Ho studiato Scienze dei Beni Culturali alla Statale di Milano ben prima che ci fosse Instagram. Anche se forse già a quei tempi esisteva un filtro, quello chiamato “vetro di regionale”, generato non da un software di immagine ma dalla proverbiale mancanza di pulizia che ancora regna sui treni regionali Bergamo-ovunque. Un metro di valutazione per dare l’idea di quanto una casa, un treno, e persino una preparazione artistica abbiano bisogno di pulizia, un po’ come le banane hanno bisogno di Potassio [1].
Ho studiato in treno, per strada, per terra, a casa d’altri, a casa mia, in case condivise. Ho studiato in chiesa, ho studiato nei musei. Ho anche portato i libri d’arte su cui studiare dentro i musei, quando ci lavoravo. Una sorta di frattale, lo studio nello studio. Poi succede che ci si dimenticano le date, le pagine e le maledizioni verso quello che non potevamo sopportare (e forse capire), ma restano i pilastri interni di ciò che abbiamo imparato e guardato con occhi nostri e consapevoli. Il famoso latino che magari ci si scorda, ma che ci ha permesso di costruire le nostre tubature da cui scorre acqua sempre nuova.
A volte però si corre un rischio. Il rischio è che la deformazione professionale che crediamo ci ammorbi all’inizio dei nostri studi, quella che ci porta ad imparare un mucchio di nozioni tutto sommato sterili tipo quante volte è crollata la cupola di Santa Sofia a Costantinopoli, non venga stemperata nel tempo; prima dalla dimenticanza e poi, finalmente, dalla liberazione dai bordi. In questo sfortunato caso, si rimane intrappolati nell’enigmismo, ci si gode poco o niente dell’esperienza artistica, non si va oltre il proprio naso a manuale.
Le forme più gravi di questa condizione impongono di correggere sempre il vicino di visita, di tavolo o di posto quando questi inevitabilmnte dice baggianate riguardanti la vita di un artista, se non addirittura la fatidica e odiosa frase: “Questo lo sapevo fare anche io”, cugina carnale della ben più famosa: “Se mia nonna avesse avuto le ruote…” probabilmente sarebbe stata un Kalashnikov [2].
Fortunatamente per me di nozioni ne ho spalate via a vagoni dalla mia memoria. Sono incappata in frenetiche crepe, pugni nella pancia e domande interessanti e superflue. Tutto questo per un semplice motivo: ho trattenuto concetti e collegamenti, dimenticando date e schemi. Ho fuso e ridimensionato, soprattutto ho riguardato e pazientato. Ho cercato e cerco ancora insistentemente di allenare i miei occhi a ciò che vedo. Non ho alternativa, la pena sarebbe la morte, a cui sono sfuggita diverse volte nonostante abbia proclamato ripetutamente che non mi piace Picasso, non sopporto Banksy e preferisco quel vecchio catafalco di Ruskin a Turner. Tutto questo, per ora, pronto ad essere spazzato via.

Ecco di cosa vorrei disquisire, proprio a partire da questo articolo, in questo spazio libero dedicato all’arte in varie forme. Vorrei parlare di ciò che vedo e trovo interessante nell’arte ed in ciò che la circonda, non necessariamente protetta dai possenti muri museali o dalle candide e competenti pareti di una galleria. Non è una minaccia, solo un onesto avvertimento.
Questa mia nuova serie di interventi su Deep Hinterland si intitolerà “Citofonare Piano Nobile” proprio per quanto scritto sopra. Sarà uno spazio di opinione a cui si accede da un cortile interno semplicemente citofonando, perché là sopra forse qualcuno ci ama e, di solito, ci aspetta in casa [3]. In altre parole, questo spazio è figlio di un binomio zozzo che unisce il concetto di citofono, preferibilmente squadrato, grigio ratto sbiadito, anni settanta, molto pop e sguaiato, con l’idea dell’appartamento al piano nobile. Un piano nobile sì, ma non snob, non isolato e certamente non al riparo dalla puzza della strada. Un luogo dove ci siano l’agio, la libertà e lo spazio indispensabili per fruire dell’esperienza artistica, ovunque ci imbattiamo in essa, che sia cercata e consapevole o meno.
Note (sul registro):
[1] Sto parlando del famigerato Banana Equivalent Dose. E’ un fattore scientifico che esiste veramente, lo giuro!
[2] Assunta Mangili (1923-2004), impareggiabile cuoca, sarta, falegnama, donna di sopraffina fantasia. Sono ancora leggendarie le sberle da lei mollate, in quantità fortunatamente esigua. Solo una persona è ancora qui per raccontarne, ma preferisce non rivangare il dolente episodio.
[3] Frase liberamente ispirata da Là sopra qualcuno ti ama dei Casino Royale, 1997.

Arianna Tinulla Milesi è un’artista e illustratrice multimediale nata a Bergamo prima della caduta del Muro di Berlino. Si laurea in Arte Bizantina alla Statale di Milano e successivamente in Arti Visive – illustrazione allo IED. Al centro della sua pratica c’è il disegno come forma mentis, un tramite e mai un fine. Collabora internazionalmente con spazi espositivi, gallerie e musei. Dal 2024 collabora con l’Orto Botanico di Toscolano Maderno, parte dell’Università di Milano, per promuovere il disegno sperimentale come approccio libero verso il mondo naturale e non.
Arianna è membro del Council della Society of Graphic and Fine Art, l’organismo che si cura di promuovere l’arte del disegno dal 1919 nel Regno Unito e nel mondo. Ama Piero della Francesca e Paolo Uccello, Raffaello e Pietro Bembo, la gamma di colori dal vermiglio al lampone, i capelli estremamente corti, Adrien Brody, accarezzare gli animali e cantare a squarciagola. Ha adottato un gatto di nome Pilade, ricama e si produce vestiti con alterna fortuna, ascolta Paolo Conte, PJ Harvey, Fred Buscaglione e prova a fare snorkeling nel lago di Garda. Il suo motti sono: “Adoro i piani ben riusciti” e “Ogne melù al g’ha la sò stagiù”.