Dicevamo, le statue[1]. Le vergini sono bianche, possibilmente illibate. Le donne raffigurate nella classicità greco-romana sono pudiche, si coprono, anche se sono potentissime, temibili dee che tuttavia rispettano gli occhi del patriarcato dei patriarcati (male gaze con i triglifi), quello della Grecia classica.
Qualcosa di molto diverso, e molto più cool, veniva invece creato presso, ad esempio, i Minoici e la Civiltà dell’Oxus (circa 2200-1700 a.C.), nel Neolitico, di cui si intravedono già radici solide nel Paleolitico. Penso alle strutture sociali comunitarie di quelle civiltà matrifocali, rimosse dalla scrittura e dal nero sul bianco.
Fra il 1963 e il 1980, un’archeologa lituana di nome Marija Gimbutas esplorò i siti neolitici dei Balcani nell’area dell’Europa sud-orientale. Luoghi già indagati dai suoi colleghi russi e contestualmente ignorati perché pubblicati nella loro lingua madre e mai tradotti. Questa cultura neolitica dei Balcani si estendeva dall’Ucraina all’Egeo e per ampie parti dell’Europa meridionale e occidentale nel periodo tra il VII e il III millennio a.C., ai tempi in cui la civiltà nomade di cacciatori e raccoglitori diventò una civiltà agricola, invogliata anche dalla mitezza del clima. “Antica Europa”, così la chiama Gimbutas che, basandosi sui suoi ritrovamenti archeologici, propose una conclusione molto interessante sul nostro passato neolitico continentale facendo riferimento a pattern abitativi, strutture sociali, arte, religione e la natura dell’alfabetizzazione. Nella sua trilogia di libri dedicati alla Dea argomenta le molteplici differenze tra quella che lei chiama il sistema della cultura “Old European”, ginocentrica, e quella androcratica dell’Età del Bronzo – indoeuropea.
Quest’ultima, cosa che già sappiamo e patiamo, si imporrà sulle culture matrifocali con la forza, annientandone la memoria, non avendo quella utilizzato la scrittura (come da noi intesa, almeno). Una società patriarcale sostituisce le storie (orali, il folklore) con La Storia, scritta, cancella le divinità femminili (pacifiche e tendenzialmente private, minime anche nelle dimensioni) con un pantheon di divinità guerriere, che lottano per il predominio, impegnate in un perenne, e assai patetico, guerreggiare tra loro.
Tuttavia, che dio benedica la gente che scava, Gimbutas scoprì non solo che nel passato civiltà europee a prevalenza femminile avessero tratti in comune con quella dell’Asia Minore (gli aspetti agricoli e pacifici, il solco matrifocale) ma ne disvelò e formalizzò i culti e l’arte. Si trattava infatti di comunità devote principalmente a divinità femminili solo affiancate da alcune figure bambine maschili. Tra l’altro, gli studi di Gimbutas hanno portato alla luce circa tremila figure in un’area che va dalla Francia del Sud alla Siberia e scolpite tra il 27.000 e il 25.000 a.C. Sono in corno o osso. Sono stupende, un vero e proprio mondo[2].
I Subsonica anni fa cantavano: “Paura del diverso, paura del possibile / Paura che diverso sarebbe anche possibile”. Ci ho pensato durante almeno un terzo della lettura del libro di Bompiani [3] che cita proprio Gimbutas e “La civiltà della Dea”. Interessante notare come la famigerata “Venere Ligabue” non sia da molti considerata e associata alla civiltà della Dea ma sempre ad una donna, ad una bellezza.
Pazzesco come ancora alcuni fatichino a riconoscere la divinità prominente in un essere con tratti femminili. Una distinzione ancora, insomma, davvero imperdonabile.
Un tratto percepito come “dolente”, in una società occidentale orientata pateticamente alla produttività, è quello della sinusoide umana, profondamente irregolare e altamente ciclica, senza che, tuttavia, mai si ripeta. Una delle manifestazioni secolari e universali di questo aspetto è il ciclo lunare (già l’idea di qualsiasi ciclo che non sia produttivo fa venire la dermatite ai produttivy), percepito come femmineo in maniera inequivocabile e raccontato magistralmente da Meg in musica e da Paula Rego in visioni.
Il mai banale, se considerato nella sua singolarità, accostamento fra luna e femmineo, ciclo mestruale e di rivoluzioni notturne in ogni senso, è un totem, un tandem direi che pedala da solo al buio. Un binomio tristemente visto da molti come inequivocabilmente legato al dolore, mentre io dal mio sasso-casa lo trovo intrinsecamente avvinto alla democrazia perché unito al flusso, all’acqua e in acqua. Qualcosa che sapete bene se amate nuotare o galleggiare, si è tutti molto più soggetti ai movimenti dell’elemento in cui si è immersi rispetto alla propria volontà di movimento. Ai liquidi bisogna essere educati, bisogna rivolgersi loro come a qualcuno che si rispetta. Come si dovrebbe fare sempre, con chiunque e qualunque cosa, in fondo.
Ma dicevamo. Nel 2004 Meg, sublime artista partenopea, allora famosa prevalentemente per il suo passato da cantante dei 99 Posse, produsse un album meraviglioso dal titolo “Olio su tela”. Alla me ventenne di allora sembrò una brulicante rivelazione di sentimenti e soprattutto di preziose direzioni, di orgoglio personale legato non alla propria terra in senso campanilistico, ma alla Terra e al contesto elementale come fondante. Per prima Meg mi ha fatta sentire felicemente particella. Uno dei brani più rappresentativi è, in questo senso, “Notte Bianca”, un vero carnoso inno alla notte e alla Luna.
