Giulia Stanciu è un’artista di confine, come di confine la cittadina da cui è partita un giorno per vivere stranita a Vienna. Giulia è di Oradea, in Transilvania, ad un pugno di metri dalla frontiera ungherese. Prima che i suoi disegni colorati, di lei mi ha colpito la grafia bella e anacronistica, preludio di quel piacere per il disegno che avrebbe poi via via abbandonato a favore di un colore senza confini definiti.
Invero l’arte di Giulia sembra tracciare confini, ma poi li cancella, delimita una rotta, ma poi l’abbandona, sempre in bilico tra ordine e caos. Tutto nasce da un profondo senso di insoddisfazione per il reale, soprattutto quello urbano. Angosciata dall’horror pleni dello stanco sopravvivere cittadino, Giulia rincorre Mondi altri, di fiori e draghi d’acqua, di terre rosa illuminate da lucciole e lune di giorno, di spiriti legnosi e uccelli di cristallo verde.
Sotto il profilo della critica d’arte, vedrei alcuni rimandi a certa pittura surrealista di Max Ernst, come nell’acquarello con sale di “Terra esotica”: la campitura di fondo turchese fa da controcanto a piante ed arbusti che ora emergono ora s’inabissano in una terra non conosciuta prima. Lo stesso turchese, in alto, vede affiorare alberi capovolti le cui radici si presumono nel cielo superreale.
In “Terra magica” vedrei invece certa pittura che ci arriva dal Medio Evo e risente ancora delle carestie e delle pestilenze di quel periodo: s’intravedono combinazioni di piante che disegnano sulla linea di un orizzonte fantastico piccole torri di pace in un intorno ancora minaccioso. Nonostante il rosa rassicurante di una terra che sembra emanare un benefico tepore, lo scenario apocalittico mi richiama il romanzo “La strada” di Cormac McCarthy. Poi dico anch’io, a dispetto dell’orrore intorno: “Sì, ce la faremo!”
L’opera “Terra delle lucciole” è l’unica “tecnica mista”, dove all’acquarello si alternano gessetti e matite colorati. Qui mi sovvengono certe atmosfere nordiche di Edvard Munch e quel tripudio di colori tipico della pittura naive di Marc Chagall: qui, a differenza che in altri disegni di Giulia, il colore esprime una gioia di vivere rara, sorta di ebbrezza dionisiaca.
Chiamata a dire della sua arte, Giulia parla di “naturalezza”, di “luminescenza”, di “divinazione”, di “bellezza al femminile”. Fondamentalmente Giulia ama un’arte “intuitiva”, alla ricerca di “forme”, ma soprattutto di texture, che le possano dare un piacere estetico e quindi una pacificazione interiore. Da qui, ad esempio, la scelta di usare il sale, per quell’effetto di cristallizzazione mai tuttavia stabile: anche in questo caso Giulia si muove tra il liquido e il solido delle sue materie colorate, per una resa che vuole essere fluida come il suo Mondo.
Ecco allora che si spiega la scelta cromatica informale di alcuni acquarelli, dove la figurazione scossa di altre opere lascia il posto ad un’espressione astratta evocativa di certa pittura statunitense degli anni a seguire la seconda guerra mondiale.
C’è infine un lavoro di Giulia di cui voglio ancora dire: “Terra di preghiera”. Provo a descriverlo: la scena è apparentemente semplice nel suo naturalismo, un cielo matissiano cinge delle rocce tufacee o argillose, in basso fiori liquidi creano un hortus conclusus.
Lì, in quel cerchio di sabbia, è la “terra di preghiera”, una preghiera laica, una preghiera d’amore, di comprensione e rispetto per il tutto intorno oltre l’umano.
Cosentino di nascita, sopravvivo a Roma, estrema propaggine di Calabria. Artista visivo, da qualche anno in prestito alla fotografia, mi accorgo di continuare a dipingere anche quando scatto foto. La verità è che non capisco mai nelle cose che faccio dove inizia e finisce la pittura, dove la scenografia, la ceramica, la scultura, la fotografia. Capita pure di essere premiato, così è successo nel 2005, nell’ambito della III Biennale Internazionale della Magna Grecia di San Demetrio Corone (CS). Ho voluto che il dipinto presentato in quell’occasione, “Bastardo a Sud”, fosse l’immagine emblematica della mia rubrica su DEEP HINTERLAND: quale immagine migliore per i miei “percorsi artistici marginali”?