Pisanello e Perera. L’importanza del “processo” nell’età del fine.

“Noi non vogliamo affatto conquistare il cosmo. Noi vogliamo allargare la terra alle sue dimensioni. Non abbiamo bisogno di altri mondi: abbiamo bisogno di uno specchio”. Questo era quello che Andrej Tarkovskij faceva dire al protagonista di una delle sue pellicole più famose, Solaris.

Il regista russo Andrej Tarkovskij. Photo credit: Wikipedia.

Cinquecentotrenta anni prima, rivoluzione più, rotazione meno, Pisanello dipinge uno dei suoi capolavori, oggi presso la National Gallery di Londra, “La visione di Sant’Eustachio”, materializzazione dell’episodio contenuto nella raccolta medievale di agiografie intitolata “Legenda Aureadi Jacopo da Varagine.

Molti, molti secoli prima un soldato romano di nome Placido, cacciando, si imbatte improvvisamente in un cervo che tra i suoi palchi ostentava un crocifisso luminoso. Il nostro, folgorato e cristallizzato dall’evento, pianta lì armi e paganesimo, si ribattezza Eustachio e si converte al cristianesimo, così, senza colpo ferire e con grande sollievo degli animalisti coevi e futuri. Pisanello, esimio disegnatore a cui non interessava affatto la fedeltà storica dei costumi, nel ritrarre l’avvenimento che contestualizza nella sua contemporaneità, fa sfoggio di una incandescente sprezzatura[1], sua e del gotico cortese, stile da lui stesso elevato a vette commoventi di linearità e cupezza.

Pisanello, “La Visione di Sant’Eustachio”, 1436-1438, 650×530 mm. Photo credit: National Gallery, Londra.

Direte voi: “Beh, grazie tante, è pur sempre gotico!” Ma non fatevi ingannare dal didascalico: questo dipinto in particolare è stato molto rimpicciolito (escludendo così probabilmente un cielo rischiarante) e scurito da interventi successivi, senza considerare l’incarognito invecchiamento dei materiali. Pisanello ci presenta un santo addobbato da principe italiano del XV secolo a caccia coi suoi cani, what else? Eustachio contempla e, facendolo, incarna il cavaliere medievale ideale per cui la caccia era di primaria importanza. Dice: “una metafora della ricerca di dio” ma anche un bell’allenamento alla guerra. Ricordiamocelo, siamo a fine medioevo, meglio girare comunque armati fino ai denti, soprattutto quando siamo in un bosco, soli, impegnati in un’attività non commerciale, inutile (dalla nostra prospettiva frigoriferea) e senza fretta.

Il pittore ci fa spettatori di un elegantissimo miracolo, ci sbatte signorilmente in faccia la sua ferrata conoscenza degli animali e soprattutto ci immerge in un esterno ad immagine e somiglianza del personaggio umano protagonista. Ogni cosa è, forse poco ma ben, illuminata, verrebbe da parafrasare, dalla geometria della finezza e ogni elemento, naturale o divino, ne è uno specchio. Sebbene qui una cospicua dose di realismo e interesse per il contesto agreste sia già massicciamente presente, l’armonia stilizzata vince ancora la realtà che irrompe già presso altri studi e su altre tavole. E forse proprio per questa, ai tempi considerata, inferiore modernità e poca sete verso il realismo spinto, Pisanello ci restituisce uno spiccato e personalissimo specchio di cui Tarkovskij ci parla.

“Ma quindi, quando guardiamo fuori da noi[2], vediamo quello che vogliamo vedere?” Questa eterna domanda ci lega ad anelli strettissimi sostanzialmente a tutta la storia dell’immagine, soprattutto a quelle che costellano una tortuosa linea del tempo e dell’osservazione, e mi fa intersecare i pensieri col lavoro poliedrico, in fieri e ricchissimo di Sumi Perera [3].

Sumi Perera con la sua opera THE REGENERATRIX-THE PHOENIX presso la fiera dedicata alla stampa contemporanea Woolwhich Contemporary Art Fair, Londra, 2023. Photo credit: Sumi Perera.

Le ho stretto per la prima volta la mano tre anni fa grazie ad un’amica in comune che me l’ha presentata ad una collettiva di cui entrambe facevamo parte. Il suo universo complesso e stratificato mi ha subito catturata. La poetica di Perera è un’insolubile e monumentale ricetta che intreccia memoria, famiglia, architettura e scienza e una scelta dei materiali tanto emotiva ed efficace quanto certosina.

Due tra le sue opere che trovo più rappresentative di questo e che più di altre mi hanno colpita sono: “Roots” e “The Regeneratrix-The Phoenix”.

Sumi Perera, THE REGENERATRIX-THE PHOENIX, installazione interattiva, tecnica mista, 2023. Photo credit: Sumi Perera.

Quest’ultima mescola acquarelli realizzati con acqua dei ghiacciai in scioglimento della Groenlandia, disegno, serigrafia, cenere, carboncino, inchiostri vari, tra cui uno ottenuto dalla lavorazione delle polveri sottili PM 2 e PM 10.5. Non ci soffermeremo però qui sul deliberato e sacrosanto intento ecologista del lavoro di Sumi quanto sul fatto che il risultato dell’opera sia mobile e che di volta in volta divenga, grazie all’inclusione dell’inchiostro termocromico, che cambia in base al calore e al tocco del fruitore.