“Sfera di bianca pietra/sospesa resti/notturna e silenziosa/incantesimo sei/della magia piu’ pura e millenaria/di tempo e spazio sei signora/scultrice di desideri stellati/poetessa di sogni irrealizzati”. Nelle sue parole c’è l’aspetto dell’accoglienza, della luminosità sì, ma non imposta. Non è un femminile a cui è imposto un multitasking di accoglienza e cura, è una divinità che si autodefinisce. C’è l’ascolto in privato ma allo stesso tempo corale, senza confronto, c’è l’accettazione, uno dei tesori più grandi per la maturità di frutti e di umani.
Meg continua: “Umana dea/dolce empatia/lacrima sibillina/sorriso di gatto nel blu
illumini di latte il mio cammino/sorella sei tu”. In pochi versi l’artista riesce a condensare con una leggerissima ninna-nanna quello che noi esseri del XXI mo secolo e qualcosa vediamo e ci aspettiamo nella e dalla Luna.
Visivamente il “bianco occhio del cielo”, la “goccia di miele” che splende nella notte è proprio la luce che illumina gran parte del lavoro di un’enorme artista da poco scomparsa, Paula Rego. Quello su cui, in questo momento, mi preme concentrarmi, sono alcune delle sue incisioni, in particolare i riferimenti a Lewis Carroll.
In “The Bakers Wife” (esemplare 14/75), conservata presso l’Irish Museum of Modern Art di Dublino (IMMA), l’inchiostro fa echeggiare i riferimenti ad Alice e a tutto il mondo onirico e illustrativo che ruota intorno a lei e che lei stessa genera. La visione viene esasperata da due tipi di dimensioni: quelle ridotte fisiche dell’opera (33.5 x 26.3 cm) e quelle delle proporzioni tra i personaggi. Rego si serve delle tecniche dell’acquaforte e dell’acquatinta combinate per plasmare e manipolare il buio, da sempre regno di ogni tipo di incisione, manifestato interiormente, le tinte più elegantemente genuine del piano infinito dei sogni. Ma l’autrice si serve anche dell’immaginario dell’infanzia, quello delle filastrocche, per esasperare il contrasto tra qualcosa di familiare e al contempo estremamente disturbante, soprattutto se trapiantato in ottica adulta. Il volto della donna dice tutto e le sue calze a righe sottolineano non solo le sue gambe stancamente forti, ma rimandano alla storia di quel tipo di tessuto che, da quello degli emarginati diventerà, anche grazie a Coco Chanel, distintamente effortlessly chic (essere o apparire eleganti senza sforzo).
Rego è stata maestra nell’indagare il buio, sia nella tecnica che nel concetto e nell’emotività. Ha preparato le superfici e le materie dove la luce della luna si è posata a illuminare, proteggere e nascondere senza giudizio o pietà. Rego ha contribuito potentemente a scollegare il buio dalla colpa senza bruciare nulla, ha saputo insomma giocare col nero.
Paula Rego lavorava per terra.
Note
[1] In copertina: Venere Ligabue, retro.
[2] Scrive Ginevra Bompiani in “L’altra metà di Dio” (2019, Ed. Feltrinelli): ”Al culto della Dea officiano le donne, ma sebbene occupino una posizione dominante tanto in casa che nella società, non vi è traccia di un sesso sull’altro, piuttosto di pacifica convivenza. Una ricca produzione di oggetti in ceramica e statuette, della Dea in tutte le sue forme e funzioni è stata trovata ovunque, nei templi, nei laboratori, nelle tombe. Questa scoperta ha aperto la possibilità che la nostra civiltà sia stata preceduta da altre, assai diverse, e che la cultura attuale, prona all’idea di progresso e di sfruttamento delle risorse, non sia né un destino né una natura.”
[3] Vedi nota 2.
Arianna Tinulla Milesi è artista, illustratrice multimediale e nasce a Bergamo prima della caduta del Muro di Berlino. Si laurea in Arte Bizantina alla Statale di Milano e successivamente in Arti Visive – illustrazione allo IED. Al centro della sua pratica c’è il disegno come forma mentis, un tramite e mai un fine. Collabora internazionalmente con spazi espositivi, gallerie e musei. Le interessano le interazioni, la memoria, il folklore e la devozione, la percezione della violenza e il concetto di limite. Dal 2024 collabora con l’Orto Botanico di Toscolano Maderno parte dell’Università di Milano, per promuovere il disegno sperimentale come approccio libero verso il mondo naturale e non.
Questo le ha fatto venire in mente che potesse essere una buona idea partire alla volta del Galles per partecipare alla Mawddach Residency e studiare le alghe, il suo terrore più grande. Arianna è membro del Council della Society of Graphic and Fine Art, l’organismo che si cura di promuovere l’arte del disegno dal 1919 nel Regno Unito e nel mondo. I suoi lavori sono esposti presso istituzioni artistiche in varie parti del mondo e non sempre vogliono tornare a casa. Ama Piero della Francesca e Paolo Uccello, la sua power couple preferita sono Raffaello e Pietro Bembo, la gamma di colori dal vermiglio al lampone, sulle labbra e nei vestiti, i capelli estremamente corti, Adrien Brody vestito da Salvador Dalì, accarezzare gli animali e cantare a squarciagola. Ha adottato un gatto di nome Pilade, ricama e si produce vestiti con alterna fortuna, legge Giada Biaggi e Hilary Mantel, ascolta Paolo Conte, PJ Harvey, Fred Buscaglione e prova a fare snorkeling nel lago di Garda. Tra i suoi appuntamenti per il 2025 ci sarà un percorso di ricerca come artista in residenza presso la School of Art & Design dell’Università di Nottingham Trent all’interno del progetto AA2A. Il suo motto è: “Adoro i piani ben riusciti” e “Ogne melù al g’ha la sò stagiù”.