Ti sei mai chiest* cosa c’è davvero dietro la bistecca che hai nel piatto? Certo, c’è il sapore, la tradizione, un pezzo importante della nostra cultura alimentare. Ma c’è anche un costo nascosto, enorme, che non vediamo sull’etichetta del supermercato. Un costo che paghiamo tutti in termini di ambiente, salute e diritti umani.
Parliamoci chiaro: l’industria della carne, così come è strutturata oggi, è diventata una macchina insostenibile. Un gigante economico che genera profitti miliardari per pochi, lasciando a noi il conto salatissimo della devastazione che si lascia alle spalle. In questo articolo ho provato ad analizzare punto per punto perché questo sistema è al collasso e perché non possiamo più far finta di niente.

Un pianeta al collasso: l’impronta insostenibile della carne
Il primo conto, e forse il più visibile, è quello ambientale. Gli allevamenti intensivi sono tra le principali cause di inquinamento e cambiamento climatico a livello globale. E l’Italia, purtroppo, non fa eccezione.
L’intero sistema degli allevamenti, dai mangimi ai trasporti, è responsabile di circa il 14,5% di tutte le emissioni di gas serra prodotte dall’uomo. Per darti un’idea, è una quota simile a quella di tutto il settore dei trasporti mondiali messo insieme. Gran parte di queste emissioni è metano, un gas serra piuttosto potente prodotto soprattutto dai bovini.
In aree ad alta concentrazione di allevamenti come la Pianura Padana, questo si traduce in un inquinamento dell’aria gravissimo, con l’ammoniaca dei liquami che agisce da “lievito” per le polveri sottili PM2.5, le più pericolose per i nostri polmoni. In Spagna, ad esempio, è stato recentemente stabilito che gli allevamenti violano i diritti umani di chi vive in loro prossimità proprio per questo motivo.
Quanta acqua serve per una bistecca? Tanta. Troppa. Per produrre un solo chilo di carne di manzo possono servire in media fino a 15.000 litri d’acqua. L’uso del suolo è altrettanto drammatico: il bestiame occupa circa il 30% di tutte le terre emerse non coperte dai ghiacci. Questa continua espansione per creare pascoli e coltivare mangimi è la causa principale della perdita di biodiversità sul pianeta. Pensa che oggi più dell’86% di tutti i mammiferi terrestri, in termini di peso, è composto da esseri umani e animali da allevamento, lasciando appena il 14% alla fauna selvatica.
Accade poi che quel pezzo di carne “Made in Italy” ha spesso un legame diretto con la deforestazione in Sud America. Come? Attraverso la soia. L’Italia ne importa milioni di tonnellate per nutrire polli e maiali. E quella soia, spesso, cresce su terreni che una volta erano foresta amazzonica. L’allevamento bovino è riconosciuto come il principale motore di deforestazione in Amazzonia. Dietro ci sono multinazionali come JBS, il più grande produttore di carne al mondo, che possiede anche marchi italiani famosissimi come Rigamonti. Così, senza saperlo, rischiamo di comprare un pezzo di foresta distrutta.
Il costo umano: quando i macelli diventano “sociali”
La stessa violenza riservata all’ambiente viene applicata alle persone. Per tenere i prezzi bassi e i profitti alti, l’industria della carne ha creato un sistema di sfruttamento ultramoderno, un vero e proprio “macello sociale” dove si calpestano dignità e diritti.
Il meccanismo è un capolavoro di illegalità mascherata. Le grandi aziende della carne, invece di assumere direttamente, appaltano il lavoro a cooperative fittizie. Queste “coop” sono spesso scatole vuote, create solo per fornire manodopera a basso costo, spesso a lavoratori migranti vulnerabili. Applicano contratti ridicoli, evadono tasse e contributi, e dopo un paio d’anni falliscono. Un risparmio enorme per l’azienda, una fregatura colossale per tutti gli altri. Lo scandalo dei contagi da Covid-19 esploso nei macelli tedeschi ha messo a nudo questo sistema, tanto che la Germania è dovuta correre ai ripari vietando per legge i subappalti nel settore.

