L’altra metà del carcere. Storie di donne in prigione

Le donne in carcere vivono una doppia diversità: di genere e di numero. Di genere perché, come vedremo, il carcere è una struttura pensata per i maschi. Di numero perché le donne detenute in Italia costituiscono una piccola percentuale della popolazione internata, circa il 4%.[1]

Dopo che il carcere di Pozzuoli è stato chiuso nel 2024 a causa di un terremoto, gli istituti penitenziari destinati in modo esclusivo alle donne in Italia sono solo rimasti solo tre (Roma Rebibbia, Venezia Giudecca e il piccolo carcere di Trani). Quasi 600 detenute vengono ospitate in questre carceri. Si tratta quindi di un quarto del totale, visto che le donne in prigione nel nostro paese sono attualmente circa 2.400, su di una popolazione carceraria complessiva di circa 63.000 persone.

Gli altri tre quarti vivono in reparti isolati all’interno di penitenziari maschili, dove subiscono una realtà che è pensata e realizzata per uomini, sia nelle regole che nelle strutture stesse. Nei regolamenti interni di alcune carceri si parla di “taglio della barba”. Alcuni esami medici non sono proprio contemplati nei penitenziari maschili dove vengono rinchiuse la maggior parte delle detetnute: il pap test, l’ecografia endovaginale, la mammografia.

Si tratta, in quindi, di carceri completamente dedicate alla popolazione maschile, anche architettonicamente. Esempio emblematico: l’assetto dei bagni. Nonostante l’Ordinamento Penitenziario[2] preveda che le donne debbano essere ospitate in istituti separati da quelli maschili o in apposite sezioni “in numero tale da non compromettere le attività trattamentali”, nel caso delle donne detenute, di fatto, la segregazione raddoppia. In fondo le “Mantellate so’ delle suore”, cantava la Vanoni, e “a Roma so’ soltanto celle scure”.

Anzitutto rilevano i numeri. Se è vero che nelle carceri di Milano e di Torino le detenute sono più di un centinaio, è anche vero che esistono istituti penitenziari maschili ove le donne sono pochissime: cinque nel carcere di Mantova, quattro a Paliano, due a Barcellona Pozzo di Gotto. Proviamo a immaginare cosa significhi vivere, in pochissime, in un carcere interamente maschile. Proviamo a immaginare le normali esigenze quotidiane: urinare e non solo, lavarsi, cambiare gli assorbenti, sempreché si abbia la fortuna di averli. Solo il pensiero fa impazzire. Eppure loro ce la fanno, misteriosamente. Arrivano a fine pena, un po’ invecchiate, un po’ rassegnate, ma vive. Piegate ma non spezzate.

Ma quando si uccidono, le loro storie sono davvero atroci. Sono donne che vivono situazioni di assoluta marginalità, spesso straniere, con gravi o presunte patologie psichiatriche. Talvolta sono tossicodipendenti, talaltra sono senza fissa dimora. Un caso per tutti: Elena, che si è suicidata a 26 anni, lasciando alle compagne un laconico biglietto: “Vi saluto”. Era straniera ed è stata indotta alla prostituzione e sfruttata da quando aveva 14 anni. Al funerale c’erano otto persone, nessun parente. Forse Elena aveva commesso gravi errori, ma era sola al mondo. Forse non era un giglio, ma era pur sempre “una vittima di questo mondo”, come diceva il grande Faber.

Prova pietà per i vivi”, diceva Albus Silente ad Harry Potter, “e soprattutto per coloro che vivono senza amore.” E in queste strutture, le minoranze, come sempre succede, hanno meno di tutto. Quella delle donne nelle carceri italiane è una discriminazione automatica, quasi involontaria. Se si hanno poche risorse, si danno ai tanti e non alle poche. Se si ha un po’ di spazio, un progetto da avviare o un’attività da iniziare a livello carcerario, si offre laddove c’è più richiesta, quindi agli uomini, che sono maggioranza.

Inoltre, non va sottovaluta la cosiddetta esigenza normativa di “evitare la promiscuità”, in ossequio alla quale le detenute nelle carceri maschili hanno scarsissime possibilità di accedere alle aree comuni, ai campi sportivi, alle palestre. Persino le attività lavorative interno alle carceri sono riservate quasi sempre agli uomini: non sono ammessi lavori “misti”, neppure in cucina. Nemmeno a scuola le detenute riescono ad andare. Negli istituti maschili, frequentano la scuola dell’obbligo solo gli uomini. Mancano i numeri per formare una classe interamente femminile, e sono vietate le classi miste.

Le donne straniere nelle carceri italiane dal 2008 al 2022. Photo credit: Open Migration.

In definitiva, le donne detenute, in un periodo della loro vita più o meno lungo, si trovano ad abitare in spazi ancora più ristretti rispetto a quelli dei colleghi maschi, con contatti con l’esterno di gran lunga inferiori. E tanto è minore il numero delle detenute nel carcere tanto più è forte la marginalizzazione e il disagio. E così, il periodo di segregazione costituisce una specie di bolla nella vita di una donna, uno spazio di assoluto isolamento in un mondo di maschi, talora arroganti, dove l’imperativo categorico diventa sopravvivere. Ecco perché per le detenute segregate nelle aree a loro dedicate delle carceri maschili il recupero diviene quasi sempre irrealizzabile.

