L’altro accanto a me: un giorno di ordinaria antropologia

È il ventitré gennaio 2025[1]. È una qualsiasi giornata per un docente universitario che, come qualunque altro lavoratore, ha anche tanti altri ruoli nella vita (è padre, figlio, fratello, etc.) e, come qualunque altro essere umano, ama imparare nuove cose, passeggiare, scattare foto, chiacchierare e rilassarsi. È una giornata qualsiasi, ma non per questo meno degna di nota e osservazione. È una qualsiasi giornata, in parte trascorsa all’università, al lavoro.

Al ritorno dall’università, mi fermo sovente al Foro Italico; parcheggio e faccio una passeggiata per rilassarmi un po’, distrarmi in qualche misura, come posso, e prendere le distanze dai miei soliti ruoli. È ciò che faccio oggi. Il Foro Italico si trova nei paraggi del vecchio porto di Palermo, la città in cui vivo, ed è in via di riammodernamento. Anche se non è male già, così, nelle condizioni in cui si trova adesso. C’è l’erbetta nello spazio antistante il mare, ci si può sdraiare per terra o su qualche panchina dei dintorni, osservare beatamente la linea dell’orizzonte e scrutare felicemente le navi che abbandonano lentamente il porto. Che pace!

Il Foro Italico a Palermo. Photo credit: Stefano Montes.

In estate, poi, ci sono tanti bambini che giocano allegramente con i loro aquiloni e alcuni gruppi di Tamil che praticano i loro sport preferiti. Oggi, arrivato sul posto di agognato riposo, non intendo sedermi o sdraiarmi, come al solito, e lasciare correre i pensieri senza costrizione alcuna. Semmai sono in cerca di una prospettiva sul mare che attragga il mio sguardo a tal punto da potere essere fissata in foto a imperitura memoria del momento vissuto. Perché? Il mare mi affascina e mi perdo nella forza che fa scattare (come direbbe Bachelard) l’immaginazione liquida.

Ma non è solo questo. Non si tratta della mia persona esclusivamente. Il motivo è anche etnografico: non merita, forse, di essere conservato nella memoria anche un evento ordinario e quotidiano? Non merita, la routine, di essere indagata al pari di eventi straordinari, in prima istanza più avvincenti? Come ricorda Malinowski, il cosiddetto padre dell’etnografia moderna, si deve “studiare l’uomo [sic!] e ciò che lo riguarda più intimamente, cioè la presa che ha su di lui la vita”. L’antropologo deve studiare la vita in tutti i suoi aspetti, anche quelli più negletti. La vita va studiata scrivendoci, fotografando.

Anche Bronislaw Malinowski, l’inventore del metodo di ricerca etnografico, amava fotografare e farsi fotografare durante le sue ricerce sulla cultura dei nativi delle Isole Trobriand. Photo credit: LSE blog.

Tra l’altro, una fotografia non è che una trasposizione imperfetta del vissuto individuale e del mondo in quanto tale: quale che sia l’impostazione del fotografo o le sue mire estetiche, il mondo viene inevitabilmente ritagliato all’interno di un fotogramma delimitatore. Il vissuto, da parte sua, viene sempre circoscritto in modo frammentario e parziale. È, questa una ragione per arrendersi all’imperfezione? No, non lo è! È vero che, come sosteneva e si domandava Lévi-Strauss, “trascrivendo un’osservazione, quale che sia, non si conservano i fatti nella loro autenticità originaria: li si traduce in un altro linguaggio e si perde qualcosa per strada. Ma che dobbiamo concluderne? Che non si può tradurre né osservare?”

La trascrizione di una osservazione rappresenta soltanto in parte l’osservazione di partenza. Peccato! Ma non c’è davvero altro modo, in antropologia, se non osservare e trascrivere o testualizzare. Per quanto mi riguarda, questa imperfezione non costituisce problema. Anzi, è motivo di riflessione etnografica perché mi consente un costante andirivieni tra l’esperienza e la sua codificazione, tra la prossimità del vivere e la distanza del metodo di analisi. E oggi? Io sono in cerca, oggi, di una porzione di mondo che si imponga a me per le sue simmetrie e le forme ordinate. Sono arrivato al Foro Italico con questa idea fissa. La troverò? Mi imbatterò in quella giusta? Non dispero! Non si dice forse che ‘chi cerca trova’? Passeggio, intanto che ci penso su, qui e lì, da una parte e dall’altra del Foro Italico.

