Il “Grande Squeeze Out” e il paradosso del progressismo europeo

Il “Grande Squeeze Out” e il paradosso del progressismo europeo

I partiti progressisti europei nascono con la nobile vocazione di tutelare chi vive del proprio lavoro e promuovere l’equità sociale. Eppure, oggi ci si chiede perché, una volta al governo, sembrino spesso adottare politiche che penalizzano proprio quei ceti. La risposta affonda le radici in tendenze economiche profonde, ben descritte dal concetto di “Grande Squeeze-Out”.

Questa domanda nasce dall’osservazione di politiche che portano a compressione dei salari reali, aumento della pressione fiscale su lavoro e consumi, e riduzione dei servizi pubblici. Il rischio è la perdita di credibilità e consenso per il messaggio progressista, come esemplificato dalle recenti scelte del Labour britannico, un fenomeno diffuso in Europa.

Grafico Eurostat sulla percentuale di popolazione a rischio povertà in Europa nel 2019
La percentuale di popolazione a rischio di povertà o esclusione sociale rimane una sfida significativa in molti paesi europei, indicando che la crescita economica non si traduce automaticamente in benessere diffuso. (Fonte: Eurostat, dati AROPE 2019)

Il contesto: Regole fiscali, mercati e austerità “morbida”

Ogni bilancio nazionale ruota attorno alla narrativa del rispetto delle regole fiscali UE (come il Patto di Stabilità), della stabilità macroeconomica e dell’attenzione allo “spread”. Sebbene l’idea di evitare spese eccessive sia valida, queste regole possono costringere a tagli e tasse pro-ciclici, peggiorando le crisi.

Ma al di là delle regole formali, c’è una pressione più profonda: la necessità di mantenere la “credibilità fiscale” agli occhi dei mercati finanziari. Questo spinge anche i governi progressisti verso forme di austerità “tecnica” o “morbida”, mascherata da “scelte responsabili”. Il Labour di Keir Starmer, con i suoi vincoli di bilancio autoimposti per rassicurare i mercati, ne è un esempio lampante. Molti partiti di centrosinistra europei sono stretti in questa morsa tra regole UE, pressione dei mercati e volatilità elettorale.

Mappa dei principali partiti di centrosinistra in Europa
Mappa dei principali partiti di centrosinistra in Europa. (Fonte: Koino, adattamento grafico)

Il “Grande Squeeze-Out”: L’analisi di Gary Stevenson

L’economista britannico Gary Stevenson ha definito “grande squeeze-out” l’espulsione lenta ma inesorabile della classe media e lavoratrice dai circuiti di sicurezza economica e accumulazione di patrimonio. Il motore è la crescente disuguaglianza: i grandi patrimoni generano enormi redditi passivi (affitti, dividendi, interessi) che vengono in gran parte reinvestiti, alimentando un ciclo auto-rinforzante di accumulazione. La ricchezza si concentra sempre più nell'”1%”, mentre per chi vive di reddito da lavoro il sistema diventa più ostile.

Spiegato facile – Cos’è il Reddito Passivo? È il denaro guadagnato possedendo asset (immobili, azioni, obbligazioni), non lavorando direttamente.

Il Cuore del Problema: Quando il Reddito Passivo dei Ricchi Cresce Più dell’Economia (PIL). Se i rendimenti del capitale (es. 5-7% annuo) superano la crescita del PIL (es. 1-2%), la disuguaglianza aumenta. Questa dinamica, studiata a fondo da economisti come Thomas Piketty, significa che la ricchezza di chi ha capitale cresce prendendo risorse dalla quota del lavoro (salari stagnanti) o della classe media. Concretamente, i grandi capitali comprano asset (case, azioni), facendone salire i prezzi molto più degli stipendi e “spremendo” fuori dal mercato chi non possiede già capitale. Anche se il PIL cresce, molti sono più poveri perché la loro “fetta di torta” si riduce, rendendo beni essenziali come la casa inaccessibili.

Avete capito bene: semplicemente esistendo i super ricchi tolgono risorse al mercato e alle classi subalterne.

Foto di Gary Stevenson
L’ex trader ed economista britannico Gary Stevenson ha portato alla luce i meccanismi con cui la finanza può contribuire all’impoverimento relativo della classe media. (Fonte: The Guardian)

Effetti visibili: Casa irraggiungibile, lavoro insicuro

Questa dinamica non è astratta. I capitali in cerca di rendimento fanno lievitare i prezzi degli asset, soprattutto immobiliari nelle grandi città (Milano, Parigi, Londra, Berlino, Lisbona…). L’acquisto di una casa diventa un lusso irraggiungibile, chi invece può comprare decide il prezzo e avviene una redistribuzione al contrario. Questi reinvestimenti, inoltre, non creano automaticamente lavoro significativo, ma spesso gonfiano il valore di asset esistenti, generando ulteriori rendite passive.

