Non è ancora finito questo “gennaio silenzioso e lieve” del 2024, e già si contano svariati suicidi nelle carceri italiane. Stefano, per esempio, era un giovane ventisettenne recentemente impiccatosi nel carcere di Padova. Si trovava là perché condannato per i reati di violenza privata e resistenza a pubblico ufficiale. Si legge che frequentava la biblioteca, leggeva libri di filosofia e scriveva poesie d’amore. Sarebbe uscito tra cinque anni.
Leggendo la sua storia, mi viene in mente in modo automatico – e mi vergogno un po’ del paragone incongruo- l’aumento dell’età pensionabile voluto dai vari governi che si sono succeduti negli ultimi anni: ben oltre un quinquennio. C’è infatti chi vive la permanenza coatta al lavoro come una situazione segregante, al pari di un carcere, di una permanenza in una struttura sanitaria o in un centro di accoglienza.
Del resto, nell’ordinamento giuridico le strutture segreganti non sono tipizzate: in primis viene fatto l’esempio della detenzione nelle carceri ed istituti di pena, ma a questa categoria legale appartengono anche le missioni nelle forze armate, le degenze in ospedali e in case di cura, i centri di accoglienza per migranti. Ma la fattispecie è in continua evoluzione, fino a ricomprendere i centri di reinserimento sociale per tossicodipendenti, i collegi, le case di riposo, i convitti e via dicendo, all’interno di un disegno rivolto prospetticamente all’incremento, a prescindere dalle previsioni normative, con il mutare dei ruoli e degli strumenti offerti dal cosiddetto Stato sociale.
Matteo, di soli 23 anni, si è invece impiccato con il lenzuolo nel bagno della cella dove era in isolamento all’interno del carcere di Ancona. Era affetto da una grave forma di bipolarismo, quale patologia psichiatrica accertata. Ho conosciuto anch’io un detenuto probabilmente affetto da bipolarismo: in passato è stato un personaggio difficile; talora estremamente pericoloso e aggressivo, talaltra inerme. Mi risulta che in passato sia stato posto nel reparto dei soggetti a rischio, in una di quelle celle dove i letti vengono inchiodati al pavimento. Oggi mi pare sereno e gentile, come se il suo sospetto bipolarismo sia bloccato in un recesso della mente, silente e forse forgiato da un senso di sopravvivenza di cui, evidentemente, era dotato sin dalla nascita e che lo ha salvato.
Ormai è invecchiato in carcere ed è una colonna portante della struttura, una specie di istituzione. Sembra quasi impossibile anche solo ipotizzare che un giorno uscirà per il fine pena: mancherà a tutti, ai compagni, alla Polizia, ai volontari, al personale della struttura. Uscirà da quelle mura, con la sua barba bianca, senza mai aver mai visto prima la luce del cielo, se non dal cortile, durante l’ora d’aria. E’ l’unico detenuto che in questi lunghi anni non ho mai visto andar fuori, neanche per un permesso.
Eppure il reato per cui è recluso non è particolarmente pericoloso, né fonte di allarme sociale, né foriero di recidiva. Evidentemente nella decisione di tenerlo dentro per sempre, deve aver giocato un ruolo non irrilevante il suo sospetto bipolarismo, che in passato lo ha reso ondivago ed incerto. Per tutta la vita ha visto uscire gli altri, i suoi compagni. Li ha visti ottenere permessi, il lavoro all’esterno, l’inserimento in programmi di recupero. Io non so se ce l’avrei fatta: forse avrei tentato il suicidio.
Alexandro, di 33 anni, è stato ritrovato senza vita nel carcere napoletano di Poggioreale, il più affollato di Europa. Era tossicodipendente ed ancora ci si chiede se si sia veramente voluto suicidare oppure se gli sia accaduto qualcosa di anomalo o, quantomeno, qualcosa di non monitorato dall’istituto che lo avrebbe dovuto contenere. E sempre a Poggioreale si sono recentemente suicidati Andrea, di 33 anni, e Mohmoud, di 38 anni.
Ancora a Poggioreale si è tolto la vita un uomo di 36 anni. Sarebbe uscito tra un mese. Aveva una situazione personale molto complessa: la famiglia lo respingeva. Forse non sapeva dove andare a dormire e dove trovare da mangiare. Oppure temeva l’ennesimo rifiuto da parte della società civile; ancora un ulteriore fallimento personale da sopportare. Forse era terrorizzato dal giudizio della gente per l’errore commesso; un errore che può essere definito una trave e non una pagliuzza, ma che, comunque, non merita il lancio della prima pietra. E, così, semplicemente, a un mese dal fine pena non ha più trovato in sé la ragione per lottare. Ed è morto.
E in un carcere si è trasformato il ricovero ospedaliero per un giovane che, solo qualche giorno fa, si è tolto la vita buttandosi dalla scala antincendio di una scuola romana. Una vicenda crudele, come tutte quelle originate da futili motivi. Uno studente, nel corso di una manovra con la minicar, fa inavvertitamente cadere un motorino, sotto gli occhi irati del suo proprietario. Questi lo insegue e lo percuote fino a ridurlo in fin di vita, per poi fuggire lasciandolo esanime per terra. Da allora iniziano due anni di immensa sofferenza per il giovanissimo studente: fuori e dentro gli ospedali, continui interventi chirurgici per ricostruire un volto deformato ed una psiche martoriata. E infine il gesto estremo: porre termine al poprio calvario fisico e mentale cercando il nulla al termine di una scala.