Vado avanti e indietro, finché, a un certo punto, il mio sguardo è attirato da un bel gioco di simmetrie. Niente male, mi dico! Allora mi fermo. Riprendo, con il telefonino, quello che mi sembra proprio un bell’equilibrio. Inquadro questo scorcio – accuratamente ritagliato – di mondo e scatto. Scatto senza esitare troppo. Scatto accentuando le simmetrie. Riguardo poi la foto, e sono tutto contento del risultato. Non c’è dubbio – rifletto – che c’è, nel fotogramma in questione, un bel gioco di simmetrie!

Simmetrie al Foro Italico. Photo credit: Stefano Montes.

A che pro, mi viene da dire? È quello che volevo inizialmente. E se si trattasse, invece, da buon antropologo indisciplinato, di fare tutto il contrario e di mettere a soqquadro le presunte armonie? Se, più che cercare elementi di un ordine presupposto, si dovesse – in chiave esistenziale – andare in cerca di disordini e disequilibri caratterizzanti i significati dell’esistere? Secondo Balandier, per esempio, ordine e disordine si costituiscono reciprocamente e non sono veramente separabili l’uno dall’altro.

L’equilibrio è comunque perfetto in questa foto, non potrei mai dire il contrario! Perché, dunque, pensare di mettere a soqquadro? Per meglio cogliere il mondo, bisogna anche cercare di attraversare i disequilibri, renderne conto al di là della (bella, ma sovente di superficie) prospettiva che offre l’equilibrio e l’ordine. In fondo, non mi occupo di estetica, ma di antropologia, e sono giustificato: il bello e il brutto soddisfano certamente, ma i disequilibri fanno riflettere, riconducendo ad altre polarità altrettanto interessanti, forse più profonde. Il mondo va vissuto in prima persona, ma va anche “ripensato”, prendendo ogni tanto le distanze dall’esperienza, attraverso gli accostamenti di categorie e i rimandi di elementi associati nelle varie serie parallele proposte da una cultura o l’altra.

Lo chiarisce molto bene lo stesso Lévi-Strauss quando (dopo avere mostrato i diversi incastri del crudo, cotto e putrido nelle varie culture) afferma che questi “contrasti sono senz’altro sovrapponibili a molti altri, di natura non più alimentare, ma sociologica, economica, estetica o religiosa: uomini e donne, famiglia e società, villaggio e foresta, economia e prodigalità, nobiltà e plebe, sacro e profano… Si può così sperare di scoprire, per ogni caso particolare, come la cucina di una società costituisca un linguaggio nel quale questa società traduce inconsciamente la propria struttura o addirittura rivela, sempre senza saperlo, le proprie contraddizioni”.

L’antropologo francese Claude Lévi-Strauss (1908-2009), uno che di simmetrie ed asimmetrie ne capiva parecchio. Photo credit: Wikipedia.

L’estetica è il risultato del modo in cui i valori di una cultura sono organizzati nel loro insieme: valori che, non necessariamente, sono quelli di un occidentale. E a me interessa, oltre l’esperienza diretta, anche la varietà e la comparazione dell’insieme dei valori in causa! Intanto, tornato in auto, indugio ancora un po’. Mi metto a guardare qualche foto, dal telefonino, che possa rappresentare in modo non ordinato una qualsiasi realtà da me ripresa, in passato, in foto. Devo trovare qualche foto che mi consenta di pensare a questa ambivalenza posseduta da equilibrio, simmetria e ordine. Mi serve per ragionarci su in maniera disincantata.

