Su molti mini schermi in questi ultimi giorni dell’anno, dall’identità indefinita, si intravedono dei puzzle di nove spazi quadrati identici, riassunto degli ultimi dodici mesi formato Instagram. Personalmente cerco di evitare questo rito perché, mi chiedo, cosa mai potrò (tra)lasciare? Proprio nel timore di non essere esaustiva mi ritrovo a rendermi conto di non avere abbastanza da dire, almeno non di quello che ritengo degno di uscire dalle mie estremità espressive. Allora, mi son detta, quest’anno scelgo un’immagine, una sola, non necessariamente realizzata da me ma riassuntiva e magari di buon auspicio. Bene, la sublime effige è la seguente, un celeberrimo ritratto di Raffaello, quello (che segue) di Guidubaldo (o Guidobaldo) da Montefeltro.
Quest’opera divide, chi la adora e chi la aborre. Ad alcuni risulta melensa nella sua “sobrietà” (dove? Con quei picchi solidi d’oro sui risvolti? Siete parenti di Anna dello Russo per caso?), nella sua leggerezza marziale e distaccata, per il volto etereo di un uomo che ne ha viste di tutti i colori e che non mostra i denti, nemmeno metaforicamente, che con eleganza non ci ricorda tutte le randellate del destino a sé e al suo ducato. Eppure lui ha avuto a che fare coi Borgia, è stato un valente condottiero che non si è risparmiato in battaglia, anche quando assoldato da altri. Accorto, poi, nel capire di aspettare Giulio II prima di tornare a casa, ché “Col duca Valentino non si sa mai”, pare lo avesse scritto di suo pugno, in una lettera alla moglie Elisabetta Gonzaga duchessa di Urbino [1] .
La storia ci ha consegnato un G. impotente, l’ultimo Montefeltro ad essere duca di Urbino, assai stimato dai contemporanei nonché dai suoi sudditi. Fu infinitamente amato da sua moglie, una donna intelligentissima, tosta, abile, potentissima e assai bella che, sempre Raffaello, ritrasse magistralmente. La coppia, presso la Serenissima, conobbe e apprezzò la compagnia di molti letterati ed artisti (chi mai può stare male a Venezia? E anche se stai male ci stai comunque bene, sicuramente si tratta di un male decadente e di sostanza, possibilmente broccato) e si fece(ro) voler bene anche lì. Egli ebbe comprensibili problemi di soldi e di gotta (ancora più comprensibili di quelli di soldi) e pure di gossip, figurarsi, uno così bello sposato con un genio.
Eppure quest’uomo così etereo, ai miei occhi frainteso dai più, che mi immagino giocare col volano mentre discorre con Poliziano nell’Empireo, in questa rappresentazione su tavola, lo sento così vicino e non giudicante.[2] Forse perché incarna un mio desiderio, il pudore, manchevole di quello che il mondo si aspetta da lui (esplicita potenza virile da essere maschio che provvede alla discendenza, come io non ho voluto prima e non potrei nemmeno produrre fisicamente ora), deborda della sprezzatura che è forse l’unica cosa che mi sento coscientemente di desiderare insieme ad una fornitura vitalizia di Laurent-Perrier e allo smalto che non si sbecca mai. Forse in qualche modo collego a lui e a Elisabetta l’amore fra Virginia e Leonard Woolf, un alito davvero unico e onesto, o quello raccontato da Nigel Nicolson in “Portrait of a Marriage” tra i suoi genitori, Vita Sackville-West e Harold Nicolson.
Probabilmente mi faccio solo abbindolare dalla perfezione sospesa e crepata che questo dipinto emana senza essere consolatoria, dal quarto di paesaggio cristallino, bilanciato meglio di un’equazione, da quelle stoffe surrealmente perfette, da lui un po’ rigido, quasi infastidito che, nella sublimazione di quest’uomo magnifico almeno quanto questo ritratto, lo rendono umano insieme alla lieve irregolarità degli occhi e ad un’evidente rassegnazione, piena di grazia.
Lui, per me, è colui che ha trovato la sedia confortevole nella stanza scomoda (nostro dovere e fonte di salvezza), dove non vorresti nemmeno passare eppure ci devi sostare e non sai per quanto. Situazione così attuale, di questi tempi. Non hai idea di come finirà e nemmeno quando eppure sei lì, semi inchiodato anche se qualche memoria di te è già avvezza all’impiccio e allora cerchi di aspettare, con dignità imperturbabile. Magari stai indispettendo il mondo impaziente e arrabbiato attorno ma non te ne curi perché di fronte hai Raffaello o perché non ricordi che giorno è e ti rendi conto che il
tempo, forse una delle più grandi sviste umane, nelle pennellate rinascimentali, non conta niente, soprattutto fuori dalla tavola dipinta.
Note
[1]: Boutade dell’autrice.
[2]: Sarà il “berretto” che ho cercato malamente di riprodurre con l’uncinetto nelle eterne notti pandemiche con un filo leggermente brillante (vedasi il ritratto dello stesso autore di Baldassarre Castiglione, goffamente molto più simile al risultato finale. Tra l’altro grandissimo ammiratore diElisabetta Gonzaga).
Arianna Tinulla Milesi è artista, illustratrice multimediale e nasce a Bergamo prima della caduta del Muro di Berlino. Si laurea in Arte Bizantina alla Statale di Milano e successivamente in Arti Visive – illustrazione allo IED. Al centro della sua pratica c’è il disegno come forma mentis, un tramite e mai un fine. Collabora internazionalmente con spazi espositivi, gallerie e musei. Le interessano le interazioni, la memoria, il folklore e la devozione, la percezione della violenza e il concetto di limite. Dal 2024 collabora con l’Orto Botanico di Toscolano Maderno parte dell’Università di Milano, per promuovere il disegno sperimentale come approccio libero verso il mondo naturale e non.
Questo le ha fatto venire in mente che potesse essere una buona idea partire alla volta del Galles per partecipare alla Mawddach Residency e studiare le alghe, il suo terrore più grande. Arianna è membro del Council della Society of Graphic and Fine Art, l’organismo che si cura di promuovere l’arte del disegno dal 1919 nel Regno Unito e nel mondo. I suoi lavori sono esposti presso istituzioni artistiche in varie parti del mondo e non sempre vogliono tornare a casa. Ama Piero della Francesca e Paolo Uccello, la sua power couple preferita sono Raffaello e Pietro Bembo, la gamma di colori dal vermiglio al lampone, sulle labbra e nei vestiti, i capelli estremamente corti, Adrien Brody vestito da Salvador Dalì, accarezzare gli animali e cantare a squarciagola. Ha adottato un gatto di nome Pilade, ricama e si produce vestiti con alterna fortuna, legge Giada Biaggi e Hilary Mantel, ascolta Paolo Conte, PJ Harvey, Fred Buscaglione e prova a fare snorkeling nel lago di Garda. Tra i suoi appuntamenti per il 2025 ci sarà un percorso di ricerca come artista in residenza presso la School of Art & Design dell’Università di Nottingham Trent all’interno del progetto AA2A. Il suo motto è: “Adoro i piani ben riusciti” e “Ogne melù al g’ha la sò stagiù”.