Esiste una funzione in Photoshop che risponde al comando di Ctrl+I, l’inversione, tanto comoda quanto beffarda compagna dei nostri venti odierni. Che sia un voltagabbana, un vento improvviso o un’inaspettata emozione contrastante davanti a qualcuno che ci sorprende, questa funzione digitale arriva e scompagina. Fa diventare il bianco nero e vice-versa. Ma la cosa più interessante appare quando si applica questo comando alle foto, sembrano tutte a raggi X. I nostri occhi diventano bianchi, noi diventiamo fantasmi.
Che il bianco sia il colore degli spiriti e degli angeli, ma anche della pulizia, dell’ultraterreno, ne hanno parlato in tanti e tante volte, anche Michel Pastoureau ne “I colori del nostro tempo”[1].
In ogni caso, all’inizio dei tempi i “colori” erano tre: bianco, rosso e nero. Nessuno di questi si contrapponeva apertamente all’altro, cosa dirompente per dei dualisti come noi, oltretutto. Con buona pace dei binaristi incalliti.
I “tempi”, per me e non per gli altri esseri umani, erano il primo anno di IED, quando affrontai con un piglio tra il luciferino ed il cavalleresco il corso annuale di “Teoria del colore” tenuto da un’artista e docente strepitosa, Pilar Dominguez[2]. Ella spiegò per anni a platee di occhi tutto quello che c’è da sapere e custodire sulla combinazione dei colori, con parole di Itten, Goethe e sue, dispensate attraverso il suo inconfondibile idioma italo-cileno con schiaffetti di Milanese.
Per non complicare troppo le cose partiamo però dal foglio/tela bianco, la paura incarnata di molti, troppi, autori che intendono scrivere, comporre, ritrarre e, più in generale, inventare. E’ paura del vuoto? Secondo me è paura del silenzio. Paura e silenzio infatti non sono sinonimi anche se non facciamo davvero mai esperienza né dell’uno né dell’altro. Forse perché è più facile e perché detesto il cosiddetto “rumore bianco”.
Senza suoni è il terrificante bianco della neve del Carso, quello che Aida[3], superlativo personaggio di Vanna Vinci, incontra durante le sue peregrinazioni triestine per dare pace a sé ed al fantasma di suo zio, morto dopo la Grande Guerra. Quel bianco gelido di roccia è “vuoto ma pulito”, incute timore per il suo candore muto anche solo a leggerlo. Per me è l’archetipo del bianco e della sua crudeltà.
Nel 1918, Kazimir Severinovič Malevič dipinge un’opera dal titolo: “Composizione Suprematista: quadrato bianco su fondo bianco”. Per quei tempi, ma non solo, si trattava della radicalità portata all’estremo. “Il potere della statica attraverso un’essenziale economia della superficie”.
Un’opera che non rappresenta nulla, esiste da sola, senza bisogno d’altro, senza senso, come noi e come la guerra. Proprio perché la guerra, in fondo, è così umana. Direi ben oltre l’onestà, esattamente quella di cui non ce ne si fa nulla. Colpita e affondata ogni superficie, per l’ennesima volta. Finché qualcun altro non deciderà di appoggiare corpi alle tele (Klein) o di accoltellarle (Fontana, che mi immagino sempre mentre grida “Tū quoque, Brūte, fīlī mī!” in un pastiche di vario genere).
Con un’idea di ovvietà, che oggi vediamo, legata alla sua produzione, la mano dell’artista si coglie nelle palpabili variazioni di bianco, nella stesura e, macroscopicamente, nella forma. Il quadrato non è affatto simmetrico: è vivo, impreciso, imprevisto nel suo sfondare uno spazio definito e senza limiti. Un’enorme e pesantissima liberazione.
Ricordiamolo: siamo nel millenovecentodiciotto russo, mica ad Albino in provincia di Bergamo. Con buona pace di Moroni. Quella di Malevič è utopia totemica di un mondo di pure forme raccontato da un’arte, finalmente, non-oggettiva. E’ tutto tranne che puro anche se alla purezza si rifà, lo vuole essere e ne vuole fare.
Se in alcune culture il bianco è il colore del lutto, non lo è nell’Occidente. Ma bianca, ahinoi (per non dire “limortacci”), è la purezza, la spada di Damocle che non riposa mai nelle nostre costole. I lenzuoli saranno bianchi per secoli. Gli elettrodomestici sono, spessissimo, candidi, o quantomeno “Candy”. Il bianco è il colore dei colletti inamidati, del freddo, della pelle dei razzisti occidentali.