Rovisto, mi imbatto in una foto scattata in seduta di laurea, qualche tempo fa, in cui riprendo tre individui: uno studente, il fotografo della sessione e un mio collega. È un buon esempio. Nonostante si indovinino i ruoli, loro si vedono solo in parte e non si riconoscono, essendo, di proposito, i volti tagliati fuori dall’immagine. Scattando, infatti, durante una sessione di laurea, non cercavo di rappresentare identità, ma ruoli essenzialmente. Tagliando i volti, pensavo (forse ingenuamente) di meglio concentrare l’attenzione sui ruoli assunti dagli attori in causa.

In seduta di laurea. Photo credit: Stefano Montes.

Si può mai, tuttavia, ridurre all’osso un ruolo sociale? Per quanto riguarda la laurea, questa è, a tutti gli effetti, un rito di passaggio. E’ quel rito di passaggio attraverso cui lo studente esaminato passa da uno status all’altro, dalla condizione di studente a quello di individuo a cui verranno riconosciute delle competenze da parte di una commissione preposta a questo scopo. L’esame di laurea si configura, a tutti gli effetti, come una soglia.

Van Gennep ribadisce l’importanza delle soglie (da superare) per la vita sociale degli individui: “Sono sempre nuove le soglie da valicare: soglie dell’estate e dell’inverno, della stagione o dell’anno, del mese o della notte; soglia della nascita, dell’adolescenza o della maturità; soglia della vecchiaia; soglia della morte e soglia dell’altra vita (per coloro che ci credono)”. Il superamento di una soglia è regolato da coloro che vi prendono parte con ruoli diversi, ma sempre molto specifici. I ruoli, anche in una seduta di laurea, insomma, sono importanti e vanno rispettati rigorosamente. La formalità della cerimonia prevede che vi sia anche un fotografo che immortala l’evento a futura testimonianza, oltre che per il piacere personale dello studente di rivedersi in azione.

L’antropologo franco-olandese Arnold Van Gennep (1873-1957), grande specialista dei riti di passaggio. Photo credit: Wikipedia.

La foto è, infatti, uno dei modi attraverso cui lo studente può rivedere quei momenti cruciali in cui ha sostenuto, in vivo, l’esame e ha saputo superare con competenza le emozioni critiche del momento. Le emozioni contano. L’ansia, per esempio, in questi frangenti, va tenuta a bada. Le esitazioni vanno poste in resta. Il nervosismo deve essere tenuto sotto controllo. Il tutto al fine di riuscire nello scopo prefisso: superare l’esame e acquisire un nuovo status.

Più particolarmente, nell’immagine, si vede il fotografo fare una pausa mentre il laureando, con il supporto delle mani, spiega e dispiega la sua tesi. La sintassi del fotografo non corrisponde a quella del laureando: uno si riposa mentre l’altro è in piena attività. Cos’è mai questa asincronia? È la diversa ‘tensività’ dell’azione sociale che coglie picchi difformi (non combacianti) nella realizzazione dei programmi d’azione preventivati per gli uni e per gli altri. In effetti, lo studente ha un ruolo e un tipo di azione ben precisi da portare a termine. Ma lo stesso, benché in modi diversi, può dirsi del fotografo e del docente. Ognuno di essi è preposto alla committenza di un ruolo che non combacia esattamente con quello degli altri. In tutto questo, è bene anche precisare (era ora) perché il mio sguardo, tra le tante foto riviste, si è soffermato proprio su questa.

Perché, questa foto, la considero insomma un momento di parziale disordine o disequilibrio? Forse perché, nonostante ci sia (debba esserci) una necessaria armonia tra le diverse modalità del fare dello studente, docente e fotografo, ognuno di loro occupa una parte della scena con emozioni e pratiche notevolmente diverse da portare a termine. Paradossalmente, l’apparente armonia dell’insieme risulta dalla diversificazione delle azioni compiute ed emozioni provate dai singoli individui. Colpisce, più di tutto, il rilassamento del fotografo in opposizione all’attività dello studente esaminato: se uno attende, l’altro agisce; se uno si rilassa, l’altro è emotivamente coinvolto.

