Il 25 dicembre per molti detenuti è un giorno come un altro. Non ci sono regali, non ci sono cori, non ci sono torroni. Solo una profonda amarezza. Preghiere sì, quelle tante, religiose e laiche. Il carcere è un luogo in cui si prega molto. Ormai da decenni, all’interno delle prigioni italiane risuonano preghiere recitate in lingue diverse e indirizzate a divinità distinte.
I dati raccolti dal Dipartimento Amministrazione Penitenziaria mostrano a quale credo si affidano i carcerati. Per ragioni storiche facilmente intuibili, i detenuti cattolici sono i più numerosi: rappresentano oltre il 60% del totale; seguono i detenuti musulmani, con circa il 15% della popolazione detenuta principalmente concentrate negli istituti del Centro-Nord. Infine gli ortodossi, con poco più del 4 % del totale[1]. Adepti di altre religioni, quali hindu ed ebrei, nonché di altre confessioni cristiane, quali evangelisti, avventisti del settimo giorno e testimoni di Geova rappresentano percentuali al di sotto dell’uno per cento.
Generalmente, al momento dell’ingresso in istituto, durante le procedure di registrazione dell’ufficio matricola, ai nuovi detenuti viene posta la domanda sulla religione di appartenenza. Ciò avviene, oltre che per finalità statistiche, per valutare eventuali incompatibilità con altre persone detenute o altre esigenze (ad esempio alimentari) derivanti dalla propria confessione religiosa. Come tutte le informazioni raccolte in fase di immatricolazione, anche queste possono risentire di una scarsa accuratezza e dipendono dalle risposte degli immatricolandi, non verificabili. Ne consegue che i dati raccolti vanno analizzati con la dovuta cautela.
Nell’esaminare questi dati va considerato un elemento: quasi 12.000 persone private della libertà, il 20% del totale, hanno ritenuto opportuno non fornire all’amministrazione penitenziaria alcuna informazione sul loro eventuale credo. In mancanza di quesiti di approfondimento al riguardo, si può ipotizzare che nel novero siano compresi sia atei che soggetti che non intendono assicurare piena collaborazione informativa per vari motivi, non ultimo l’appartenenza a confessioni che, nel contesto nazionale, possono rivelarsi una discriminante (es. subconfessioni musulmane come la salafita, fortemente legata ad un’interpretazione integralista ed antioccidentale dell’Islam). Ci si deve chiedere, pertanto, se alcuni detenuti preferiscano omettere la propria fede per ragioni prudenziali legate ai sospetti di radicalismo. A ciò si aggiunga la popolazione straniera presente in carcere è in costante aumento nell’ultimo decennio.
Per questi detenuti (atei, agnostici, islamici, ebrei e via dicendo) il Natale, almeno da un punto di vista squisitamente religioso, è effettivamente un giorno come un altro. In realtà, non lo è mai. E’ il giorno in cui si pensa alla famiglia, alle persone che sono fuori, alla vita che si è lasciata. E il senso di fallimento e la paura del domani diviene più tangibile.
Due sono i momenti veramente critici nella vita di un soggetto ristretto: l’ingresso e la scarcerazione. L’ingresso, perché si entra in una società di regole, talvolta anche assurde. Solo per fare un esempio: non si può avere più di uno spazzolino da denti, non si possono usare due cuscini. Le matite sono ammesse ma non i temperini e quindi, di fatto nessuno le usa; tutti scrivono sui libri con le penne.
Un esempio personale: ho portato come regalo di Natale alcuni bei codici commentati, regalati ai detenuti dall’editore. Ebbene, quelli con la copertina rigida non sono stati ammessi; sono stati bloccati all’ingresso e portati in Direzione. Non so che tipo di pericoli può innescare una copertina rigida di un libro ma mi sono subito adeguata. Il carcere insegna l’arte della pazienza, della costanza e dell’umiltà, fino allo sfinimento. Non avrei aiutato i ragazzi mettendomi in polemica con la struttura per dei libri. Ho sperato, e tutt’ora spero, che vengano consegnati.
In carcere le telefonate e la corrispondenza sono strettamente regolamentate. L’impatto è durissimo, soprattutto la prima volta. Ma forse anche più critico è il momento della scarcerazione, soprattutto se avviene dopo molti anni di galera e in età avanzata, quando il detenuto si deve reinserire in un contesto sociale per il quale egli è ormai un relitto, inidoneo a trovare lavoro, per tante ragioni; prima di tutte quelle anagrafiche.
