Ritrattismi alla National Gallery: Queen B, le uova fritte e i polpacci di Enrico

Dopo qualche anno, ha finalmente riaperto la National Portrait Gallery di Londra e, complice un impegno di lavoro, mi ci sono ovviamente fiondata all’istante. Prenotando i biglietti con sfacciato ottimismo, dato che tutto il Regno Unito, e non solo, si era dato appuntamento lì, nel primo, assolato e torrido, weekend disponibile per visitarla.

Della spiccata ossessione anglosassone per i ritratti è risaputo e ne avevamo già accennato più volte anche qui, e, devo ammettere, non ho affatto potuto resistere a questa corsa all’oro delle cornici e all’olio delle tavole.  Anche io infatti sono un’ossessiva e, soprattutto, non me ne importa meno di niente dell’arte del ritratto in sé e per sé. Sono infatti convinta che la parte interessante di questa specialità (anche se a volte annoverarla tra le religioni sarebbe più calzante) risieda non necessariamente nel personaggio centrale, bensì in tre aspetti differenti: 1) la potenza, non da tutti, di restituire in maniera trasversale e viscerale e sfacciata e illegale quello che trasuda dal modello, che ne sia cosciente o meno, non quello che il soggetto (spesso committente) vuole che si dica di lui. E qui gli autoritratti la fanno da padrone; 2) gli abiti, gli oggetti e il contesto. Soprattutto se parte di una composizione o formula assodata e di moda all’epoca; 3) la posizione del soggetto nel periodo del ritratto al confronto col presente e il relativo ed eventuale revisionismo storico.

Partiamo dalla questione potenza e dal suo pericolosissimo parente, il potere. Dove con potenza non intendo affatto, necessariamente, l’irruenza, una “roba alla Bacon[1],per intenderci, ma la sensazione che quella persona, quell’entità, sia espansa, che “attraversi gli oceani del tempo”. La sua forza non risiede nelle dimensioni o nella tecnica, bensì risulta efficace trasmettendo la sua presenza al cospetto dell’osservatore. Avete mai visto il cartone animato “E’ quasi magia Johnny”? Dove una volta che il protagonista lasciava la sua cameretta tutti i suoi oggetti si animavano e iniziavano discussioni, giochi e probabilmente anche dei rave alla gommapiuma con casse di lego?

Ecco, i ritratti terribilis secondo me fanno così, a magioni o musei chiusi si animano, si spolverano, litigano, si sputano da un muro all’altro, accostati da sornione o crudeli mosse degli allestitori. Quindi, se al cospetto di ritratti, “classici”, potenti, si resta invischiati nei velluti di cui si può sentire la morbidezza e l’odore che la tavola ci restituisce, si diventa setole di quelle pennellate, ci si attiva per indagare il soggetto. Poi, magari, contestualmente il suddetto ci ignora, però ci si è trovati, per un attimo o per molti minuti, ad esempio, nel 1536.

Dettaglio del cartone preparatorio per il ritratto di Enrico VIII, Hans Holbein il Giovane, inchiostro e acquarello, 1536-37, National Portrait Gallery, Londra.

Il bisogno di avere sé stessi ritratti da qualcuno, incluso l’autoritratto, allora come oggi, ha a che fare non solo con la memoria ma, appunto, con l’affermare sé e il proprio potere, anche se si tratta meramente di potere attrattivo[2]. Certo, dare una visione autentica di sé perché quella da noi percepita sarebbe l’optimum e il diritto di narrare l’immagine di noi stessi che più ci è consona dovrebbe essere un diritto (revisionisti storici, non parlo di voi), ma sono i modi, come sempre, che possono risultare discutibili.

Sfortunatamente infatti il potere, soprattutto quello di calare dall’alto una propria rappresentazione, fallace o meno, viene sovente goffamente sbandierato attraverso uno sguardo sdegnoso. Altre volte si fa largo ostentando opulenza e forza fisica perché in cima a tutto sta l’imporre una visione tracotante, assertiva, immanente di sé stessi da spalmare sull’osservatore per trasformarlo in suddito-ammiratore. Sono tutti aspetti evidenti se ci si reca in una pinacoteca di dipinti che vanno dal Tre-Quattrocento in avanti, per restringere il campo. Ecco, ditemi voi se tutto quello di cui si è scritto finora non sia uno degli argomenti non dico attuali, ma addirittura eterni, concernenti la storia della rappresentazione umana, ovvero la percezione visiva di noi e degli altri.

Oltretutto la necessità bipede di guardare in faccia qualcuno ha a che fare col confronto e, visitando un museo, con quella voglia di dire: “Ah, ma allora sei esistito!” oppure “Mi somigli, mi ricordi qualcuno”. Che ci riferiamo a un anziano nei panni di dio o al volto più invitante e commovente mai visto poco importa. I ritratti fregano il tempo, lo invitano a un valzer per distrarlo dal buffet. E’ una perenne relazione con il nostro mondo transeunte e un riflesso che a più livelli ci irradia della consapevolezza che lo scorrere delle ore è sempre una geniale e beffarda posizione mentale o storica, niente di più, senza, fortunatamente, tutti i parafernalia di Wildiana memoria.