Fotografi professionisti ad una tesi di laurea. Sembrerebbero parecchio rilassati. Photo credit: Università di Valencia.

E il docente? Il docente ha un ruolo del tutto speciale nel rito perché si trova ‘dall’altra parte della barricata’ ed è chiamato a giudicare il lavoro dello studente con giustezza e giustizia. Valutare è un compito difficile. Ma non si tratta di questo soltanto. Non è soltanto una questione relativa alla capacità di applicazione di competenze, da parte di alcuni soggetti nei confronti di altri, nel campo della valutazione.

E allora? Qualsiasi rito di passaggio non si rivela che una vuota impalcatura (fondamentalmente inefficace) se non viene preso in carico da un simmetrico rito d’istituzione. È ciò che afferma Bourdieu allorquando propone di affiancare i riti di istituzione ai riti di passaggio. Affinché il rito di passaggio si realizzi effettivamente è necessario che colui il quale passa attraverso il rito rispetti le regole istituite dal gruppo istitutore. Nel caso della laurea, gli studenti sono coloro i quali devono ‘passare’ e i docenti sono coloro i quali ‘istituiscono’. Per dirla diversamente, i docenti stabiliscono le regole che non possono che essere accettate dagli studenti.

In altri termini, seguendo l’ipotesi di Bourdieu, il rito di passaggio non avrebbe un carattere di neutralità perché, tra le altre cose, ribadisce la forza delle regole istituite da un gruppo (i docenti) ed esercitate nei confronti di un altro gruppo (gli studenti). Altrimenti detto, il ruolo del docente è quello di ‘ricordare’ agli studenti il valore delle regole e l’importanza della loro adesione pubblica e ufficiale. È come se, con il rito di passaggio, gli studenti dicessero che accettano le regole, il loro valore e il fatto che siano istituite da coloro i quali ‘scelgono’ le regole stesse e chi deve passare. In qualche modo, il docente diviene, così, una sorta di garante non soltanto della regola in sé, ma anche dell’avvenuta adesione secondo convenzione.

Una foto particolarmente “istituzionale” del sociologo francese Pierre Bourdieu (1930-2002). Photo credit: Ssociologos.

Soddisfatto in parte dalle mie conclusioni di tipo strutturale, decido che è tempo di tornare a casa. Prima di farlo, non so bene perché, do un’occhiata a Facebook. È un automatismo a volte. Lo faccio senza una ragione precisa. Mi capita di farlo quasi senza accorgermene. Do un’occhiata per vedere cosa succede nel mondo e per tenermi in contatto con alcuni amici. Per quanto strano possa sembrare, è soprattutto un modo per prendere le distanze dal fascino del quotidiano e dalla presa immancabile esercitata su di me dalla prossimità degli eventi. È una via di fuga, in definitiva.

Mi imbatto subito in un post di ieri sera. È un post ironico. Mio figlio Emanuele ha ritagliato, su carta, la forma di uno scarafaggio e mi ha aiutato ad incollarlo dentro la lampada notturna che si trova nella mia stanza da letto. Se accendo la lampada, così, si crea un bell’effetto: sembra che un grosso scarafaggio abbia preso posto al suo interno e si riposi pacificamente, indisturbato. Rileggo con calma il post che ho scritto ieri sera per accompagnare la foto dello scarafaggio, il cui fine era quello di prendere simpaticamente per i fondelli i miei amici.

È, in fondo, un modo per giocare e avviare una conversazione scherzosa anche tra adulti. Non si può forse? Pensiamo, ingenuamente, che il gioco sia una forma di apprendimento riservato soprattutto ai bambini e agli adolescenti. In realtà, non si smette mai di imparare e il gioco può assumersi il ruolo, oltre che di diversivo, di strumento di apprendimento dei modi di stare in società e di comportarsi, nel tempo, per ogni età. Di fatto, come sosteneva Gregory  Bateson, il gioco “può essere intrattenimento, educazione, o un processo di autoscoperta”. Bateson insiste molto sul fatto che, tra le altre cose, il gioco consente di imparare la flessibilità in virtù del fatto che si passa da un ruolo all’altro. Io rileggo il brano a voce alta, lentamente, così come è scritto su facebook, e sorrido.

