T come leggerezza. Zamboni e Albergati in mostra a Crema.

Sabato 23 aprile sono stata, presso il Palazzo del Comune di Crema, tra i fortunati che hanno partecipato all’inaugurazione della mostra “T come terra”, una bi-personale di Debora Zamboni e Mario Albergati che durerà fino al 7 maggio 2022.

Ammetto che non sia facile parlare di questa esposizione perché è molto ricca, multistrato ed è stata allestita in un luogo fortemente connotato e stupendo, uno dei manifesti migliori della “Bassa” che attraversa ogni aspetto, concettuale e pratico. Ogni cosa qui è verticale o orizzontale. La perpendicolarità la fa da padrona e non è mai rigida.

Albergati, fotografo e docente, ha utilizzato il drone per fotografare i disegni della terra. I solchi delle macchine agricole, i filari verdi, le strade di meno di un chilometro che non hanno fine, tutti appartenenti allo specifico paesaggio del Parco del Serio, diventano segni, una lingua di linee e di solchi.

A. ritrova nel paesaggio quello che cerca, lo sceglie. La disposizione dei suoi scatti è tripartita (ma sarebbe più corretto dire multipartita), due pannelli e una lunga tavola bassa trasversale (del suo lavoro, la mia parte preferita) che ci obbliga a guardare dall’alto, staccati e leggeri. Una scelta intelligente, emotiva ed efficace. Mancava.

La mostra si articola in questa lunga galleria luminosa le cui pareti spariscono grazie all’allestimento che modula aria e luce in una scenografia di linee voluminose.

E’ un’evidente potenza di senso che saltella elegantemente grazie alla ricerca dei due artisti che dialogano a voce ferma e cristallina in un’irresistibile teoria di forme coerenti.

I kimono di Zamboni su carta giapponese, ad una grandezza che definire naturale verrebbe da chiedersi: “Naturale per chi? In che senso?”, veleggiano come sismografi rigonfi di senso, sono, “in sé”. Nella sua ricerca la meraviglia è centrale.

Con intelligenza tagliente e divertita immaginazione la sua osservazione è rivolta verso la natura, quella minima, con colorita acribia, dell’insetto regale che gironzola su una peonia pronta a scoppiare. Z. ha una capacità poetica e di sintesi che non può essere spiegata a parole, se lo è sono solo sue.

Ho seguito con curiosità profonda la parte condivisa relativa alla preparazione del lavoro di Zamboni per questa mostra e, non lo nasconderò mai, ne sono rimasta, com’era facile prevedere, strabiliata. E’ una disegnatrice, non solo in senso tecnico, quello forse ne è la parte minore, dotata di grazia spietata.

Tra i suoi kimono svolazzano sassi, si posano palle, cantano in coro i segni e la luce, un’orchestra di buste da cui escono momenti meravigliosi. Poi c’è un baobab con i capelli cerulei e delle peonie che rifiutano il rosa, non come concetto, ma come manifestazione, è già la loro essenza. Che fiori dalla multipla personalità.

E gli esercizi di forme inscritte? E le foglie circolari che dialogano con il retro? Sono sicura che quando si spengono le luci in quella stanza si scatenino conversazioni fittissime e divertenti fra un pezzo e l’altro di essenze esposte.

Come è facile intuire non riesco a mettere da parte l’entusiasmo che mi si è cucito, su misura, addosso insieme ai fili penzolanti dei kimono.

A mio parere, come nota su questa artista, illustratrice e docente, parte del suo meglio, si trova nei non finiti, nelle prove di colore delle matite. Lì si apre tutto, soprattutto quello che non vorresti, dalle zanzare all’incertezza che quello che stai guardando con appagamento.

Come detto da Zamboni durante la presentazione, ci sono qui, evidentissime, una parte formale e una concettuale da cui si è soggiogati.

Mi ha conquistata questa gita in questo armadio del cielo, di una società con un linguaggio suo, con esalazioni che profumano di un letame d’oro, con le volpi con zampine aeree e galli usciti dal ricevimento professori, i pesci che dirigono un traffico acquatico.

Citando ancora Zamboni, quando all’apertura ha affermato che il concettuale ha un suo linguaggio e che come tale ha una sua grammatica che va imparata, mi viene in mente che vorrei tanto il concetto comunemente inteso avesse questo lessico, questo rispetto che si impone da sé per la forma come limite che polverizza.

Il rapimento del dettaglio e dell’analisi che non conoscono fronzoli.

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