A proposito di potere e di tempi storici celeberrimmi, uno dei ritratti di epoca Tudor più riprodotti della National Portrait Gallery e che più di qualsiasi altro incarna l’ubriachezza di potere, familiare e devastantemente, è uno dei più gentili di Anna Bolena.

“Anna Bolena”, Artista anonimo inglese, Olio su tavola, tardo XVI secolo. Basato su un lavoro a lei coevo del 1533-1536, 543 mm x 416 mm, National Portrait Gallery, Londra.

Con gentile intendo che ne fa risaltare la bellezza, la profondità e la risolutezza. Pare si tratti di una riproduzione di un ritratto coevo di cui non abbiamo traccia. Anna veniva descritta con un collo lungo, una bocca grande ed enormi, ammalianti occhi neri. La sua storia la conosciamo abbastanza, o meglio, quello che ci è arrivato smaciullato da film interpretati da attrici stupende e volumi scritti magistralmente o meno[3]. Qui, a parte il viso che ne esprime la proverbiale e sfacciata determinazione, risalta un gioiello che parla almeno tanto quanto il suo incarnato, la “sua” famigerata B.

Essa splende appesa a quell’infinito giro di perle che le ruzzola attorno al collo per poi cascarle dentro, in profondità. E’ come se lei stessa fungesse da carrucola per tutta la stirpe Bolena, esattamente quello che lei fu, prima di finire come sappiamo era di moda per molte signore del tempo a quella stessa corte. Mi viene da chiedermi quanto Anna abbia insistito o avuto voce in capitolo su quell’immagine che le impone attorno alla testa la scritta “Anna Bolina Uxor Henri – Octa” e la ritrae potente, elegantissima e stupenda anche se al suo collo a splendere è l’inizale della sua famiglia e non la sua.

Anna incarna l’ossessione amorosa e quella familiare insieme, è come se la sua storia fosse l’epitome di una mangrovia dinastica di assetati di ogni raggio di potere. Dopotutto le corti europee erano unite all’unanimità, durante il XVI secolo, nella conquista di terre, troni e stavano apparecchiando lo sfruttamento sistematico e spietato del resto del mondo di cui ancora oggi vediamo i risultati e i Bolena, se non fossero stati voluttuosamente decimati, chissà dove si sarebbero spinti.

“Self-Portrait with Fried Eggs”, Sarah Lucas, Iris print, 1996, National Portrait Gallery, Londra. Copyright: Sarah Lucas.

Da ossessiva, appunto, mi piace creare gruppi di miei simili, e in questo contesto, nello stesso museo, troviamo uno degli autoritratti più famosi di Sarah Lucas (n. 1962) che, diversi secoli più tardi, si ritrae con due uova fritte sul seno nello scatto didascalicamente intitolato: “Self Portrait with Fried Eggs”. Qui ci troviamo agli antipodi rispetto al ritratto di Anna, almeno esteticamente, primariamente per il fatto che questo è un autoritratto. Bene, quindi occupiamoci dalle similitudini.

Entrambe ci fissano spavalde. Anna però è in una posa canonica, secondo gli usi della sua epoca, Sarah è seduta su una poltrona in maniera scomposta, a gambe aperte, senza nessun richiamo a quello che verrebbe sommariamente e maschilisticamente considerato femminile. Il suo lavoro è profondamente ironico e volto a sfidare per decostruire gli stereotipi legati al sesso, al genere e alle convenzioni morali. Ha due uova fritte sul seno che ci guardano come i suoi occhi e sono un’evidente parodia del petto di una donna. Le sigarette in terra a sinistra sono la sfrontatezza, l’incoscienza e, secondo me, sono la sua B personale.

I Bolena, dopotutto, si sono ammazzati pur di arrivare dovevo volevano, usando ogni membro della famiglia come una pedina senza sangue per poi finire a versarne litri nemmeno sulla corte ma sulla storia intera, e cosa ci può essere di più incosciente e saporito di questo?

Note
[1]: Chi di voi non ha ancora visto i meme magistrali di Mo(n)stre rimedi subito qui.
[2]: Qui si aprirebbe il mare magnum dei ritratti privati vs ritratti pubblici ma non ci addentreremo in quella perniciosa palude di complessi e guerre che ogni ritratto che si rispetti porta con sé. E a tal proposito che peccato che non si faccia più come Vespasiano e i suoi colleghi: ritratti pubblici, e ideali, o privati, e spietati, reali, dedicati a chi ci conosce e ne ha tutto l’onere da portare.
[3]: A tal proposito consiglio vivamente la trilogia iniziata con Wolf Hall di Hilary Mantel. 

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