A questo proposito come non citare la gaffe epocale di Sabina Impacciatore che, come omaggio al suo compleanno, fa preparare per Mike White (creatore di The White Lotus, serie culto che ha consegnato l’attrice italiana all’idolatria internazionale) una torta lattea con la bandiera italiana e quella americana gemellate sotto la scritta in cioccolato “White at heart”. Anziché citare Lynch, ha inneggiato alla “white supremacy”, senza volerlo, gelando tutto il cast. Anche qui, con buona pace della cancel culture, del suo carrozzone e delle figuracce internazionali. Qui, e più precisamente al minuto 6.19, ne trovate un gustoso racconto in un magistrale accento maccheronico.
Anche questo c’entra, se ci si pensa. Ci siamo convinti per anni che molto più di quello che è, ed era, fosse sempre stato bianco, in un razzismo ideologico nei confronti anche solo dello sporco. Per mia madre il contrario di “bianco” è “sporco”. Vallo a dire ai Marlene Kuntz. Che colore ha lo sporco? Il non-bianco.
Per secoli abbiamo creduto bianchi l’intera statuaria classica, le chiese romaniche e molti altri luoghi di culto dilavati dal tempo e privati delle loro brulicanti tinte accese. Erano tutto tranne che minimalisti e deprimenti.
Il tempo, e il Neoclassicismo a sua volta, ce li hanno consegnati alla memoria così, svuotati, puri (di nuovo questo ingabbiante concetto orripilante), anche quando si tratta di muri ancora sanguinanti di segreti ed esecuzioni e sculture che sembrano lavate con la candeggina. Recentemente sono stata al Victoria & Albert Museum per una sessione di disegno (sì, sono una di quelli che non era mai stata in un museo a disegnare le opere) e, stordita dalla collezione, ho intercettato un capitello azzurro.
Un cielo intarsiato che per secoli ha sorretto altri cieli, immaginati e immaginari e cupole, volte, pensieri, pezzi per coprire le teste dei fedeli o dei curiosi. Chissà come sarebbe stata la nostra percezione della classicità e di gran parte del medioevo se ci fosse stata consegnata viva, anziché imbavagliata nel silenzio cromatico?
Note
[1] E meglio ancora ne parla in “Bianco. Storia di un colore”, Ed. Ponte alle Grazie.
[2] https://cargocollective.com/pilardominguez
[3] “Aida al confine”, Vanna Vinci, prima edizione Kappa Edizioni. Oggi edito da Bao Publishing.
Arianna Tinulla Milesi è artista, illustratrice multimediale e nasce a Bergamo prima della caduta del Muro di Berlino. Si laurea in Arte Bizantina alla Statale di Milano e successivamente in Arti Visive – illustrazione allo IED. Al centro della sua pratica c’è il disegno come forma mentis, un tramite e mai un fine. Collabora internazionalmente con spazi espositivi, gallerie e musei. Le interessano le interazioni, la memoria, il folklore e la devozione, la percezione della violenza e il concetto di limite. Dal 2024 collabora con l’Orto Botanico di Toscolano Maderno parte dell’Università di Milano, per promuovere il disegno sperimentale come approccio libero verso il mondo naturale e non.
Questo le ha fatto venire in mente che potesse essere una buona idea partire alla volta del Galles per partecipare alla Mawddach Residency e studiare le alghe, il suo terrore più grande. Arianna è membro del Council della Society of Graphic and Fine Art, l’organismo che si cura di promuovere l’arte del disegno dal 1919 nel Regno Unito e nel mondo. I suoi lavori sono esposti presso istituzioni artistiche in varie parti del mondo e non sempre vogliono tornare a casa. Ama Piero della Francesca e Paolo Uccello, la sua power couple preferita sono Raffaello e Pietro Bembo, la gamma di colori dal vermiglio al lampone, sulle labbra e nei vestiti, i capelli estremamente corti, Adrien Brody vestito da Salvador Dalì, accarezzare gli animali e cantare a squarciagola. Ha adottato un gatto di nome Pilade, ricama e si produce vestiti con alterna fortuna, legge Giada Biaggi e Hilary Mantel, ascolta Paolo Conte, PJ Harvey, Fred Buscaglione e prova a fare snorkeling nel lago di Garda. Tra i suoi appuntamenti per il 2025 ci sarà un percorso di ricerca come artista in residenza presso la School of Art & Design dell’Università di Nottingham Trent all’interno del progetto AA2A. Il suo motto è: “Adoro i piani ben riusciti” e “Ogne melù al g’ha la sò stagiù”.