischio di abusi, ma mina la fiducia nelle forze dell’ordine e della democrazia che dovrebbero rappresentare. Chi esercita la forza ha un potere, a cui deve accompagnarsi la responsabilità di agire in modo proporzionato, responsabile, rispettoso dei diritti umani, come doveroso in un sistema socialdemocratico. Perché il vero pericolo non è chi protesta o chi fugge per paura, ma chi abusa del proprio potere senza timore di conseguenze.

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