E’ di pochi giorni fa la notizia che, nel carcere di Verona, si è tolto la vita un uomo di origini siciliane. Aveva 56 anni. L’hanno trovato all’alba, il momento peggiore. Chissà perché la maggior parte dei sucidi avvengono statisticamente al preludio del nuovo giorno, quando “’a nuttata” è passata e la pioggia sembra essere cessata. Il suicidio di questo detenuto ha fatto notizia perché era recluso nella stessa sezione in cui si trova il noto Filippo Turetta, assurto agli onori della cronaca macabra per l’omicidio della fidanzata, Giulia Cecchettin.
Una vicenda, quella di Turetta, divulgata in modo virale, con sdegno sociale e condanna all’unanimità. A fronte di un fatto del genere non sono certamente tra quelli che difendono chi commette crimini di questo tipo: chi ha sbagliato così gravemente deve pagare, come giustamente previsto dalla legge. Ma la gogna mediatica non aiuta: non aiuta il colpevole e non aiuta i colpevolizzanti. Costruisce, piuttosto, una spirale d’odio ed una sorta di lapidazione collettiva che poco ha a che vedere con la giustizia. Non restituisce la vittima alla sua famiglia, non contribuisce al recupero sociale del colpevole, e di sicuro non contribuisce alla dignità personale di chi, spettatore della cronaca in TV o sui social media, partecipa al linciaggio. E’ come se, scagliando pietre al reo, si ricercasse una sorta di appagamento, una soddisfazione malata che trova radice in un’esigenza di consenso comunitario e, forse, di visibilità pubblica.
Ma soffermiamoci ancora sugli invisibili, su chi non fa notizia, su coloro che vivono ai margini della storia, in eterne periferie dell’anima e dello spazio. E non lo facciamo per bontà d’animo; lo facciamo per egoismo. Perché un po’ invisibili, a torto o a ragione, ci sentiamo anche noi, autori e lettori di questi brevi articoli che vengono pubblicati su Deep Hinternland. Spesso siamo quelli che appaiono poco, che non suscitano particolare interesse, che si siedono nelle ultime poltrone perché non hanno mai posti riservati. Siamo quelli che non hanno figli da mostrare, con orgoglio. Quelli che non sanno, quando moriranno, chi li seppellirà.
E tra gli invisibili non ci sono solo stupratori ed assassini. C’è anche chi lavora, con costanza e spirito di servizio. Tra i suicidi in carcere in questo preludio d’anno, infatti, c’è anche un agente di polizia penitenziaria. Vorrei conoscere la sua storia, il suo nome, le sue motivazioni. Purtroppo però, ho saputo di questo evento solamente leggendo le statistiche ufficiali, che non fanno nomi. Le cronache mondane, i social e i rotocalchi, proprio gli stessi che richiedono misure di sicurezza sempre più repressive, non si sono occupate di questa notizia, rendendola invisibile.
Proprio ieri un detenuto mi ha detto che nel suo reparto sono ci sono 180 reclusi. “E sai quanti poliziotti ci sono a controllare tutta questa gente?”, ha proseguito. “C’è un unico assistente”. Ho sbarrato gli occhi: non ci potevo credere. “Ma fanno i turni?” ho chiesto. “No” ha risposto il detenuto “L’assistente è presente cinque giorni a settimana e prova a gestire tutti noi 180. Ma non ce la fa. Non ce la fa mai”.
Un invisibile, questo assistente di polizia penitenziaria, a cui penserò ogni volta in cui mi lamenterò per il carico di lavoro. Anche perché lui continua e non demorde: lavora, forse confidando nell’assegnazione al reparto di un collega, auspicando una sostituzione, una luce di speranza. Come un minatore sotterraneo, che continua a picconare in una claustrofobica caverna. Più forte di chi cade, almeno per ora.
E per Stefano, Matteo, Alexando e per tutti gli invisibili, per coloro su cui il nostro sguardo non si soffermerebbe mai, per gli uomini e le donne rannicchiat* su sé stess* per strada, per chi continua silenziosamente a lavorare e per chi non ce la fa, colpevoli o giusti, guardie e ladri, santi e dannati, voglio intonare il Canto XIII della Divina Commedia. Quello in cui Dante incontra lo spirito di Pier Delle Vigne, forse la persona più famosa ad essersi tolta la vita in carcere nella storia del nostro Paese e di cui gli invisibili di oggi sono degni eredi.
“L’animo mio, per disdegnoso gusto, credendo col morir fuggir disdegno, ingiusto fece me contra me giusto”.
Forse non a caso, era proprio l’alba quando Dante e Virgilio entrarono nel settimo girone dell’Inferno, quello dei suicidi.
Appassionata di diritto ma, soprattutto, innamorata della gente, ho redatto oltre trenta pubblicazioni scientifiche e collaborazioni manualistiche. Ho scritto due libri: il diario di un cammino con i detenuti ed una monografia su detenzione e religione. Vivo tra Roma, Milano e la Toscana e canto, per hobby, in un coro polifonico di musica popolare.