Ma è difficoltoso anche il recupero delle donne detenute in carceri totalmente femminili. Questo principalmente perché le pene irrogate alle donne tendono ad essere di durata inferiore rispetto a quelle irrogate agli uomini. I dati ci dicono che la maggioranza delle detenute in Italia ha commesso reati di scarsa pericolosità sociale, con condanne inferiori ai tre anni. E poiché ogni procedimento di autorizzazione all’ingresso in carcere ha un iter complesso con tempistiche non banali, quasi sempre manca il tempo per far accedere le detenute a qualsiasi programma di recupero proveniente dall’esterno, in quanto l’inizio del progetto è di poco inferiore alla scarcerazione.

Perciò, di fatto, nella maggior parte dei casi la detenzione femminile comporta un periodo di totale isolamento, in un mondo parallelo, parentetico rispetto alla vita precedente e successiva. Un periodo in cui si contano i giorni e basta. In condizioni siffatte, le probabilità di recidiva delle donne condannate divengono notevolmente elevate, con i conseguenti intuibili costi in capo alla società civile.

Ecco perché il carcere andrebbe ripensato, a giudizio di chi scrive, nel caso di condanne particolarmente brevi: ciò vale per tutti, ma vale ancor di più per le detenute donne. Sarebbe preferibile ipotizzare percorsi di giustizia riparativa, piuttosto che isolare le donne in speciali reparti delle carceri maschili, “buttando via la chiave” per un anno, con il fondato rischio che quelle stesse porte si riapriranno loro a breve.

All’opposto, nei casi di condanne lunghe, quando alle donne viene data la possibilità di lavorare, si ottengono risultati di eccellenza: a Bollate le detenute sono coinvolte in progetti di scenografia, confezionano meravigliosi abiti d’epoca e realizzano cosmetici. A Trani producono borse con materiale di riciclo. A Giudecca c’è uno splendido orto dove coltivano ortaggi, stravenduti nei mercati rionali. A San Vittore e a Vercelli confezionano camici pediatrici e toghe per avvocati. A Monza assemblano giocattoli ed elettrodomestici. Io stessa ho trovato buonissimo il caffè prodotto in carcere. L’elenco potrebbe essere lungo solo ove si consentissero maggiori possibilità alle donne detenute.

Poi c’è il grande tema della maternità. Le detenute sono spesso madri. La lontananza dai figli aggiunge sofferenza alla pena detentiva mentre i locali per le visite raramente offrono uno spazio adatto per ritrovare la vicinanza tra madre e figlio. In genere, la mancanza di affetti e i ritmi del carcere sono più difficili da accettare per le donne che per gli uomini e ciò si traduce in un numero maggiore di suicidi e di atti di autolesionismo.

Perché la donna in carcere è posta dinanzi a un bivio: portare il bambino in carcere con lei, oppure lasciarlo alla famiglia. E qui si profila un’ulteriore differenza tra detenuti maschi e detenute femmine. Conosco padri detenuti amorevoli e molto presenti nella vita dei figli, ma questi figli, nella quasi totalità dei casi, sono affidati alla madre. Invece, le detenute femmine spesso non sanno a chi lasciare il figlio, perché il compagno non c’è o non può prendersi cura dei bambini e la famiglia d’origine è lontana…sempre che ci sia, una famiglia d’origine.

La legislazione italiana ha previsto ipotesi alternative alla detenzione nel caso di detenute madri. Sono stati introdotti nell’ordinamento istituti a custodia attenuata, i cosiddetti ICAM, che hanno caratteristiche anche strutturali diverse rispetto a quelle di un carcere ordinario, così come case-famiglia protette, che hanno convenzioni con gli enti locali. Quando le donne si trovano a convivere con i bambini in carcere, le relative aree strutturali rivestono caratteristiche speciali: pareti colorate, vetrocemento al posto delle sbarre, poliziotti non in divisa e via dicendo.

E nelle carceri ben condotte, si può davvero creare un’atmosfera quasi-familiare. Ricordo lo stupore che provai quando anni fa entrai per la prima volta nell’area giochi di un piccolo carcere romano. I bambini ridevano, correvano e venivano abbracciati o lanciati in aria da tutti: volontari, parenti, poliziotti. E quando un ragazzino fece un goal, nell’immancabile partita di calcio che si svolgeva nell’adiacente campetto, l’urlo di giubilo fu collettivo.

Purtroppo, scene di questo tipo rimangono rare e isolate. La gioia non è per tutti, in carcere più che nella vita. Nel carcere di Cagliari UTA una giovane detenuta ha trascorso otto mesi di gravidanza dietro le sbarre. Partorirà in una comunità terapeutica perché nel territorio non esistono Istituti a Custodia attenuata. La gioia non sarà per tutti, ma quando c’è, accende la speranza dell’umanità.

Note
[1] Tutti i dati indicati in questo articolo risultano dal sito del Ministero della Giustizia.
[2] Legge 26 luglio 1975, n. 354. Articolo 14.

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