Con la scarcerazione cambiano nuovamente le regole, ed è proprio l’assenza delle vecchie -astruse- regole che destabilizza. Si dovrebbe fare un’analisi statistica sulla percentuale dei suicidi in prossimità della scarcerazione: molti, troppi. Soprattutto tra i recidivi, cioè coloro che “ci sono già passati”. Giorni fa un ragazzo africano detenuto in una struttura carceraria mi diceva: “Ho il terrore della scarcerazione. Ho paura di ricominciare a delinquere. La tentazione (sì, diceva proprio ‘la tentazione’, n.d.a.) è fortissima, i vecchi amici si riavvicineranno. Cercherò di resistere ma io non so dove andare, devo trovare una casa, un lavoro, devo mangiare, non voglio ricominciare; voglio vivere diversamente”.
Ecco perché è fondamentale, per la società civile ancor prima che per gli stessi detenuti, la possibilità di inserire questi ultimi un percorso di recupero affinché si sentano utili e lo siano effettivamente. I permessi premio sono il primo contatto del detenuto con la società fuori e l’unica via, per ottenere, poi, altri benefici, quali, ad esempio, proposte di lavoro all’esterno come operaio, macchinista, meccanico, panificatore, giardiniere, cuoco, e tutto ciò che all’interno si è imparato a fare.
Questo è l’unico modo di rendere chi è ristretto utile per la società e riscattarlo dalle colpe commesse. Tenerlo chiuso dentro per anni per poi catapultarlo fuori, magari dopo un periodo significativo di carcerazione, significa essere consapevoli che tornerà certamente a delinquere. E per i detenuti che hanno intrapreso un percorso di riqualificazione, come tanti tra quelli che conosco, l’amarezza aumenta proprio a Natale, quando le famiglie (per i fortunati che le hanno) vengono a trovarli in carcere.
Giorni fa sono andata in tre Case di Reclusione: è Natale e volevo salutare tutti. Ho incontrato fuori della porta un altro volontario del mio gruppo che stava uscendo, con gli occhi lucidi per l’emozione. Aveva assistito a quegli abbracci struggenti tra padri e figli, e alle solite raccomandazioni, nel momento penoso del distacco, fuori dell’ultimo cancello semiaperto dei colloqui: “Copriti! Non lo vedi che il giubbotto strascica per terra! E non fa’ tribola’ mamma!”
E alcuni poliziotti – quelli bravi – accompagnano per mano al cancello dell’uscita i piccolini lacrimosi, facendoli volare in braccio per strappar loro un sorrisetto. Sono quei poliziotti che si sono messi di turno il 24 dicembre, perché tanto non hanno il cenone; sono soli pure loro. E’ Natale e quella è la loro casa.
Il 26 dicembre, in una delle strutture carcerarie di Roma, il Papa ha aperto una porta santa giubilare. Questa sarà la prima volta in cui, oltre alle porte che, come abitualmente accade, vengono aperte nelle quattro basiliche papali romane, se ne aprirà una anche in un penitenziario.
Il gesto è stato fortemente voluto da Papa Francesco che ha sottolineato l’importanza della cura dei detenuti e del loro reinserimento sociale: “Nell’Anno giubilare saremo chiamati ad essere segni tangibili di speranza per tanti fratelli e sorelle che vivono in condizioni di disagio. Penso ai detenuti che, privi della libertà, sperimentano ogni giorno, oltre alla durezza della reclusione, il vuoto affettivo, le restrizioni imposte e, in non pochi casi, la mancanza di rispetto. Propongo ai Governi che nell’Anno del Giubileo si assumano iniziative che restituiscano speranza, forme di amnistia o di condono della pena volte ad aiutare le persone a recuperare fiducia in sé stesse e nella società, percorsi di reinserimento nella comunità a cui corrisponda un concreto impegno nell’osservanza delle leggi”[2] Non è esattamente il discorso di uno che auspica di chiuderli dentro e di buttare la chiave.
Ho chiesto a un ragazzo detenuto se lui sarà presente il 26 e lui ha fatto un sorrisetto. “Solo quaranta detenuti sono ammessi, e io non sono tra questi”. Posso anche arrivare a capire che vada fatta una giusta selezione, ma è innegabile che la capienza del luogo ove è previsto l’incontro con il Papa è ben superiore. Del resto, il Papa opera tra le folle; è abituato alle folle. E per i detenuti, cristiani, atei o di altre religioni, la presenza del Papa è comunque un momento speciale, perché porta speranza.
Che il 26 dicembre non sia la solita parata di autorità e di potenti, ligi alla legge e mai erranti. Per chi crede, a Natale è nato un bambino in una stalla. E non per salvare i santi e i potenti, ma per dare speranza ai rei e ai peccatori.
Note
[1] Dati reperibili sul sito del Ministero di Giustizia: www.giustizia.it
[2] Bolla Spes non confundit.
Appassionata di diritto ma, soprattutto, innamorata della gente, ho redatto oltre trenta pubblicazioni scientifiche e collaborazioni manualistiche. Ho scritto due libri: il diario di un cammino con i detenuti ed una monografia su detenzione e religione. Vivo tra Roma, Milano e la Toscana e canto, per hobby, in un coro polifonico di musica popolare.