L’altro 11 settembre: Allende, il golpe cileno e l’ombra nera di Pinochet

Ero a Santiago del Cile un 11 settembre di qualche anno fa. Mi aveva accolto un inverno australe particolarmente rigido, l’aria fredda che arrivava dalla vicina Cordigliera Andina suggeriva di sostituire al più presto l’abbigliamento leggero con cui ero giunto dalla Colombia con più adeguati pantaloni e maglione di lana.

La città appariva grigia e fredda, promettendo una pioggia che non tardò ad arrivare ma che non mi impedì di giungere quella mattina davanti al Palacio della Moneda, nel cuore della città, dove quello stesso giorno di qualche decennio prima, si consumava una tragedia difficilmente immaginabile fino allora: il bombardamento di un palazzo presidenziale con il suo Presidente all’interno.

Il Palacio della Moneda a Santiago del Cile. Photocredit: Consejos de Monumentos Nacionales de Chile.

Era difficile osservare e, almeno per quelli della mia generazione, non ripercorrere con la memoria il dramma di quella dittatura che aveva afflitto il Cile dai primi anni Settanta per ben 17 anni. Quella cilena era una tirannide diversa da quelle apparse in quegli anni e seguite al “Plan Condor”, con il quale il premio Nobel per la pace Henry Kissinger si proponeva di sbarrare il passo alle magnifiche e progressive sorti della dittatura del proletariato, solito pretesto delle classi dominanti per mantenere immutati gli equilibri del potere. La peculiarità del golpe cileno infatti risiedeva soprattutto nel fatto che non andava al potere il solito Generalone che sostituiva un altro Generale che a sua volta aveva scalzato quello precedente.

In Cile, in quegli anni, al governo c’era un leader eletto democraticamente e persino con il placet dell’esercito, considerato sino al Settembre del 1973 il più democratico del Sudamerica. Due anni prima infatti era salito alla presidenza della Repubblica Salvador Allende, un medico dell’alta borghesia criolla, colto, ottimo conversatore, amante del buon vino e delle donne, nonché amico personale di tutti gli intellettuali del Paese, ad iniziare da Pablo Neruda che, per favorirlo, rinunciò alla corsa presidenziale, praticamente aprendogli la strada alla vittoria. Che fu netta.

Il poeta e diplomatico cileno Pablo Neruda. Photo credit: Poetry Foundation.

Il popolo si espresse in massa a favore del piano blandamente socialista ma socialmente avanzato con il quale Salvator Allende intendeva guidare il Cile. Ebbene, quegli aerei che una grigia mattina dell’ 11 settembre del 1973 sventrarono La Moneda, squassarono anche un sogno, quello di un governo democratico in un Paese di un Continente che la democrazia l’aveva conosciuta molto poco.

I piani economici di Allende non erano quelli quinquiennali dell’URSS ma erano troppo “sociali”, più attenti al ceto popolare che a quello alto borghese. Ciò provocò quei timori che innescarono, da parte dell’establishment finanziario cileno, misure protettive quali scioperi e soprattutto serrate, quasi sempre manovrate, soprattutto nel settore chiave dei trasporti.

Furono pratiche che in breve tempo depressero l’economia, causando penuria di beni di consumo e scarsità di servizi e, conseguentemente, gravi conflitti sociali. Allende, per fronteggiare la grave situazione economico-sociale, avrebbe avuto bisogno di aiuti anche dall’estero, magari dagli altri paesi socialisti. Che non arrivarono mai.

Il leader socialista e Presidente cileno Salvador Allende.

El doctor rifiutò le armi offerte da Castro, mentre Breznev si limitò a dirottare alcune navi che incrociavano il Pacifico verso il porto di Valparaiso. Erano piene di inservibile ferraglia residuata dalla seconda guerra mondiale e giungeranno in Cile solo quando Allende sarà già sottoterra.

Salvador pensa quindi di rivolgersi direttamente alla nazione, una “provocatio ad populum” tesa a sedare una situazione esplosiva. Sa di potercela fare, gode ancora di grande popolarità tra i ceti medio-bassi. Convoca il Gabinetto del Governo ma ha gia deciso. Il suo più stretto collaboratore militare, il Generale Pinochet, però lo convince a posticipare l’annuncio di tre giorni. Questo è però proprio il tempo che manca all’Augusto e “fidato” consigliere per armare l’aviazione ed avere il placet di Washington al Golpe. Meglio che il popolo non sia allertato dalla forza oratoria e dalla capacità trainante de El Presidente.