E non fatemi iniziare a parlare di greedflation, una cosa che per anni i foglisti vari ci hanno raccontato non esistesse.

Anche le politiche monetarie come il Quantitative Easing (QE), pur con buone intenzioni, hanno accentuato il divario. Abbassando i tassi, hanno regalato liquidità ai grossi player permettendogli ulteriore accumulo e hanno spinto gli investitori verso asset come azioni e immobili, gonfiandone i prezzi a vantaggio di chi già li possedeva e rendendoli proibitivi per gli altri, come documentato da ricerche della BCE e altre istituzioni.

A ciò si aggiunge l’impatto della globalizzazione e della tecnologia sul lavoro: competizione globale sui costi, pressione sui salari, precariato diffuso, delocalizzazioni e indebolimento del potere contrattuale dei lavoratori hanno portato a decenni di stagnazione salariale e diffusione del lavoro atipico.

Manifestazione per il diritto alla casa a Milano
Le manifestazioni per il diritto all’abitare e contro il caro affitti sono diventate frequenti nelle grandi città europee, segno di un disagio sociale crescente legato all’inflazione degli asset immobiliari. (Fonte: Corriere della Sera)

Il dilemma dei governi progressisti: Tassare la ricchezza o il lavoro?

Di fronte alla necessità di risorse, i governi progressisti affrontano un bivio:

  1. Tassare grandi patrimoni e rendite da capitale: Coerente con l’equità, ma politicamente e tecnicamente difficile a causa delle resistenze di lobby potenti, della narrazione mediatica ostile e dei timori di reazioni dei mercati (fughe di capitali, declassamenti). Eppure, è vista da molti come l’unica soluzione strutturale (es. “patrimoniale”, tasse su capital gain, FTT).
  2. Tassare classe media e lavoratrice: Politicamente più semplice nel breve termine, spesso con strumenti meno visibili come IVA, accise o “fiscal drag”. Ma è una strada profondamente iniqua che aggrava le difficoltà dei ceti che si vorrebbero tutelare.

Spesso si sceglie la seconda via, quella di minor resistenza, finendo per non contrastare efficacemente il “grande squeeze-out”. Le pressioni strutturali (mercati, regole UE, potenza delle élite) sembrano superare la capacità d’intervento dei governi. Esperienze come il “Blairismo” o le politiche di Matteo Renzi sono state fondamentalmente questo. La dipendenza dai finanziamenti elettorali rende difficile poi colpire gli interessi dei grandi finanziatori.

Tony Blair e Matteo Renzi
Figure come Tony Blair e Matteo Renzi hanno rappresentato tentativi di adattare il centrosinistra alle sfide della globalizzazione e dei vincoli di bilancio, con esiti dibattuti sulla loro efficacia redistributiva. (Fonte: Il Sole 24 Ore)

Crescita senza benessere e lezioni dalla storia

Negli ultimi decenni, la crescita del PIL europeo non si è tradotta in un miglioramento diffuso del benessere. Si osserva una discrepanza tra crescita aggregata e benessere individuale: salari reali stagnanti, risparmi erosi, indebitamento privato in aumento. Sembra una caratteristica strutturale di un sistema che premia il capitale più del lavoro.

Il periodo dei “Trenta Gloriosi” (1945-1975), con crescita inclusiva e welfare forte, fu frutto di una combinazione storica irripetibile (ricostruzione, boom demografico, crescita produttività, contesto geopolitico, minore integrazione finanziaria). Dagli anni ’80, il pensiero neoliberista, la globalizzazione finanziaria e l’erosione del potere del lavoro hanno invertito la rotta, portando a crescente disuguaglianza. Le nuove generazioni affrontano precariato, difficoltà abitative e stagnazione. La frase di Warren Buffett sulla “guerra di classe” vinta dai ricchi suona profetica.

Foto di Warren Buffett
Il magnate finanziario americano Warren Buffett, le cui parole sulla “lotta di classe” condotta dai ricchi hanno suscitato ampio dibattito sulla direzione delle moderne economie capitalistiche. (Fonte: Wikipedia/SelectUSA Investment Summit)

Il caso britannico e i limiti sistemici

Il Labour di Starmer mostra come i partiti progressisti siano estremamente vincolati da agenzie di rating, mercati, trattati e regole fiscali. Ogni proposta un po’ radicale è etichettata come “irresponsabile”. L’attuale architettura economica sembra scoraggiare strutturalmente politiche di redistribuzione significativa. Questo stallo può favorire alternative populiste di destra (come Farage) che cavalcano il malcontento.

