L’inciampo magiaro: catene ungheresi e serpentine nostrane

Il dissolvimento dei regimi comunisti dei Paesi dell’Est, seguiti alla caduta del Muro di Berlino, ha imposto un ripensamento sui confini Europei venuti fuori dalla seconda guerra mondiale. Come è noto, questi Paesi finiti sotto la sfera di influenza dell’URSS non hanno partecipato al faticoso processo di costruzione di uno spazio economico, e non solo economico, comune ai paesi dell’Europa Occidentale.

Nell’ottica di inglobare nella UE Paesi geograficamente, storicamente, culturalmente e socialmente affini, prima gli stati baltici, poi quelli dell’Europa centrale appartenuti tempo prima ai regni Prussiano e Austroungarico, e in seguito anche quelli balcanici, sono entrati a far parte dello spazio comune europeo. Un processo che peraltro è ancora in corso con riguardo ad altri paesi candidati all’ingresso nella UE, si pensi alla Serbia o all’Albania, e in futuro alla Moldavia, la Georgia e l’Ucraina.

Il processo di allargamento dell’Unione Europea dal 1957 ad oggi. Photo credit: Dipartimento Federale degli Affari Esteri della Confederazione Svizzera.

Ovviamente tutti i nuovi Paesi aderenti hanno dovuto adeguare la loro legislazione agli standard fissati dal trattato istitutivo della UE e a quelli successivi, che hanno permesso alle istituzioni comunitarie di funzionare. Sono regole “comuni”, quelle che dovevano (e devono) essere accettate dai nuovi membri al riguardo di economia, finanza, istruzione, democraticità delle Istituzioni e, soprattutto, garanzie in tema di rispetto dei diritti umani.

In cambio, attraverso l’erogazione dei cosiddetti Fondi Strutturali, i nuovi Paesi aderenti sono stati aiutati ad affrancarsi dallo stato di profonda depressione in cui versavano le loro economie, vincolate a modelli di sviluppo non adeguati agli standard dell’Europa Occidentale. Per dirla brutalmente: ad uscire dalla miseria. In altri termini, la Polonia, la Cechia, la Slovacchia e l’Ungheria (guarda caso, alcuni fra i Paesi oggi più euroscettici) hanno beneficiato e beneficiano -anche in modo sproporzionato alla loro effettiva importanza demografica- di fondi europei, indispensabili al loro sviluppo economico.

Tuttavia non sempre questi Paesi hanno adeguato la loro legislazione a quella della UE.Le procedure di infrazione a carico di Polonia, Slovacchia e, soprattutto, Ungheria sono sempre più frequenti. Quanto sta accadendo in un Tribunale di Budapest può esserci quindi utile per una riflessione più ampia sulla necessità che ha il resto dell’Europa di imporre all’Ungheria il rispetto di quelle norme cogenti in materia di garanzie giurisdizionali, necessarie per potersi dire parte della civiltà giuridica europea. Ne va del ruolo che il Vecchio Continente rappresenta sulla scena globale internazionale.

In quel tribunale sulle sponde del Danubio sta accadendo qualcosa di molto grave e, purtroppo, con la indiretta (ad essere buoni) complicità delle autorità italiane. Perché sarebbe veramente da ingenui pensare che una cittadina italiana possa essere detenuta per quasi un anno in un carcere della Unione Europea senza che le autorità italiane lo sappiano e soprattutto che non sappiano in quale condizioni essa sia detenuta.

No, le cose non sono andate come pretende di farci credere la Farnesina. I contatti con la Salis, almeno a livello di assistenza giudiziaria consolare, ci sono stati eccome, come confermano più o meno tutti, anche se mai al massimo livello diplomatico. Insomma l’Ambasciatore (formalmente) non ne sapeva nulla, ed è proprio questo il punto. Non interessare il massimo rappresentante diplomatico alla vicenda, infatti, non può che essere stata una scelta politica per via delle ovvie ripercussioni sui rapporti fra i due Stati che un affaire di queste dimensioni avrebbe comportato.

Undici mesi, centinaia di articoli, decine di appelli, diverse trasmissioni televisive e soprattutto quelle immagini di una donna trascinata in ceppi davanti ad un tribunale che il sistema giuridico europeo se lo mette sotto i piedi. Perché chiunque, nello spazio europeo, dovrebbe essere sottoposto ad un giusto processo, assistito dalla presunzione di innocenza, in una condizione fisica non degradante.

Ebbene, solo dopo tutto questo il Ministro degli Esteri Italiano convoca l’Incaricato d’Affari dell’Ambasciata ungherese a Roma, peraltro non rendendo noto, come di consueto, il contenuto dell’incontro. Perché la faccenda è stata gestita così? Perché Orbàn, e il modello autoritario che incarna, per il Governo Meloni-Salvini, non si tocca. Perché le politiche di Orbàn rappresentano il modello di Governo a cui agognano leghisti ed italici fratelli. Perché l’Europa, quella corrotta, imbelle, inetta, inconcludente Europa, che però garantisce un minimo di diritti, libertà e garanzie per un buon 30% degli Europei, non funziona.

Il Ministro degli Esteri Italiano Antonio Tajani. Photo credit: Wall Street Journal.

E al suo posto vorrebbero un sistema autoritario che garantisca l’Ordine, impedisca improbabili sostituzioni etniche, prevenga l’islamizzazione delle istituzioni e, più in generale, prometta uno di quei tanti prodotti del caleidoscopio schizzato e razzistoide che le destre estreme dichiarano da anni di voler mettere a disposizione del “popolo”, quella entità indistinta e vaga che tirano sempre in ballo gli autocrati di tutti i colori e a tutte le latitudini, Europa compresa.

Siamo alla fine dei sistemi socialdemocratici e liberali incarnati dal vecchio Continente. Come stiamo vedendo, a “vincere” è il modello autoritaristico di Putin in Russia, di Trump in America, di Xi Jinping in Cina, di Modi in India, di Erdogan in Turchia, di Milei in Argentina.Gli altri Paesi, dall’Iran ai Peesi arabi fino a quelli del Sud-Est Asiatico, sono governati in modo autocratico da tempo. I 4/5 della popolazione mondiale è, o diverrà presto, ostaggio di regimi semi-autoritari, spesso eletti dal “popolo”. A conti fatti, non ci resta che l’Europa.

Da sinistra a destra, Donald Trump, Vladimir Putin e Xi Jinping. Photo credit: New York Post.

Questo, per restare nel Vecchio Continente, non piace agli autocrati, soprattutto dell’Europa dell’Est (Putin ed Orbàn in testa), che tramite figure di sponda come Salvini in Italia e Le Pen in Francia, oppure per mezzo dei neonazisti di Alternative für Deutschland in Germania e Vox in Spagna (a tacer di altri), non sanno più come dircelo che così, da noi, non va.

Sono loro l’alternativa, continuano a ripetere. E ne hanno convinti tanti, in tutta Europa.Non è la destra liberale e colta che (a torto o a ragione) appartiene ed è sempre appartenuta al patrimonio politico dell’Europa. È una destra estrema, radicale, a tratti violenta, che nel nostro Paese è rappresentata, fra gli altri, da quello che avrebbe cambiato due Mattarella con un Putin, dopo che, in braghette da bagno, da una spiaggia romagnola, aveva invocato “pieni poteri”.

E non credo ci sia bisogno di aggiungere altro su quello che aveva in mente di fare. Il problema, il grande problema, è che a sinistra (e, da un po’, anche a destra) gente così viene ancora considerata solo un povero scemo a cui avevano rubato il pupazzetto di Zorro da piccolo.

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