Anni fa, per questioni di quantità di strette di mano imposte dal mio lavoro, avevo un costante e affettuoso rapporto con l’estetista-manicure. Ero giunta a livelli di precisione chirurgica nello scegliere il colore e la forma delle mie bistrattate unghie, che si trasformavano da strofinacci in eleganti ombrelloni alla fine di questi trattamenti magico-onirici.
Col tempo, mi sono convinta che ci sia un’attenzione morbosa verso le nostre estremità cheratinose. E non sono sola nel sostenerlo. Una citazione di spessore viene dal personaggio di Blair Waldorf in Gossip Girl, quando suggerisce ad una rivale (rea più che di essere la donna del suo amato, di apparire una parvenu) di indossare i guanti ad un ricevimento iperesclusivo per nascondere le sue mani (e soprattutto le sue unghie), che urlano “povertà”. Chiaramente un concetto di povertà dai confini assai ampi, perfetto per una viziata giovinetta dell’Upper East Side.
Con questo non voglio dire che tutte le manicure, o “unghie fatte” come si dice lontano dal
protocollo, siano uguali: più grandi sono più è facile che non siano proprio raffinate e più che restituire decoro richiamano alla mente una roboante Lamborghini gialla. O anche quella senza ruote.
Però, a monte di questi ingegnosi e resistentissimi prodigi della tecnica laccata, lo snobismo e l’esigenza di presentarsi in pubblico in maniera adeguata comincia dalla pulizia, la cui minaccia ha un qualcosa di tenero e necessario, come l’infanzia. Se ci penso, infatti, ho in testa le unghiette dei bambini che non amano lavarsi o quelle di chi lavora concretamente con le proprie mani e ne porta i segni come, appunto, ogni bambino.
Avere le dita/unghie sporche dopo aver fatto qualcosa di faticoso, anche se può essere disgustoso, è davvero un atto liberatorio e di una sincerità disarmante.
Caravaggio, amante della realtà più nuda che cruda, questo lo sapeva benissimo. Tanto da dipingerle quasi sempre così. Tra le sue, infatti, quelle che sono probabilmente le unghie sporche più famose della storia dell’arte, quelle del “Bacco” per eccellenza, di fine 1500, conservato alla Galleria degli Uffizi di Firenze.
Il dipinto, oltre a mostrare con quale spavalda acribia l’artista ritrae e conosce anche il mondo vegetale, ci mostra un Bacco fulgido, in salute, roseo e sensuale. La coppa di vetro
finissimo ci viene porta con le sue zampette giovani e molli. La parte superiore del bicchiere è larga e piatta e richiama quasi l’accogliente parte contenitrice di un kylix greco. Più mitologico di così!
Dicevamo, le unghie sporche sono uno dei caratteri distintivi di Caravaggio, che le mette in bella mostra anche in un precedente ritratto di Bacco del 1593-94 (massimo 96), conosciuto come “Bacchino malato”.
Nel dipinto, conservato presso la Galleria Borghese di Roma, il pittore è smaccatamente interessato al naturalismo e non risparmia affatto al soggetto la sottolineatura bluastra delle sue labbra, quasi una firma della sua malattia, e un pollice che si spera abbia avuto
tempi migliori.
Lo spinge in avanti (probabilmente certe sottolineature anatomiche sono dovute anche all’uso che Caravaggio faceva degli specchi) e più che l’uva ci offre la spalla. Attraente? Non proprio. In bilico? Forse. Accecante nel suo pallore? Certamente.
Qualcuno ci vide un’allusione cristologica, qualcuno una convalescenza (vicina temporalmente a quella di Merisi stesso), qualcuno un perpetuo e colossale post-sbronza.
Proseguendo nel reparto ospedaliero dei personaggi poco amanti della vitamina D o dello
specialista, troviamo anche “Ritratto d’uomo malato” del 1515, che troneggia tra i colleghi nella collezione degli Uffizi dalla fine del Seicento[1]. Per prima cosa, il titolo non fu dato dall’autore. Quindi noi non sappiamo se l’avvenente e un po’ sgualcito ventunenne ritratto (come indica la scritta in testa) fosse o meno malato. Ma l’aria pallida e malinconica che lo avvolge rende plausibile questo nome.
Tiziano “sboccia”, ma nel senso milanese del termine, con il tonalismo cupo e allo stesso tempo aereo e fa indossare, come spesso ai suoi gentiluomini, oltre alla pelliccia un filo “vulgar display of power” (ma adeguata alla moda del periodo) dei guanti lunghi e protettivi. Anche qui, le mani non si sporcano, di conseguenza nemmeno le unghie. Fantastico su quanto potenzialmente le mani di costui fossero da copertina di rivista di dermatologia o centro estetico.
Gli scuri capelli vaporosi e la barba folta insieme ai baffi sottolineano il suo viso stupendo, elegante e stanco. Mi fanno venire tanto in mente un Che Guevara veneziano, che però anziché sulle magliette starebbe meglio su di un foulard di Hermès.
Note
[1]: Sia messo agli atti che Tiziano ha dipinto alcuni degli uomini più belli della storia dell’umanità. Questo dipinto, tra l’altro, ispirò anche il vicino di casa fiorentino Papini per un suo racconto.
Arianna Tinulla Milesi è artista, illustratrice multimediale e nasce a Bergamo prima della caduta del Muro di Berlino. Si laurea in Arte Bizantina alla Statale di Milano e successivamente in Arti Visive – illustrazione allo IED. Al centro della sua pratica c’è il disegno come forma mentis, un tramite e mai un fine. Collabora internazionalmente con spazi espositivi, gallerie e musei. Le interessano le interazioni, la memoria, il folklore e la devozione, la percezione della violenza e il concetto di limite. Dal 2024 collabora con l’Orto Botanico di Toscolano Maderno parte dell’Università di Milano, per promuovere il disegno sperimentale come approccio libero verso il mondo naturale e non.
Questo le ha fatto venire in mente che potesse essere una buona idea partire alla volta del Galles per partecipare alla Mawddach Residency e studiare le alghe, il suo terrore più grande. Arianna è membro del Council della Society of Graphic and Fine Art, l’organismo che si cura di promuovere l’arte del disegno dal 1919 nel Regno Unito e nel mondo. I suoi lavori sono esposti presso istituzioni artistiche in varie parti del mondo e non sempre vogliono tornare a casa. Ama Piero della Francesca e Paolo Uccello, la sua power couple preferita sono Raffaello e Pietro Bembo, la gamma di colori dal vermiglio al lampone, sulle labbra e nei vestiti, i capelli estremamente corti, Adrien Brody vestito da Salvador Dalì, accarezzare gli animali e cantare a squarciagola. Ha adottato un gatto di nome Pilade, ricama e si produce vestiti con alterna fortuna, legge Giada Biaggi e Hilary Mantel, ascolta Paolo Conte, PJ Harvey, Fred Buscaglione e prova a fare snorkeling nel lago di Garda. Tra i suoi appuntamenti per il 2025 ci sarà un percorso di ricerca come artista in residenza presso la School of Art & Design dell’Università di Nottingham Trent all’interno del progetto AA2A. Il suo motto è: “Adoro i piani ben riusciti” e “Ogne melù al g’ha la sò stagiù”.