Foto di Keir Starmer
Il Primo Ministro e leader laburista inglese Keir Starmer si trova al centro di un intenso dibattito sulle future scelte economiche del Regno Unito, esemplificando le pressioni subite dai leader progressisti europei. (Fonte: Wion Dispatch)

Una sfida strutturale: Cambiare le regole e la narrazione

La domanda cruciale è: “cosa può realisticamente fare un governo” nell’attuale paradigma? Finché le regole del gioco premiano la rendita finanziaria e la “credibilità sui mercati” (cioè sugli investitori, cioè di quelli che sono il problema) è un feticcio, anche i governi progressisti rischiano di amministrare un declino gestito.

Servono interventi strutturali coraggiosi:

  • Nuove Regole Fiscali Europee che incentivino investimenti strategici (transizione ecologica, sanità, istruzione).
  • Politiche Fiscali Nazionali Progressive che spostino il carico da lavoro/consumi a grandi patrimoni, rendite finanziarie e profitti multinazionali (minimum tax globale, web tax).
  • Rafforzamento della Contrattazione Collettiva e Salario Minimo Legale Dignitoso per riequilibrare il potere e combattere i “working poor”.
  • Nuove Forme di Protezione Sociale Universale (welfare, reddito minimo) e rappresentanza per il lavoro frammentato (precari, gig economy).
Manifestazione per il salario minimo a Roma
La richiesta di un salario minimo legale adeguato è diventata centrale nel dibattito pubblico in molti paesi europei, inclusa l’Italia, come strumento per contrastare la povertà lavorativa e garantire dignità. (Fonte: La Repubblica)

Prima ancora, serve un cambio di narrazione. È paradossale che proprio i ceti medio-bassi spesso protestino contro la tassazione patrimoniale (“patrimoniale”) che a loro non cambierebbe nulla, vittime di decenni di campagne che l’hanno demonizzata. Bisogna decostruire questa narrazione tossica e far capire che maggiore giustizia economica e fiscale non è populismo, ma una condizione necessaria per la sopravvivenza loro in primis, ma anche della democrazia stessa. Se le classi dominanti hanno tutto questo potere di influenzare la percezione della realtà dell’opinione pubblica (e non mi riferisco al controllo dei media tradizionali) un vero processo democratico è impossibile.

E non è un caso che nelle campagne anti immigrazione (o contro i diritti delle persone trans, nella versione più contemporanea) ci finiscano fiumi di soldi da oligarchi sia dell’est che dell’ovest.

Conclusione: tornare al progressismo vero, sociale e civile

In conclusione, se i partiti politici che si definiscono autenticamente progressisti vogliono realmente tornare a rappresentare in modo credibile ed efficace gli interessi dei lavoratori dipendenti, dei ceti medi impoveriti, dei giovani precari e degli esclusi dal benessere, e se vogliono riconquistare la fiducia che in molti paesi europei hanno vistosamente perduto negli ultimi decenni, dovranno necessariamente affrontare apertamente, onestamente e coraggiosamente questo (finto) dilemma tra presunta “responsabilità” fiscale (spesso intesa come adesione acritica ai dogmi neoliberisti) e irrinunciabile giustizia sociale.

Dovranno trovare il modo, politicamente arduo ma indispensabile, di sfidare attivamente le attuali regole del gioco economiche e finanziarie che generano disuguaglianza; dovranno contribuire, a livello nazionale ed europeo, a riformare il quadro fiscale internazionale in senso marcatamente più equo e progressivo; e dovranno lavorare pazientemente per costruire un nuovo, ampio consenso sociale e politico attorno a un’idea rinnovata di giustizia economica e di sviluppo sostenibile, un’idea che sia non solo desiderabile dal punto di vista etico, ma anche credibile, praticabile e realizzabile concretamente nel complesso mondo del XXI secolo.

Questo richiede uno sforzo intellettuale e politico enorme, che vada ben oltre la semplice gestione pragmatica dell’esistente o la mera amministrazione di un declino che sembra ineluttabile. Richiede visione, coraggio e capacità di mobilitazione. E richiede la capacità di sfidare gli interessi dei propri donatori (che, diciamocelo, è la parte più immediatamente critica).

In sintesi, lo slogan “Tassare la ricchezza, non il lavoro” non può più essere considerato soltanto un’affermazione ideologica o un retaggio del passato. In un contesto storico caratterizzato da livelli di disuguaglianza economica estrema, insostenibili e pericolosi per la coesione sociale e la stabilità democratica (il caso USA dovrebbe insegnarci quanto meno quello), diventa una questione di pura sopravvivenza economica e democratica per le nostre società.

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