Per chi lavora nell’industria della carne, i ritmi sono infernali. Un addetto può dover stordire un animale ogni 12 secondi. Questa pressione disumana causa un numero spaventoso di infortuni. Negli Stati Uniti, i lavoratori della carne subiscono infortuni gravi al doppio del ritmo rispetto alla media degli altri settori, con casi di sindrome del tunnel carpale sette volte più frequenti e un numero agghiacciante di amputazioni. Spesso, purtroppo, vengono impiegati illegalmente anche minori nei turni di pulizia notturni, esponendoli a rischi intollerabili.
Ma c’è un danno forse ancora più profondo: quello psicologico. Uccidere centinaia di animali al giorno è un’attività che lascia cicatrici. Gli psicologi hanno identificato un vero e proprio disturbo da stress post-traumatico, che alcuni chiamano “stress traumatico da perpetratore” (PITS). Alcuni studi hanno persino correlato la presenza di grandi macelli a un aumento dei tassi di criminalità violenta nelle comunità circostanti. Per non impazzire, i lavoratori devono spegnere la propria empatia, un atto di violenza contro sé stessi. Un ex operaio ha raccontato: “A volte la mucca era ancora cosciente quando arrivava da me… ho dovuto scorticarla viva mentre scalciava. È un’esperienza che ti resta per tutta la vita”.

La sofferenza come standard: cosa non vediamo del benessere animale
Infine, c’è il capitolo che spesso viene omesso: la vita degli animali. Parliamo di oltre 83 miliardi di animali terrestri macellati ogni anno, la stragrande maggioranza in condizioni di sofferenza sistematica.
- I polli da carne sono selezionati per crescere così in fretta da raggiungere il peso di macellazione in 6 settimane. Spesso le loro zampe non reggono il peso del corpo e collassano.
- Le scrofe passano gran parte della vita in gabbie così strette da non potersi nemmeno girare. Ai loro piccoli vengono tagliate le code e limati i denti senza anestesia.
- Le mucche da latte sono costrette a partorire un vitello all’anno, che viene separato dalla madre poche ore dopo la nascita, causando un trauma a entrambi.
Questi animali sono trattati come macchine biologiche, privati di ogni comportamento naturale, fino al terrore finale del trasporto e della macellazione, dove i ritmi frenetici fanno sì che a volte non vengano nemmeno storditi correttamente.

La nostra salute a rischio: dai super-batteri alle pandemie
Questo sistema malato non solo produce sofferenza, ma mette a rischio la salute di tutti, consumatori e non. L’Organizzazione Mondiale della Sanità è stata chiarissima. Nel 2015 ha classificato le carni lavorate (prosciutti, salami, wurstel) come “cancerogene per l’uomo”, nella stessa identica categoria di fumo e amianto. La carne rossa è stata definita “probabilmente cancerogena”. È stato calcolato che ogni 50 grammi di carne processata consumati al giorno aumentano il rischio di cancro al colon-retto di circa il 18%.
La fabbrica dei super-batteri e il rischio pandemie
Ma forse la minaccia più globale legata all’industria della carne riguarda il rischio di pandemie. Si stima che circa il 70% di tutti gli antibiotici prodotti al mondo venga usato sugli animali da allevamento. Questo abuso sta creando “super-batteri” resistenti ai nostri farmaci. Inoltre, luoghi iper-affollati da animali come gli allevamenti sono l’ambiente perfetto per la nascita di nuovi virus e per un loro potenziale “salto” all’uomo. Malattie come l’influenza suina (H1N1) o quella aviaria sono esempi concreti di minacce nate in contesti simili. Lo sfruttamento ambientale legato all’industria della carne ha anche conseguenze sanitarie dirette: uno studio ha rilevato tassi di mortalità più elevati per varie malattie nelle comunità che vivono vicino a grandi allevamenti di maiali, spesso un caso di vera e propria ingiustizia ambientale.
Chi ci guadagna davvero? Profitti, sussidi e inganni
Questo sistema disastroso sta in piedi per un motivo: è estremamente profittevole per pochi (non voglio ancora usare quella parola che inizia per C e finisce per APITALISMO ma, hey, guarda un po’). Il mercato globale della carne vale circa 1,4 trilioni di dollari l’anno. Ma questi profitti sono drogati. Sono il risultato di costi scaricati su tutti noi: l’inquinamento non pagato, i bassi salari (negli USA un operaio di macello guadagna in media 14-15 dollari l’ora che in quella economia sono roba da fame, in Italia la media è 8) e l’evasione fiscale.
E il paradosso più grande è che questo modello viene tenuto in vita con i nostri soldi. L’80% dei fondi pubblici europei per l’agricoltura (la famosa PAC) finisce nelle casse del 20% delle aziende più grandi e intensive. In pratica, con le nostre tasse finanziamo un sistema che ci avvelena l’aria, ci inquina l’acqua e sfrutta le persone. Tutto normale secondo voi?

