In questi giorni di metà 2022, dopo due anni di continua discussione mediatica dedicata alla pandemia e dopo mesi canalizzati da (fin troppe) chiacchere sul conflitto Russo-Ucraino, tra i giornali e le bacheche digitali rispopola il nome di Gianluca Vacchi. Ricco ereditiere per caso e performer digitale per scelta, Vacchi si impose al pubblico italiano ed internazionale circa una decina di anni fa grazie ai suoi colorati balletti, caricati sulle piattaforme di Tik Tok ed Instagram, nei quali coinvolgeva anche la sua compagna ed il suo entourage di colf e camerieri.
Fin da allora, Vacchi ha lavorato sapientemente sulla costruzione a tavolino e promozione della sua immagine pubblica di miliardario intelligente, perspicace, ma soprattutto edonista ed amante delle forme più oggettivamente infantili di divertimento.
Ma proprio in questi giorni riscoppia il caso Vacchi a causa di una ex colf del suo entourage. Questa, stanca del comportamento del suo capo, lo denuncia per atteggiamento aggressivo sul lavoro, al cui centro ci sono le sue ossessive richieste di partecipazione a svariati balletti virtuali. Al contempo, la recente discussione sul fenomeno Vacchi è stata altrettanto stimolata da un documentario, prodotto e distribuito da Amazon, intitolato “Gianluca Vacchi – Mucho Más”.
Il documentario in questione si colloca in quella recente tradizione Amazon di documentari agiografici dedicati a figure polarizzanti del contemporaneo, il più noto dei quali è quello di Elisa Amoruso dedicato a Chiara Ferragni. Ma se il documentario sulla Ferragni tentava di legittimare la celebrazione della figura sociale dell’influencer tramite un sottotesto idelogico di liberismo ed arrivismo spicciolo, il documentario su Vacchi è, senza alcuna vergogna nè limite, pura e gratuita autocelebrazione individalista, megalomane come il suo protagonista, praticamente un altare al suo ego.
Proprio in riferimento ad altari come estensione del proprio ego, mentre guardavo il film, ho subito pensato al maniero in cui Kane, protagonista fantasma del capolavoro di Orson Welles, si rifugia al termine della sua vita. Già nel 1941, infatti, “Citizen Kane” di Orson Welles (tradotto in Italiano come “Quarto Potere”) tentava di riflettere sulla questione dell’Io frantumato dell’essere umano postmoderno. Ed è forse proprio da Kane a Vacchi che si può tracciare una linea ideale su quella che è la rappresentazione dell’io nel mondo liberale.
Kane, simbolo di potere, successo e notorietà, veniva mostrato da Wells come un personaggio senza volto. La sua vera identità era celata allo spettatore ma forse anche agli altri personaggi che lo circondano. L’identità del magnate era disezionata in svariati frammenti che, una volta assemblati, creavano un puzzle sghembo, pieno di buchi ed immerso in uno sciame di contraddizioni. Kane era il prodotto di un incrocio di sguardi: dai racconti degli enti di comunicazione a panoramiche più intime e private. Se l’uomo di Wells era un prodotto di chi lo osservava e raccontava, quindi, il divo diveniva l’iperbole di questo processo di (de)umanizzazione, fagocitato come era da narrazioni tanto private quanto pubbliche.
Ma se già nel 1941 l’Io dell’essere umano era già ampiamente frammentato, la nascita dei nuovi media digitali ha garantito all’Io contemporaneo una frantumazione in parti ancora più minuscole e talmente numerose da risultare pressochè infinite. I nuovi media hanno infatti aggiunto una variabile ulteriore al processo di (de)umanizzazione abbozzato in epoca bellica da Wells: essi hanno dato alll’essere umano il potere di affermarsi individualmente, gli hanno donato la possibilità di affermare un singolo sguardo, far prevalere una singola narrazione personale sulle altre.
Da ciò la nascita della web star, dell’influencer e di altre entità di simile natura che hanno tutte in comune la capacità di affermare e vendere la propria immagine. E su questo discorso si inserisce il film dedicato a Gianluca Vacchi, il già citato “Mucho Mas”. Venduto da Amazon (e promosso sui social media) come un nuovo sguardo sul miliardario amato ed odiato da milioni di persone, il documentario si dimostra l’ennesimo tassello a conferma dell’immagine che Vacchi ha sempre dato di sé stesso: un uomo sfacciato, di successo, amante del divertimento, ma dalla fine intelligenza.
Si completa così un percorso, tanto visivo quanto antropologico, che conduce dalla personalità dispersa di Kane, che subiva la frammentazione mediatica, a quella problematicamente ritrovata di Gianluca Vacchi, che lavora mediaticamente e costantemente per affermare quel suo Io immenso e contrastare quella frantumazione ormai infinita di cui potrebbe persino risultare vittima.
In tal senso risulta calzante anche l’altro documentario agiografico di Amazon, quello su Chiara Ferragni. In quella pellicola Fedez, tanto marito della nota influencer quanto personaggio “social” egli stesso poneva una riflessione simile a quella che emerge dal documentario su Vacchi. Giustificando la scelta di includere i persino propri figli minorenni nelle sue rappresentazioni mediatiche, il rapper milanese infatti sosteneva: “rendo pubblico mio figlio per evitare di farlo diventare vittima dei pararazzi”.
“Gianluca Vacchi – Mucho Más” è quindi il “Citizen Kane” del ventunesimo secolo. Oppure è quantomeno un film che porta allo scoperto la medesima riflessione effettuata da Wells, traslandola però sul piano temporale della contemporaneità. Ed infatti se Citizen Kane apriva con l’imperante “No Trepassing”, Mucho Más apre con uno sguardo in macchina. Lo sguardo in macchina del suo protagonista che invita lo spettatore ad entrare nella propria vita allo scopo di renderla tale. Sempre e comunque, e senza mezzi termini.
Frequento l’ultimo anno di DAMS a Palermo, dopo aver concluso un percorso all’accademia di cinema Griffith, a Roma.
Studio da tempo la cultura pop e le sue, svariate, manifestazioni. Su di queste ho organizzato pure 3 seminari all’Università di Palermo.
La mia rubrica approfondirà le dinamiche e i linguaggi dell’arte popolare, con particolare attenzione a come, oggi, questi vengano percepiti dai nuovi media e le nuove generazioni.