Essendo contraria alle mostre immersive ma assolutamente a favore del “toccacciamento” lecito dell’interattività, apprezzo moltissimo l’approccio di Perera e la sua generale filosofia, ma proprio di vita, quel tanto, troppo, che non è mai abbastanza e di cui non siamo mai sazi. Nelle sue linee, tattili, sonore, stampate o altro, emerge in quadrifonia la sua intrinseca multiculturalità e capacità di spargere i suoi occhi come biglie nel creato. Ma non si tratta di un mostro dalle millepupille che per golosità vuole raccontare tutto. E’ la sua particolare cifra personale, non sempre facile da sbrogliare, ma quantomai vicina all’unicità imprevedibile che la contraddistingue e che lascia generosamente spazio ad altre mani.

Sumi Perera, “ROOTS”, serie di ritratti, tecnica mista, iniziati nel 2020. Photo credit: Sumi Perera.

L’idea del transeunte dagli innumerevoli livelli che cambiano è anche il tratto saliente di ROOTS, una serie di ritratti dell’artista e dei suoi familiari incorniciati, riprodotti in scala, cuciti, “riconfigurati e ricostruiti, un palinsesto che si disintegra all’interno del sovrastruttura soverchiante di una narrativa multistrato”[4]. In “Roots”, viene a galla tutta la ricchezza dell’eredità socioculturale di Perera, un’artista proveniente dallo Sri Lanka che vive in Inghilterra da molti anni, la cui sensibilità originaria è stata parzialmente cancellata e rimodellata per incasellarsi in un modo di vedere e vivere europeo, causato anche dalla colonizzazione portoghese, olandese e inglese del suo Paese natale.

Sumi Perera, “ROOTS”, serie di ritratti, tecnica mista, iniziati nel 2020. Photo credit: Sumi Perera.

Ogni volto (per ora un totale di 2 + 14 opere) ha un recto e un verso e la cornice diventa parte integrante dell’opera, il concetto principe stesso della serie. Capite bene che un’elaborazione talmente viscerale e composita evidenzia, nella pratica dell’artista, il primato del processo, dove ci si può anche ferocemente perdere, sul risultato, aspetto di cui lei stessa ha parlato in maniera completa e fiammeggiante durante un intervento presso Hansard Studio.

Perera, oltre a ripercorrere gran parte della sua carriera attraverso il suoi lavori, racconta proprio dell’iter del suo fare, di quanto sia vitale e importantissimo per un’arte che ingloba tutto: la ricerca, la sua vita, il fare fisico, gli sguardi (anche colonialisti e maschili), la stoffa, la sperimentazione, la migrazione, il viaggio e la stampa. Nelle sue opere c’è la completezza dell’essere umano Sumi, che attraverso le scienze che padroneggia, guarda il fuori, creando un mondo intero senza tradire la realtà o la sua personalità intergalattica. Usa il tempo e lo moltiplica, senza curarsi della sua misura. Verrebbe da dire che meno si cruccia del risultato e più le riesce quello che fa, che “regge” ed esiste con o senza spiegazioni altrui, più o meno articolate.

Sumi Perera, “ROOTS”, serie di ritratti, tecnica mista, iniziati nel 2020. Photo credit: Sumi Perera.

Se non si trattasse di lei probabilmente troverei questa pervasiva attenzione al processo qualcosa di esagerato, un atteggiamento giusto un filo parac*lo, mentre non lo è. Anzi, la trovo una posizione totemicamente politica. Prendersi il tempo per fare, costruire un linguaggio, questionare la propria provenienza/identità e i relativi pregiudizi ad essa legati, senza guardare al risultato e alla produttività è qualcosa che ha in sé la quintessenza della rivoluzione. Tutto questo in un mondo in cui ogni cosa può o deve essere migliorata, confrontata, nei minuti del “mai abbastanza” e dell’acume della volgarità, cioè la fretta. Pisanello forse l’avrebbe applaudita insieme ai levrieri? Di certo entrambi gli artisti, da un secolo ad un altro, non sprecano tempo a fissare le meridiane o i meridiani, se non per farne disegni multipli e intrecciare galassie di senso personale.

“Chissà come avranno fatto gli Etruschi a realizzare qui gioielli meravigliosi con degli strumenti che ai nostri occhi non paiono affatto evoluti?” Forse con un coltello alla gola, ma sicuramente senza guardare l’orologio.

Note
[1] Termine attribuito da me ora, a posteriori. Parola che ha non solo un significato ma una storia interessante, di cui qui se ne trova parte del viaggio, passando da Arbasino e Baldassarre Castiglione, pace all’anime loro.
[2]A tal proposito, sul concentrare il nostro sguardo sull’esterno più che sull’interno, ricordiamo sempre la massima di un mio mito personale, Amanda Lear, quando in un’intervista pronunciò la storica frase, da me citata in continuazione e spesso a sproposito: “A cosa serve essere belli dentro se dentro non ci va nesuno!?”
[3]Tutte le immagini presenti nell’articolo sono tratte dall’account Instagram dell’artista.
[4]Parole dell’artista stessa che descrive questa sua serie di opere.

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