Restando nell’agitato e spesso insopportabile mondo degli autoritratti, uno di quelli che mi ha più colpito presso la National Portrait Gallery di Londra per la sua modernità, è quello di Sir Joshua Reynolds (1723-1792). Reynolds è tutt’ora considerato uno dei più grandi ritrattisti della storia Inglese (e non solo) e a ragione. Avete presente quei parrucconi insostenibili che fanno l’effetto eclissi di sole? Ecco, questo signore ai suoi tempi ha dovuto avere a che fare con un bel po’ di committenti del genere ed è riuscito a rendere quasi sempre questi soggetti, eccitanti come un fagiolino stracotto, delle superstar intergalattiche. Eleganti e flessuose figure che si muovono in un mondo arcadico.
E nessuno dei suoi dipinti è noioso. Qualcuno è brutto. Ma mai morto o noioso. Lo si capisce entrando non solo nei musei ma anche in molte dimore anglosassoni, ad esempio alla Kenwood House. Se “sa di qualcosa” e sembra venuto dallo spazio, allora è Reynolds. O Gainsborough. O Lawrence, ma quello è arrivato dopo. Reynolds era strapagato, era lui stesso una rockstar, diventò il primo presidente della Royal Academy of Arts nel 1768. Ritrarre in “epoca moderna”, dove tutto era un soufflé di aristocratici, faceva figo socialmente ed economicamente. Quest’attitudine infatti è fluorescente nel suo autoritratto del 1747-1749.
Il nostro giovincello stacanovista si è rappresentato, manco a dirlo, più volte durante la sua carriera e questo dipinto nello specifico, ridotto in dimensioni durante il diciannovesimo secolo, fu realizzato da lui ragazzo poco prima che partisse per il suo, classicissimo in tutti i sensi, viaggio italiano. Non serve un fine osservatore per percepire la faccia tosta di Reynolds: lo sguardo, gli strumenti del mestiere in mano e la mossa innovativa e furba della mano che copre gli occhi dal sole. In un mondo di grigio-verdi-terredisiena-testedimoro, che non tradisce e che anzi anima, lui si gira verso la luce e si scherma per vedere meglio. Così facendo, dichiara il suo scopo. Lui non è un pittore ma un esploratore di un nuovo mondo della visione e del ritratto, ci sta dicendo: “Sto guardando oltre, caro mio”. Lui è uno che di sicuro a chiusura museo, va avanti a lavorare e la sera esce dalla cornice e si va a fare quattro chiacchiere al Club.
Se dalla perfida Albione ci spostiamo all’Albertina di Vienna e pensiamo agli autoritratti chiari per la loro palese irruenza, uno degli artisti meritatamente più famosi è sicuramente Egon Schiele (1890-1918). Non sono la persona più adatta a parlare della sua arte perché è senza dubbio uno dei più grandi disegnatori mai esistiti e quindi non posso che avere imperituro amore e ubriaca dedizione nei suoi confronti. Tuttavia ne parlerò comunque. Il suo modo di guardare era lanciare coltelli su spazi mezzotono ed estrarne tutti i tendini e gli spigoli possibili. Era un architetto della realtà emotiva ed anatomica.
Nel 2018 la Royal Academy di Londra (ecco, vedi caro Reynolds che lì torniamo) dedicò una mostra meravigliosa che affiancava i disegni suoi a quelli del ben più “pacioso” Klimt, che pacioso non era affatto. E’ che accanto a Schiele pure Munch sembrerebbe un simpatico anziano signore, un pelo tormentato dalla colite, dedito alle bocce [1]. Fu grazie a quella visita che ebbi la conferma che Schiele era principalmente un disegnatore mentre Klimt un pittore. La carta del secondo era spazientita dall’assenza di pennellate, quella del primo, anche se a volte a malapena toccata, non ne vedeva affatto il motivo. Con un ruggito di grafite sottilissima era già tutto dissennatamente lì.
Per molti le opere di Schiele sono dei pugni dati con violenza e nocche ossute, per me sono sguardi condensatissimi e penetranti. Non mi colpiscono tanto gli organi sessuali infuocati delle sue fortissime animelle umane, quanto il fatto che su ogni linea lui sapesse trasferire l’essenza distillata e scoperta dall’interno di ogni cosa.
Capite bene che uno così, che scarnificava la realtà senza posa e senza sosta perché era la genuina prospettiva sua personale sul mondo, chissà cosa poteva fare di sé. Infatti diversi ritratti di Schiele sono famosi e, a merito, penetranti e riprodotti impropriamente ovunque. Il suo sguardo, e di conseguenza il suo stile, era ed è talmente unico che ancora oggi lo si indovina ovunque. Il filo diretto tra percezione personale e rimando visuale fattuale di ciò che vedeva rendeva ogni sua opera un autoritratto grazie alla proiezione di sé sul mondo senza annientarlo.
Proprio per questo, uno dei suoi “ritratti” migliori (che ritratto fisiognomico non è), secondo me è questo qui sopra, dal titolo “Kunst kann nicht modern sein. Kunst ist urewig.” che significa “L’arte non può essere moderna, l’arte è eterna”. Solo uno che ci vede davvero bene avrebbe potuto associare queste due sedie ossute all’eternità. Ed in effetti, che je voi dì?
Note
[1]: Qui potete trovare maggiori dettagli a riguardo della suddetta esposizione.
Arianna Tinulla Milesi è artista, illustratrice multimediale e nasce a Bergamo prima della caduta del Muro di Berlino. Si laurea in Arte Bizantina alla Statale di Milano e successivamente in Arti Visive – illustrazione allo IED. Al centro della sua pratica c’è il disegno come forma mentis, un tramite e mai un fine. Collabora internazionalmente con spazi espositivi, gallerie e musei. Le interessano le interazioni, la memoria, il folklore e la devozione, la percezione della violenza e il concetto di limite. Dal 2024 collabora con l’Orto Botanico di Toscolano Maderno parte dell’Università di Milano, per promuovere il disegno sperimentale come approccio libero verso il mondo naturale e non.
Questo le ha fatto venire in mente che potesse essere una buona idea partire alla volta del Galles per partecipare alla Mawddach Residency e studiare le alghe, il suo terrore più grande. Arianna è membro del Council della Society of Graphic and Fine Art, l’organismo che si cura di promuovere l’arte del disegno dal 1919 nel Regno Unito e nel mondo. I suoi lavori sono esposti presso istituzioni artistiche in varie parti del mondo e non sempre vogliono tornare a casa. Ama Piero della Francesca e Paolo Uccello, la sua power couple preferita sono Raffaello e Pietro Bembo, la gamma di colori dal vermiglio al lampone, sulle labbra e nei vestiti, i capelli estremamente corti, Adrien Brody vestito da Salvador Dalì, accarezzare gli animali e cantare a squarciagola. Ha adottato un gatto di nome Pilade, ricama e si produce vestiti con alterna fortuna, legge Giada Biaggi e Hilary Mantel, ascolta Paolo Conte, PJ Harvey, Fred Buscaglione e prova a fare snorkeling nel lago di Garda. Tra i suoi appuntamenti per il 2025 ci sarà un percorso di ricerca come artista in residenza presso la School of Art & Design dell’Università di Nottingham Trent all’interno del progetto AA2A. Il suo motto è: “Adoro i piani ben riusciti” e “Ogne melù al g’ha la sò stagiù”.