Uno scarafaggio per finta. Photo credit: Stefano Montes.

Il mio post recita: “È successo. È tornato. Sono felice. Sono al settimo cielo Dopo una settimana di assenza, beat – così lo chiamo ormai da tempo – è tornato a casa, è tornato da me. Ha ripreso il suo solito posto: all’interno della lampada, al calduccio, al riparo, sul mio comodino. È molto abitudinario. È legato a me. E io non capivo dove fosse andato a finire. Tutto questo tempo! La sua assenza era diventata insopportabile. Se si allontana, solitamente, non sta via più di un paio d’ore. Ma non oltre, e non lo fa spesso. A volte fa qualche capatina in cucina. Suppongo che vada in cerca di qualche briciolina di pane. Suppongo che voglia distrarsi un po’. Ma tutto qui. Poi, torna sempre.

Torna e mi tiene compagnia, soprattutto la notte. Di giorno, gioca con i miei figli. Si nasconde per gioco. Si lascia accarezzare. È molto socievole. È diventato un passatempo per tutta la famiglia. Una volta, per sbaglio, gli ho tranciato una zampetta. Che dispiacere! Non sapevo che fare. L’ho portato in una clinica per cani. Ma il veterinario – un buddista pentito – pensava che me ne volessi sbarazzare in modo indolore, senza dovere sopportare le conseguenze del karma. Mi ha guardato strano. Poi, ha capito che, per me, è una specie di animale domestico. Mi ha rassicurato. Mi ha detto che una zampa in meno non avrebbe cambiato granché. Mi ha dato una pacca sulla spalla e mi ha congedato.

Io non mi sento strano. Per niente. Il mio amico brasiliano – Viveiros Te Incastro – dice che, in Amazzonia, adottano, a volte, i ratti, li accolgono in famiglia, li considerano animali da compagnia. I ragazzini si divertono con loro. Mettono loro dei guinzagli e li portano in giro per la foresta. Alle sue parole, mi sento sollevato. Non devo, inoltre, occuparmi di lui, del mio scarafaggio, in modo particolare. Uno scarafaggio non ha bisogno di cure speciali. È assodato. È meglio così, visto che io sono un gran pigrone. Vuole solo un po’ di compagnia e qualche carezza. In cambio, ti fa sentire la sua presenza rassicurante e gioiosa, innocua e pacifica. E non devi nemmeno portarlo in giro con il guinzaglio.”

L’antropologo britannico Gregory Bateson (1904-1980), un tipo particolarmente giocoso. Photo credit: The Bateson Institute.

Naturalmente, Viveiros Te Incastro è un nome di fantasia, ma è anche vero che c’è un implicito riferimento all’antropologo brasiliano Viveiros de Castro che, negli ultimi anni, ha prodotto un bel sommovimento nelle ricerche antropologiche affermando l’idea secondo cui alcune culture dell’Amazzonia vivono in sintonia con altri esseri (in Occidente visti come non-umani), considerandoli alla stessa stregua degli esseri umani, cioè in condivisione animistica. Ciò potrebbe stupire. Sarebbe possibile considerare, nella nostra cultura, uno scarafaggio, per esempio, al pari di un essere umano? Me lo chiedo.

Ogni cultura, di fatto, ritaglia il continuum dell’umanità e dell’animalità in modi molto diversi, creando insiemi disparati che possono sembrare molto strani agli occhi degli uni e degli altri individui appartenenti a società lontane nello spazio e nel tempo. Le conseguenze sono anche d’ordine alimentare e riguardano persino ciò che consideriamo commestibile. A me, considerata la cultura in cui vivo, non verrebbe mai in mente di mangiare un cane: cosa possibile, invece, nella cultura cinese. A un indiano, invece, non verrebbe mai in mente di mangiare una mucca: cosa del tutto possibile, al contrario, in Occidente.