Questo rinvio sarà il grande errore di Salvador Allende, che morirà barricato sotto le macerie della Moneda con l’elmetto in testa ed in mano un mitra regalatogli da Fidel Castro. Pablo Neruda passerà a miglior vita, ufficialmente per un tumore alla prostata, pochi giorni dopo; il suo ministro dell’Interno Orlando Letelier ci rimetterà la pelle, crivellato di colpi nel centro di Washington. E mentre le università cilene venivano chiuse, si aprivano gli stadi di calcio per accogliere i dissidenti politici. Ma soprattutto venivano spalancati i cancelli di Villa Grimaldi, il lugubre teatro della dittatura dove andranno in scena gli orrori di quel tempo.

Papa Giovanni Paolo II benedice la dittatura neofascista di Augusto Pinochet con l’appoggio degli Stati Uniti. Photo credit: GDR Italia.

Ha inizio così il periodo oscuro della dittatura clerico-fascista cilena, benedetta dalla Santa Sede che per prima, assieme agli USA, riconoscerà il governo golpista per mezzo del suo plenipotenziario cardinale primate del Cile e del Nunzio apostolico della Santa Sede. Questi addirittura serrarà le porte dell’ambasciata del Vaticano a Santiago, impedendo l’accesso ai dissidenti politici. Per inciso, Pinochet apparirà qualche anno dopo affacciato su piazza San Pietro fraternamente abbracciato a San Giovanni Paolo II benedicente Urbi et Orbi. Cosa che invece non fece il consolato italiano, che accolse tanti tantissimi dissidenti, vivi o morti che fossero. Persino il cadavere di una giovane donna torturata e scaraventata nel giardino della nostra rappresentanza diplomatica, come “prova” delle “orge” che colà si tenevano.

Cominciò in questo modo anche la diaspora dei tanti oppositori politici che non desaparecieron nelle notti cilene. Dopo il transito più o meno rapido in qualche campo di concentramento in Patagonia, tanti dissidenti cileni vennero, volenti o nolenti, esiliati in direzione Havana, Mosca, Berlino Est e anche verso Roma, dove sbarcarono gli Inti-Intillimani che allietarono (si fa per dire) per anni i festival dell’Unità con la loro musica andina e rassicurare il resto del mondo che “el pueblo unido jamas serà vencido”.

Gli Inti Illimani negli anni Settanta. Photo credit: L’Eco di Bergamo.

Anni dopo Pinochet, munito di conforti religiosi che non si negano a nessuno tranne ai suicidi, morirà dopo aver lasciato il potere e varato qualche legge ad personam, ma non prima di essersi autoproclamato Senatore a vita per gli “alti servigi” prestati alla patria. Prima, però, incappa in una spiacevole disavventura giudiziaria.

Convertitosi in mercante d’armi, infatti, media la vendita di carrarmati ed aerei da guerra col governo di Margaret Thatcher. Qualcosa però non va. La Lady di Ferro prima lo accoglie a Londra come un grande Statista, ma poi è costretta a metterlo agli arresti domiciliari perché cosi vuole la giustizia spagnola amministrata dal Procuratore Baltasar Garzon, davanti a cui il Generalissimo è accusato di crimini contro l’umanità e contro qualche centinaio di cittadini spagnoli in particolare. Alla fine lo lasciano tornare in Cile perché medici di parte dicono sia afflitto da demenza senile ed altri malanni.

A Santiago scende le scalette dell’aereo che lo ha riportato in patria sorridendo allegramente e saltando i gradini a due a due, provocando un tardivo sdegno internazionale ed anche qualche risata nelle Cancellerie di mezzo mondo. Ma i guai non finiscono per l’Hidalgo sudamericano. Perché l’avrà pure fatta alla giustizia spagnola, ma la sua legge sulla “obediencia debida”, con altre da lui volute e fatte approvare per salvaguardare la casta militare da antipatiche conseguenze dei crimini da loro commessi, vengono giudicate incostituzionali, aprendo la strada ai tardivi processi intentati un po’ ovunque ai militari golpisti e ai loro complici.

Il generale Pinochet assieme alla premier britannica Margaret Tatcher. Photo credit: Reuters.

Parte il processo a Pinochet, che però non si concluderà. Una serie di rinvii dovuti alla asserita incapacità dell’anziano generale di stare in giudizio, poiché ancora ritenuto infermo di mente, trascinano la causa sino a quando l’Augusto cattolicissimo dittatore non tira le cuoia in una confortevole villa dell’esercito, munito dei conforti religiosi a cui teneva tanto che, per inciso, 10 giorni dopo furono negati al suicida Piergiorgio Welby.

Una dipartita serena e giunta in tarda età, che sicuramente Pinochet non ha meritato, ma che soprattutto egli stesso ha negato ad Allende e a tanti, tantissimi altri.

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