Squeeze-out anche qui. Indovinate un po’: gli allevamenti intensivi rendono più povera la classe lavoratrice (e quel che resta della classe media)
A questo punto non dovrebbe stupirvi, questo sistema produce con un margine di profitto enorme per i grandi player che godono di incentivi pubblici e sgravi di vario tipo. Gli allevamenti industriali scaricano sull’intera collettività i danni climatici, sanitari e ambientali che producono: si parla di oltre 1,5 miliardi di euro l’anno solo nell’UE e solo di costi sanitari legati all’antibiotico-resistenza.
La Politica Agricola Comune convoglia la maggior parte dei pagamenti diretti verso le aziende più grandi e intensive, mentre i costi esterni restano fuori dal prezzo finale. Così altri soldi pubblici mantengono in vita un modello dai ritorni sociali negativi. Negli Stati Uniti, l’85 % della macellazione bovina è controllato da quattro multinazionali, una concentrazione analoga si consolida in UE e Brasile. I piccoli allevatori vengono spinti fuori dalla filiera, i lavoratori perdono potere contrattuale e i consumatori pagano di più per pratiche collusive.
Il ricorso a sub-appalti (vietati in Germania dal 2021) e a finte cooperative in Italia comprime salari e sicurezza, trasferendo al sistema sanitario nazionale i costi di infortuni e malattie professionali, che come ho riportato poche righe fa, proprio a causa di fenomeni come l’antibiotico-resistenza stanno diventando progressivamente più difficili da trattare.

Cosa possiamo fare? Riconquistare il nostro cibo
Uscire da questa situazione si può e si deve. Non è un problema di singole “mele marce”, ma di un intero sistema da ripensare. Le soluzioni sono sul tavolo da tempo, proposte da scienziati e associazioni:
- Fermare la costruzione di nuovi mega-allevamenti intensivi con una moratoria, specialmente nelle aree già al collasso.
- Cambiare i sussidi: smettere di dare soldi pubblici a chi inquina e usarli per sostenere una transizione verso un’agricoltura davvero sostenibile.
- Pretendere trasparenza: vogliamo etichette che ci dicano la verità su come è stato allevato un animale, per proteggerci anche da frodi e rischi sanitari.
- Ridurre drasticamente il consumo di carne. È la scelta individuale più potente che abbiamo per ridurre il nostro impatto sul pianeta.
Non sto facendo un discorso etico: chi non mangia la carne per quelle motivazioni non ha bisogno di ulteriori motivazioni e chi se ne è sempre fregato della sofferenza animale non inizierà certo a farlo perché glielo dico io. E non faccio nemmeno un discorso biologico: siamo sempre stati una specie onnivora, anche se abbiamo raggiunto un livello di evoluzione tale da poter sopravvivere unicamente con una dieta vegetariana. Ma la consapevolezza è il primo passo.
Il prezzo reale della carne è troppo alto, per tutti. La scelta di continuare a pagarlo, o di iniziare a cambiare le cose, è anche nostra, ogni giorno, a ogni pasto.

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