Insomma, nel post, mi diverto a prendermi gioco di alcune categorie date per scontate, anche in termini di affettività e condivisione. Se è, per esempio, lecito portare un cane dal veterinario, nessuno lo farebbe per uno scarafaggio. Il cane va curato, lo scarafaggio va schiacciato! Io, invece, nel post, dico che mi affeziono a uno scarafaggio e lo porto persino dal veterinario affinché se ne prenda cura.

I ratti domestici da compagna sono sempre più comuni anche in Italia. Le categorie culturali attraverso le quali diamo un senso ad ogni animale (e ad ogni aspetto della natura) tendono spesso a cambiare nel tempo. Photo credit: Eticoscienza.

Detto e pensato questo, mi risolvo a mettere in moto l’auto e mi avvio decisamente verso casa. Non c’è traffico a quest’ora. Mi metto subito al lavoro, una volta arrivato a casa. Devo cercare, senza distrarmi, di concludere un saggio sulla natura felicemente indisciplinata, secondo me, del lavoro antropologico. Ma dopo un paio d’ore cedo alla stanchezza. Non ce la faccio più a pensare in maniera ordinata. E mi metto a giocare, manipolando una foto, trasformandola in altro: in una sorta di montaggio di elementi disparati e colorati.

Mentre mi rilasso, manipolando la foto, il mio pensiero va al punto che devo necessariamente fare nel saggio che sto scrivendo. Devo essere chiaro a riguardo. Non rifiuto l’esotismo, ma do valore a un’antropologia che si occupa dell’esistenza in tutta la sua ampiezza: lontano e vicino, nella prossimità e nella distanza. Sono ovviamente interessato agli usi e costumi di culture altre, lontane nello spazio. Ma, guardando indietro ai miei studi, questo asse di ricerca (che è poi un vero e proprio interesse personale per me e non soltanto accademico) si sviluppa in associazione con lo studio dei processi correlati che hanno accompagnato la ricerca nel suo divenire. Conoscere l’altro va sempre di pari passo, per me, con i processi posti in essere per conoscerlo.

Qualsiasi tipo di antropologia è sempre e comunque una antropologia della conoscenza, che si pone l’obiettivo di “studiare la natura dello studio stesso, il processo di acquisizione e conservazione dell’informazione” (Bateson 1997: 358). Questa è la ragione per cui mi ha preso tanto tempo produrre un volumetto, Vivere e morire. Una rapsodia etnografica, in cui interrogo l’alterità del morire (e del vivere) cercando, al contempo, di interrogare me stesso e la stessa ‘trascrizione’ del vissuto da me riportato in prima persona. Questa è la ragione per cui, riflettendoci, sono sempre un accanito lettore di Bateson. Penso a tutto questo, zigzagando tra i miei pensieri, lasciandomi trasportare mentre rimaneggio la foto saturandola di colori, rendendola quasi irriconoscibile all’immagine di partenza.

Un montaggio rilassante. Photo credit: Stefano Montes.

Terminata la manipolazione della foto, soddisfatto del risultato, mi rimetto al lavoro con maggiore lena. Riprendo a scrivere. Ma non dura molto. Mi distraggo facilmente. Mio fratello Mirko mi manda una foto sulla nostra chat comune e mi aiuta ad evadere. Lui si trova a Cuba da qualche giorno e mi tiene al corrente dei suoi movimenti nel paese, mandandomi qualche foto di tanto in tanto.

Sa che, se non avessi avuto da lavorare, sarei partito anch’io con lui. Così, almeno, attraverso le foto, mi fa sentire un po’ in vacanza. Guardando la foto, in effetti, mi sembra di essere in acqua mentre nuoto, guardo il fondo con interesse e faccio, ogni tanto, qualche immersione. Lascio correre l’immaginazione. La foto, non mi trasporta soltanto (memore del passato) nell’attesa del futuro, dell’estate e delle nuotate a venire. Mi ricorda anche un tempo lontano quando, da piccolo, me ne andavo in una zona di mare, nei pressi di Palermo, ricca di stelle marine e polpi.

