Nel 2017 divenne famosa la storia di Esther Hernández, una donna che aveva deciso di lasciare il Venezuela per andare in cerca di una nuova vita in Colombia portandosi dietro un marito, tre figlie da sfamare e una macchina per cucire. Come Esther, altri 8 milioni di Venezuelani hanno lasciato il paese in anni recenti, un esodo che sta ridisegnando l’America Latina.
Nel corso dell’ultima decade, infatti, il continente sud americano è stato interessato da uno dei più imponenti movimenti migratori della sua storia contemporanea, in gran parte dovuto alla fuga dal Venezuela di donne, giovani e bambini. Intere famiglie che attraversano tutti i giorni soprattutto il confine con la Colombia per fuggire da un paese che un tempo era tra i più ricchi dell’America Latina, ma che è oggi afflitto da grande povertà.

Le cause della grande fuga sono note: inflazione alle stelle, scarsità di beni di prima necessità, un sistema sanitario pubblico praticamente inesistente, le grandi risorse derivanti dall’estrazione petrolifera dirottate verso l’oligarchia al governo. A ciò si aggiungono gravi violazioni dei diritti umani, repressioni politiche, arresti arbitrari e un clima di instabilità permanente. Per molti, restare significa rinunciare a cure mediche, cibo regolare o sicurezza personale. La decisione di emigrare, quindi, diventa quasi una scelta obbligata.
Oltre 20 anni fa mi recai in due diverse occasioni in Venezuela. La prima volta che arrivai nel paese, nel 1998, al potere era appena giunto il mestizo Hugo Chavez, un militare di estrazione sociale umilissima nato nell’ancora più povera regione di Barinas. Non appena eletto, aveva instaurato un governo ispirato ad una commistione di bolivarismo, marxismo, terzomondismo e soprattutto castrismo. La situazione economica, seppure precaria, non era disperata, e soprattutto le classi più povere avevano tratto beneficio dall’azione politica di Chavez, che aveva istituito programmi di assistenza (le famose “missioni bolivariane”) che davano sostegno ai tanti indigenti che non fruivano delle enormi ricchezze del paese.

Per quanto il Venezuela fosse senza dubbio un paese afflitto da una feroce criminalità (i tassisti chiedevano un supplemento quando trasportavano stranieri perché era più alto il rischio di rapine), di giorno a Caracas si passeggiava tranquillamente per il boulevard di Sabana Granda. Di notte, il ritrovo dei tanti expat e della gioventù dorata cittadina era invece l’hotel Tamanaco, un posto che decisamente non aveva nulla a che fare con i “peggiori bar” della città, divenuti noti grazie alla pubblicità di una marca di Ron praticamente sconosciuta in Venezuela.
Le cose iniziarono drasticamente a cambiare quando, alla morte di Chavez nel 2013, venne eletto un oscuro tranviere che era stato il delfino del presidente Bolivariano: Nicolas Maduro. L’attuale presidente ha accompagnato via via il Paese verso il declino economico e sociale e, senza dubbio, può ritenersi l’artefice della grande fuga dal Venezuela che dura oramai da oltre 10 anni.

La frontiera terrestre con la Colombia, paese da cui un tempo si emigrava verso il ricco Venezuela, è tuttora la prima via di fugada cui transitano centinaia di migliaia di persone ogni anno per raggiungere Bogotà e Medellin, città storicamente accoglienti e con un discreto tasso di sviluppo economico. Ma negli ultimi due anni si è intensificato anche il percorso verso il Centro America per poter, da li, tentare di raggiungere gli Stati Uniti.
Il problema è però attraversare la giungla del Darien, situata nella confinate Panama. Una rotta considerata oggi una delle più pericolose al mondo perché popolata da gruppi armati, bande criminali, condizioni climatiche impossibili, che però non hanno fermano le tante famiglie con bambini, donne incinte e anziani, disposte a tutto (soprattutto ad evitare i controlli frontalieri che troverebbero per altre rotte) pur di inseguire un sogno americano che troppo spesso si trasforma in incubo.
In tanti poi si dirigono verso il Perù, l’ Ecuador o il Cile, paesi relativamente stabili, con una discreta crescita economica e che, con spirito fraterno, hanno approntato un sistema di accoglienza molto efficiente. Ovviamente l’arrivo massiccio di migranti venezuelani ha ridisegnato gli equilibri interni dei paesi che li hanno accolti, soprattutto quelli della Colombia, dove si calcola vivano tre milioni di venezuelani, e del Brasile, dove lo stato federale di Roraima gestisce flussi costanti tramite l’Operação Acolhida (Operazione Accoglienza).

I milioni di venezuelani poveri attualmente all’estero, disposti a fare qualsiasi lavoro pur di sopravvivere, hanno provocato forti tensioni sociali, oltre che generato insicurezza, in paesi in cui lo sforzo per liberarsi di una endemica cLa riminalità locale è sempre stato fortissimo. Forse è anche per questo che, negli ultimi tempi, Perù e Cile hanno hanno ristretto di molto gli ingressi. In questo contesto, l’orizzonte politico non promette nulla di buono nel breve e medio termine.
La crisi venezuelana non mostra oggi segnali di soluzione. Le pressioni internazionali non sono infatti riuscite a riportare il paese alla stabilità politica nell’ultimo decennio né a interromperne la spirale di deterioramento economico ed, anzi, “l’attenzione” militare che Donald Trump sta prestando proprio in questi giorni al Venezuela aggrava ancora di più una realtà già estremamente complessa.
L’esodo venezuelano possiamo orami definirlo come un fenomeno strutturale che comporterà sempre più cambiamenti socio-demografici, destinati a segnare l’America Latina per decenni. La solidarietà mostrata fino ad ora dagli altri paesi sudamericani si intreccia sempre più alla paura, mentre le speranze dei migranti si alternano alla disperazione.
Siamo ormai abituati a pensare al fenomeno delle emigrazioni avendo come riferimento gli sbarchi a Lampedusa o le frontiere dei Balcani, da dove una umanità dolente si trascina verso una vita più dignitosa. Stentiamo però a vedere ciò che accade anche altrove, identiche dinamiche che si presentano sempre uguali, in Africa come in Asia e, per l’appunto, in America Latina.
Si tratta di milioni di vite che continuano a vagare attraverso i confini di tutto il globo, portando con sé la testimonianza di una crisi umanitaria che il mondo non può più permettersi di ignorare, nè tantomeno di risolvere a colpi di cannone come minacciano di fare gli Stati Uniti in questi giorni.
Avvocato e giornalista, coltivo un’antica passione per l’America Latina e l’Europa Orientale. Ma resto comunque convinto che non esista un paese che non valga la pena di essere visitato. E mi sono regolato di conseguenza. Siccome arriva sempre il momento in cui ti rendi conto di sapere meno di quanto pensi, mi sono rimesso a studiare e quelle quattro cose che so ho deciso di spacciarle su Deep Hinterland. Senza pretese che esse siano risolutive dei dubbi di chi legge, anche perché penso che ognuno farebbe bene a tenersi stretti tutti i suoi affanni. Alla fine, sono convinto, tornano sempre utili.