Io e mio fratello ci alzavamo molto presto la mattina e ce ne andavamo a pescare. La zona di mare è molto cambiata adesso. È invasa da società che, purtroppo, l’hanno delimitata per affittare l’accesso al mare ai possibili bagnanti. Un’altra cosa è in parte cambiata, se non altro per me. Nel tempo, ho letto tanto sui polpi, sulla loro intelligenza (c’è un bel libro di Despret, per esempio, al riguardo) ed ho più remore, oggi, nel mangiarli.

Il mare di Cuba. Photo credit: Mirko Montes.

In effetti, riflettendoci, mi sento incoerente. Sulla base di questo principio, dovrei avere perplessità nel mangiare anche altri animali intelligenti o presupposti tali. E dovrei averne anche nei confronti delle piante che hanno, anche loro, una forma di intelligenza che si scopre, sempre più, sorprendente e vivace. Il fatto è che, come dicevo prima, ogni cultura stabilisce i propri criteri relativi a ciò che viene inteso come commestibile. Le culture sono, per quanto riguarda gli aspetti teorici, ritagli di categorie non sempre equivalenti dall’una all’altra. Viene solitamente ritenuto commestibile ciò che, nella specifica categorizzazione di una cultura, non è né troppo vicino né troppo lontano da sé.

Questa è la ragione per cui, nella nostra cultura, è più difficile considerare commestibile un orso (troppo lontano da sé) o un cane (troppo prossimo affettivamente a sé). L’attribuzione di affettività, dunque, è uno dei criteri più importanti per definire i principi regolatori della commestibilità. Per quanto mi riguarda, hanno giocato un ruolo importante le letture che ho fatto, nel tempo, sui polpi. Più ho letto, più ‘mi sono affezionato’ al loro modo di essere: esseri intelligenti.

Questo vale anche per i cani. Non potrei mai mangiarli perché ne ho avuto uno e, in genere, sono considerati, nella nostra cultura, animali di compagnia. Al contrario, non ho mai pensato di avere una mucca come animale di compagnia e penso che questa sia la ragione per cui accetto di mangiarla. Le cose, come già detto, vanno diversamente per gli abitanti di alcune regioni della Cina. Non solo mangiano i cani, ma ci prendono pure in giro perché mettiamo loro un guinzaglio e li portiamo, a passeggio, stupidamente, in giro per la città. A nessun membro della mia cultura verrebbe in mente, mangiando un salmone, di liberare lo spirito di un essere umano che andrà a reincarnarsi in un nascituro. Così è, invece, per i Kwakiutl della Colombia Britannica.

Macelleria “canina” presso il mercato di Yulin, in Cina. Photo credit: BBC News.

Insomma, ho pensato a tutto questo guardando la foto scattata da mio fratello in una spiaggia di Cuba. Ho pensato al futuro e al passato, alla pesca e alle nuotate, alla commestibilità e alle forme di distanza assunte nel tempo in seguito alle mie letture, alle categorizzazioni interculturali e alla consapevolezza che ognuno di noi ne ha. Ho pensato a tutto questo guardando una foto? Ebbene sì!

Il pensiero scorazza liberamente, senza necessariamente seguire le nostre intenzioni e motivazioni del momento. Abbiamo l’illusione di potere tenere il pensiero a bada. E crediamo, a volte, che la dimensione cognitiva sia relativa al solo pensiero intenzionale. Invece, siamo attraversati continuamente dai nostri pensieri incontrollati e dai nostri flussi di coscienza. È ciò che succede a me ora. In tutto questo andirivieni di pensieri non intenzionali, mi rimane un rammarico. Avrei dovuto essere anch’io a Cuba. Non ce l’ho fatta per via del lavoro ed anche perchè dovrei rinnovare il passaporto. Ma attraverso le foto di mio fratello è come se partecipassi anch’io al suo viaggio. Almeno in parte!

La questione ha un risvolto antropologico oltremodo interessante. Tanti anni fa, l’antropologo Marc Augé scrisse un saggio in cui spiegava bene che il viaggio non poteva effettivamente considerarsi concluso se non attraverso il racconto che si fa, ad amici e parenti, al ritorno a casa. Mi aveva particolarmente colpito questa idea perché non solo includeva nel viaggio il ritorno a casa, ma anche la sua narrazione. In qualche modo Augé ribadiva il principio, a me caro nelle mie varie ricerche, che la narrazione è dappertutto, persino laddove meno te lo aspetti: narrazione e vivere sono strettamente intrecciati.

L’antropologo francese Marc Augé (1935-2023), uno che amava raccontare i suoi viaggi al punto da non considerare un viaggio tale se non dopo che esso fosse stato raccontato. Photo credit: Wikipedia.

Nell’organizzazione narrativa d’insieme bisogna includere anche le foto. Le foto, ovviamente, hanno una loro specifica natura singolare. Ma, nell’insieme, tessono trame assimilabili, per quanto particolari, a vere e proprie narrazioni. Sono passati diversi anni dal momento in cui Augé scrisse quel saggio. Oggigiorno, per via dei moderni media, la narrazione del viaggio incomincia molto prima del ritorno a casa del turista. Il viaggio lo si racconta (attraverso messaggi e foto) durante il viaggio stesso.

Uno dei vantaggi, per il viaggiatore, è che il viaggio lo si può anche costruire sulla base del dialogo che si ha con parenti e amici durante il viaggio: lo si può modificare sulla base delle interazioni e dei consigli. Invece, uno dei vantaggi che hanno coloro i quali rimangono a casa risiede nel fatto che si vive una sorta di esperienza (quasi) in diretta, condivisa con il viaggiatore che invia foto e messaggi.

È anche vero che, così, il viaggio diventa meno viaggio rispetto al passato: nel senso che il viaggiatore, mandando foto e messaggi ai parenti, si sente anche un po’ a casa. Sarà così anche per mio fratello? Non saprei. Lui è ‘cusciulieru’, diciamo in siciliano (uno che ama uscire sempre e viaggiare tanto). Io so, per certo, per quanto mi riguarda, che mi sento un po’ a Cuba anch’io. So pure (penso di sapere) che, comunque, uno dei significati primari del viaggio risiede proprio nella condivisione. E questo vale sia per il giorno d’oggi che per il passato, quando ancora non esistevano i media digitali e di disavventure turistiche si parlava ancora attraverso le pubblicità in televisione.

Adesso, tenuti a bada i miei pensieri e le libere associazioni, mi spetta dire cosa ho inteso fare riportando un breve frammento della mia giornata. Ebbene, ciò che ho inteso mostrare è che persino un comune frammento di vita, in apparenza insignificante, contiene un forte nucleo di riferimento antropologico.

Tutto ciò che ho detto e fatto, va ribadito, non contiene elementi straordinari o esotici. E, tuttavia, come si è visto, i riferimenti antropologici sono densi e incrociati sia per quanto riguarda la cosiddetta comune digitalizzazione del vivere (chat, social media, smartphones), sia per quanto riguarda la routine in apparenza meno profonda di un individuo (una passeggiata, alcune foto, una sessione di laurea). In altri termini, ciò che ho inteso ribadire è che, oltre che sull’esotico, l’antropologia ha forte presa anche sul vivere comune e sulle sue varie forme di trasposizione (le foto, i testi scritti).

L’antropologo, in definitiva, deve cercare di cogliere anche la propria società, persino nei momenti più ordinari dell’esistenza, senza dimenticare che esiste anche un’alterità interna alla propria cultura di appartenenza. Scrive infatti Augé: “l’altro comincia accanto a me”. Questa analisi della vita comune può prendere forme diverse (inclusive della stessa interiorità dell’individuo) che non è possibile prendere in conto, qui, nella loro ampiezza. In conclusione, se vivere è un passare da uno stato all’altro, prendere coscienza di questo passare e delle sue varie forme di ritualizzazione quotidiana è un modo efficace per meglio circoscrivere il senso stesso dell’esistenza e del sociale.

Note
[1] In copertina, “Momenti di ordinaria esistenza”. Photo credit: Stefano Montes.

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